Lombardo e il lombardo


Senza i nomi, il discorso è risultato floscio. Raffaele Lombardo ha deluso le aspettative di chi voleva i fuochi d’artificio, e sull’arena ha lasciato solo quattro fiammiferi bruciacchiati.
La partenza è stata da sbadiglio. “Non ho ancora ricevuto un avviso di garanzia”, ha tuonato. Persino l’ultimo degli studenti di giurisprudenza sa che quando c’è di mezzo un’accusa di mafia, le procedure a tutela dell’indagato possono non essere quelle ordinarie.
Poi il governatore ha intonato un refrain berlusconiano: “Questo governo ha dato i veri colpi alla mafia”. Altro sbadiglio.
La ricostruzione di un complotto universale contro lui e i suoi assessori ha impegnato tutto il resto della pièce. In pratica, Giuseppe Firrarello e Franco Viviano, i vertici di Repubblica e quelli dei Ros, il boss Santapaola e Salvatore Torrisi (suo avversario politico del Pdl), Braccobaldo e la Banda Bassotti sarebbero pedine in uno scacchiere in cui lui, Lombardo Raffaele nato puro e braccato dalle forze del male, è il re da decapitare.
Perché?
Perché è bravo. O è scomodo. O è bravo e scomodo.
La presunzione di elargire una verità spacciandola per la verità è un errore non politico, ma di comunicazione. Il politico infatti usa il semplice metodo del “dire a proprio vantaggio”: basti pensare a un qualunque comizio elettorale.
Il comunicatore deve invece illudere gli ascoltatori col metodo del “dire per l’altrui vantaggio” anche quando parla esclusivamente di sé.
Lombardo ieri ha annoiato mortalmente come politico perché aveva annunciato un’esibizione da comunicatore.
Gli unici nomi che ha fatto erano quelli che da giorni abbondavano sulle pagine dei giornali.
Solo che li ha pronunciati con un’enfasi lodevole per effetto.
In Italia c’è un solo uomo che è in grado di ammaliare le folle promettendo e non mantenendo, trasformando in coraggio la propria faccia tosta, chiamando complotti le manifestazioni di dissenso.
E quell’uomo non è Lombardo.
Ma lombardo.

La colpa è di Franco Viviano

Dunque abbiamo trovato il colpevole. Se l’Italia si ritrova a discutere di un premier che smanetta col telefonino per cercare di mozzare le teste dei giornalisti televisivi che non gli piacciono, la colpa è di Franco Viviano.
La visione berlusconiana  della vita spinge a considerarlo un malfattore che ha sottratto fraudolentemente un fascicolo da un ufficio di una procura, per darne conto sul suo giornale.
La visione non berlusconiana lo identifica invece come un cronista che fa il suo mestiere: cioè raccogliere notizie che dovrebbero restare nascoste e renderle pubbliche come deontologia comanda.
So già come finirà.
Prevarrà quella stramba giurisprudenza sociale che in Italia vuole sugli altari chi commette il reato e nella polvere chi lo denuncia (anche a rischio della propria incolumità).
Tra qualche anno ai sopravvissuti di questa follia istituzionale travestita da trionfo della democrazia si potrà raccontare che nell’anno 2010 era giustificabile compiere un piccolo reato (come sottrarre un fascicolo dal tavolo di un giudice “benevolmente” distratto) pur di smascherare colui il quale pretendeva che i propri reati fossero, per decreto, cancellati. O, peggio, caricati sul groppone altrui.
E si dovrà ammettere senza moralismi che le fedine penali al lordo delle rivoluzioni non sono mai candide.

Internet e Cosa nostra

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