Piano B

Quanti di voi si preoccupano di avere sempre un piano B? Io raramente. E questa risposta potrebbe cozzare con un’idea di cui abbiamo già discusso, quella dell’uscita di sicurezza.  Ma diciamolo subito, c’è una differenza abissale: mentre la sola vista dell’uscita di sicurezza è consolatoria quando meno ce n’è bisogno, il piano B serve ad affrontare un’emergenza quando si ventila che essa si possa manifestare. Insomma la prima ci rassicura che tutto è possibile anche quando non ci serve altro di possibile, il secondo serve ad arginare l’impossibile.

Difficilmente ho avuto piani B, in vita mia.

Mi sono schiantato una mezza dozzina di volte in curve strette e senza guardrail e non so ancora se mi sono salvato per fortuna, per miracolo o per merito. Di certo stilare piani B mi annoia a morte. Ipotizzare scialuppe di salvataggio col mare ancora forza 4, mettere i sacchetti di sabbia alle finestre alla prima pioggia, muoversi per colloqui di lavoro quando ancora manco ti hanno licenziato, cercare fidanzata quando la moglie sta solo pensando di mollarti per il primo che passa, sono tutte attività poco eccitanti. Perché non c’è gusto a mettersi il vestito buono preparandosi allo schianto fatale: il piano B non è il casco prima dell’incidente, quella è prudenza; è piuttosto prevedere la strada che farà l’ambulanza per raggiungerti il prima possibile.

Il piano B, anzi la sua inutilità, mi ricorda un mio indimenticabile maestro, Salvo Licata, che a noi giovani aspiranti giornalisti (in gergo “biondini”) dei primi anni Ottanta spiegava perché non prendeva mai appunti su cosa dire a una conferenza: “Perché ogni volta finisco per ignorare il foglio o per perderlo e mi ritrovo a raccontare l’esatto opposto di quello che avevo segnato”.
Per molti di noi, il piano B è solo un alibi per mettersi a posto con la coscienza facendo finta di ignorare il gran vantaggio di usare l’incoscienza.
Ecco, non è lo “stay foolish” di Steve Jobs, ma qualcosa di simile. Aspettando il piano B sottovalutiamo il piano A, oppure ci impigriamo in scelte di comodo (un piano B che si rispetti non è mai comodo), oppure ci perdiamo la fondamentale paura di perderci per ritrovarci più a valle, sudati, sporchi, affaticati ma ricchi di un’esperienza in più.
Ci piace stare comodi, ma è con la scomodità che ci alleniamo. Ci piace intorpidirci, ma è con l’adrenalina che ci eccitiamo. Ci piace il minimo garantito, ma è col massimo dell’incognito che davvero possiamo sentirci vivi. Non è per tutti e da tutti vivere senza piano B, lo capisco. Gran parte di chi riesce a rinunciarci è gente che conosco bene, senza famiglia, senza padrone, senza timori.
Una volta, in uno dei miei cammini, mi persi in un bosco in mezzo a un temporale. Stavo in un terreno scosceso senza sentiero e con un fango che cominciava a diventare torrente. In quell’atmosfera quasi da disastrer (B) movie il cellulare (ovviamente) non aveva campo e la mappa su carta rischiava di diventare una poltiglia. Dal nulla, dopo un’ora di scivoloni e bestemmie, mi apparve un cartello sbiadito appeso a un albero.
C’era scritto: “Di qua”. Senza una freccia, senza un “qua” plausibile.
Non so perché ma lo ritenni il canto del cigno di un qualsiasi piano B.

Buon Natale a tutti.

Inquieti e infelicemente felici

C’è una cosa contro cui combatto ogni giorno che il Signore manda in terra. E cioè l’assioma che anche senza inquietudine si può fare romanzo: ergo che non è vero che belli tranquilli e sereni non si crea un tubo. Una verità anti-storica. Si vada a rileggere i grandi, a studiare le biografie di artisti, scienziati, filosofi eccetera. Dal comodo della nostra scrivania, con coniugi e conti in banca sorridenti, senza alcol, piccoli vizi, riti trasversali o additivi emozionali (come i sentimenti), in linea col politicamente sterilizzato nessuno potrà mai partorire un’idea degna di attenzione al di sopra della cintola dei social.
Ok, tutto normale sin qui.

Il problema è quando – ed è fenomeno abbastanza recente – tutta la narrazione* che parte dalla cronaca e che inesorabilmente lambisce la storia (anche minima) risente di questo mood.
E allora nel mondo dell’informazione si programma in modo tranquillizzante, si racconta col più rassegnato dei cronisti, si ravana negli account Facebook dei protagonisti e delle comparse, si recluta il passante per farne il testimone ideale di qualcosa di eterno (di Zapruder ce n’è uno solo).

Il concetto fondamentale, drammaticamente dirimente, che non deve passare è che le cose belle si fanno sempre canticchiando, che la creatività sia una autostrada tipo la Palermo-Catania, gratuita e senza responsabilità.
Non è così.
Anzi: non – è – così!
I romanzi, veri e metaforici (ognuno di noi ha il suo anche se non è di carta e di parole), sono atti di coscienza. Sono prese di responsabilità in cui uno si alza e dinanzi a una folla distratta ha l’ardire di battere un pugno sul tavolo e gridare: volete ascoltare una storia che non è vostra ma che potrebbe esserlo?
E se sarà fortunato – se lo sarà – qualcuno metterà da parte il telefono, chiederà un altro bicchiere di vino, si metterà comodo, magari abbraccerà la persona che gli sta a fianco. E dirà: dai, racconta.
E sarà un giorno per cui quelli come me, come noi, saranno felici di essere quello che sono. Inquieti e felici. 

*narrazione è parola irritante lo so, ma in questo caso non me ne viene una migliore.      

Misurare la felicità

Quando ero giovane mi dava felicità correre a perdifiato, mangiare biscotti su un albero, impennare con la moto e stare sdraiato sulla neve di notte a guardare le stelle (che per un siciliano è una specie di bug genetico). Col tempo ho cambiato modelli e gusto per certe situazioni e mi sono chiesto se la nostra idea di felicità si basa su ciò che ci è ontologicamente inaccessibile o difficile da raggiungere.
Goethe diceva che la felicità è una palla a cui corriamo dietro ovunque rotoli e che quando si ferma vogliamo spingere avanti coi piedi.  
Nel mio piccolo credo che il problema della felicità non sia il suo raggiungimento, ma la sua misurazione. Cioè so bene come e quando posso essere felice anche in modo trasversale, ma non so nulla di come stilare una classifica dei miei istanti felici. La foto di un bel momento, tipo un matrimonio o la conquista di un risultato sportivo o il primo giorno di scuola o l’ultimo di lavoro, cambia il suo peso emotivo a seconda dei tempi, dell’umore, dei destini che si sono aggrovigliati (la trasfigurazione di momenti incantevoli in incubi è un classico di chi ha vissuto in prima persona e non per procura).

Il problema si risolve togliendo alla felicità il suo presunto valore di ricompensa e considerandola come piacevole e inaspettato effetto collaterale. Una corrente di pensiero di quelli (tipo il sottoscritto) che si aspettano poco e niente dal genere umano punta all’estrema contingenza dei desideri, alla soddisfazione che non intacca il disastro altrui, insomma alla felicità che è tutto tranne che un vantaggio sull’altro. La filosofa e scrittrice albanese Lea Ypi ha stigmatizzato sul Guardian la frase “Don’t worry, be happy” (non preoccuparti, sii felice):

“Non credo che eliminando la preoccupazione resterebbe molto della felicità. Ogni azione richiede un misto di insicurezza, incoerenza del gesto, tentazione del male, incertezza della soddisfazione. Se astraiamo tutto questo dalla ricerca della felicità, è difficile dire che cosa rimane”.

La felicità è destabilizzazione e anarchia. È un paio di ali che ti si sollevano a tradimento senza chiederti il biglietto. È l’uscita di sicurezza che hai identificato quando non ce n’era bisogno. È il sogno non realizzato che, in quanto tale, continuerà ad accenderti sin quando avrai luce. È appartenenza a un branco in cui tu e solo tu sei capo, seguace e persino vittima.
È – scusate la semplificazione estrema – libertà.

Quattro chili

Sono uno che quando è triste mangia e quando è allegro beve. Insomma sono un pessimo spot per i luoghi comuni applicati all’umore. Però mi ascolto abbastanza per evitare di farmi prendere alle spalle da me stesso: i peggiori tradimenti vengono spesso da noi, e anche qui ci allontaniamo dai luoghi comuni.

Mi sono accorto di una cosa abbastanza normale per noi uomini di una certa età, cioè di aver preso qualche chilo. La cosa che mi ha suscitato qualche pensiero è come sia potuto accadere, anzi come è realmente accaduto. Da quando il mio papà ha scelto di viaggiare da solo e nonostante un mese abbondante di dieta analcolica, causa seccatura esofagea (che scritto così fa un po’ schifo, ammetto), il mio girovita ha subito una variazione. Poca roba, per carità: ma qui mi piace parlarne per centrare un tema, quello dell’imprevedibilità di certe sensazioni fisiche.

Si può essere felici nell’inquietudine e scontenti in un assetto di buon vivere. Io, che sono uno fortunato (almeno fino a ora, nonostante influssi che non appartengono alla mia sfera affettiva) ho imparato a distinguere il futuro da manuale da quello anarchico. Cerco di godermi il poco che raccolgo e il molto che mi dà chi mi vuole davvero bene e mi cimento nello smontaggio ulteriore dei luoghi comuni applicati all’umore.

Quest’estate camminerò un po’ meno dell’altra volta. Mangerò e berrò meglio e non chiederò troppo al mio fisico, che già mi ha fatto il favore di archiviare gran parte delle scemenze che gli ho imposto nei decenni meravigliosamente scellerati della gioventù. Non proverò vergogna per questi quattro chili in più (ebbene sì, ecco il numero che chiedevate senza chiedere). Cercherò di non essere triste e di mangiare e bere sempre come quando sono allegro. Non è vero che l’anima e il corpo sono una cosa sola. Dell’anima in fondo non sappiamo un tubo sino a quando siamo vivi e il solo pensarci mi deprime. Meglio occuparsi del resto.

I nostri errori

Una delle correnti più forti della vita è quella che ci porta lontano dalle cose e dalle persone per come le abbiamo costruite, o conosciute (apprezzarle o detestarle è un dettaglio di poco conto, come spiegherò tra poco). Il cambiamento è il motore di quella corrente, come l’elica di un transatlantico che rimescola, trascina, abbandona, trita, trasforma.
Uno degli errori più frequenti in cui ci imbattiamo è quello di addossare agli altri la responsabilità delle mutate condizioni, insomma il fulgore degli “altri tempi” è sempre merito nostro e colpa di chi è rimasto al palo.

Rassegniamoci, non è così.

Perché l’errore di prospettiva – di questo si tratta – dipende sempre da dove piazziamo la nostra telecamera virtuale. Se guardiamo una persona con occhi che stanno, diciamo, a livello 1 (e non è una scala di valutazione) è assai probabile che quando ci sposteremo o saremo spostati a livello 3 quella persona risulterà assai differente. Così è per qualsiasi esperienza, bella o brutta che sia (stata).
La mia prima maratona l’ho corsa a perdifiato senza mai fermarmi con due pacchetti di sigarette al giorno in corpo: ma avevo la telecamera piazzata a livello 30, i miei anni di allora. Oggi vado molto più piano e osservo il mondo da un livello diverso, però i chilometri che – a Dio piacendo – percorrerò quest’estate a piedi saranno la lente che frapporrò tra la mia telecamera e il mondo che mi circonda. E serviranno ad annullare l’errore di prospettiva di cui sopra.

Certo, minchiate ne facciamo. Non è che nel segno dell’armonia dobbiamo dimenticare gli errori commessi o le trappole in cui siamo caduti. Però l’importante è non abboccare all’amo degli “altri tempi” e coltivare serenamente i nostri dubbi e le nostre incertezze.
I nostri errori migliori sono quelli che ci hanno colti vivi. Che ci hanno consentito di correggere il tiro, di chiudere porte, di tuffarci in mare aperto, di imparare a fidarci, di sperimentare nuove alchimie.
C’è sempre tempo per spostare la telecamera, trovare una nuova inquadratura e vivere sereni. Fregandosene della corrente, avversa o favorevole che sia: tanto cambia sempre.

Uscita di sicurezza

C’è una teoria molto personale che i miei amici più cari, diciamo quelli che si contano sulle dita di una mano, conoscono bene perché è (stato) un tema di grande discussione.

È la teoria dell’uscita di sicurezza.

Consiste in questo. Quando sei felice, realizzato, appagato, soddisfatto e via gongolando, non dimenticarti mai di guardarti intorno e di visualizzare l’uscita di sicurezza. Non la imboccherai, non ti servirà mai, magari ci riderai su, ma è fondamentale vederla. Perché è facile cercarla quando sei in difficoltà o in stato d’allarme, lì non c’è bisogno di nessuna teoria: bastano due gambe forti e la determinazione di dirsi “pronti, via… scappare”.

La vera visione strategica della felicità (o del suo surrogato), la weltanschauung realmente efficace del sentimento applicato alla cronaca, cioè ai cazzi di ogni giorno per evitare di finire lobotomizzato nella logica “Famiglia del Mulino Bianco”, è quella che ci rassicura quando non ne abbiamo bisogno.

Capisco che è un concetto non semplice da spiegare, ma credo anche che sia semplicissimo da intuire. La teoria dell’uscita di sicurezza non ci mette in fuga, ci evita l’intorpidimento dei sentimenti, ci comunica con la sua semplice evidenza che tutto è possibile anche quando non ci serve altro di possibile (o ci illudiamo che così sia). La felicità (o il suo famigerato surrogato) vive di contrasti, non è mai assoluta: è un tramonto dopo una giornata assolata e prima del buio; è un bacio che vuole diventare altro o che mai lo sarà; è persino una delusione che non si è trasformata in disastro. C’è un solo modo per darle la giusta cornice, ammirarla in un orizzonte di libertà dove c’è un minuscolo puntino, una porticina, che dà su un’uscita che probabilmente non imboccheremo mai. Ma che c’è, esiste ed è meraviglioso che ci sia.  

Il momento perfetto

C’è una teoria, che ho studiato snocciolato discusso confutato riesumato valorizzato rinnegato diffuso messo in pratica, che serve a evitare il trappolone della ricerca della felicità.
È quella del momento perfetto (MP).
Funziona così. Siccome la felicità è una cosa complicata e alquanto impossibile da raggiungere, ci devono essere dei passaggi alternativi che non sono scorciatoie, e soprattutto ci deve essere un surrogato di buon sapore alla portata di tutti. È così che prende corpo la teoria del MP.
Un momento secondario, non memorabile ma in cui state benissimo.
Un istante in cui le convergenze astrali, tutte insieme, vi danno una pacca sulla spalla: vai sereno.
Un attimo di soddisfazione inaspettata.
Un nanosecondo senza quell’ossessione che vi rovina la vita.
Un weekend di fuga in cui gli inseguitori si arenano al pit-stop.
Un viaggio, un pranzo, una birra, un panorama, un sorriso, una parola, una telefonata, un pensiero inaspettati.
Qualunque cosa e qualunque persona vi inducano, in quell’istante, a considerare con transitoria fermezza un fondamentale concetto di felicità aleatoria: “In questo momento non vorrei essere in nessun altro posto al mondo”. Il “momento” è fondamentale giacché, come indicato qualche riga sopra, l’unica felicità realmente accessibile secondo lo scrivente è comunque un surrogato. E, suvvia, non date una valenza negativa ai surrogati, al contrario confessatevi che è giunto il momento di rivalutarli. La crisi dei valori assoluti – che probabilmente sono franati con l’Armageddon della ragione social – ha spianato la strada a un relativismo di sopravvivenza (e qui sparatemi alla nuca se inciampo nel diegofusarismo). Occupiamoci del qui e adesso, l’eternità è dei morti.
Il momento perfetto è la salvezza di chi sa inventarsi una simil-libertà controcorrente, di chi crede alle favole fatta la tara del lieto fine, di chi sa che un accordo è fatto di almeno tre note ma solo una avrà l’onore di prevalere. Il momento perfetto è dei coraggiosi che hanno paura della banalità. Non vi salva la vita, ve la colora.

Il calcolo imperfetto della felicità

ormone-felicita-3felicitàAmo il Natale. Aspetto questo periodo sin da Ferragosto: non sono stato concepito, allevato, assemblato per l’estate, nonostante la mia passione per il mare. Sono il freddo, le giornate corte, l’imminenza di una vacanza in montagna che mi accendono. Il resto è solo un riempitivo emozionale, un frammento di countdown felice.
Oggi mia moglie ha fatto l’albero, come da tradizione, e io mi sono goduto un paio d’ore di estasi domestica. La musica in sottofondo, lei che armeggia (non senza lamentarsi) con un albero ecologico zoppicante, la casa che cambia penombre, la gioia di un calore fisico che non è atmosferico.
Di tanti (ormai troppi) Natale è fatta la mia vita, dalla delusione di un Babbo Natale che non esiste alla gioia atavica per la stagione dello sci, i ricordi hanno superato quantitativamente le aspettative. Eppure ogni anno è una scoperta, un censimento di emozioni: non c’è mai una festa uguale perché il calcolo della felicità è imperfetto, spesso col passare degli anni è una somma di sottrazioni. E se sei costretto a fare i calcoli non è detto che tu debba avere confidenza con la matematica, basta solo un pizzico di autocritica. Alla fine – potenza del clima natalizio e del velo di ottimismo che mi droga – penso che saggezza significhi saper limare le imperfezioni.
Quindi buon Anticipo di Natale a tutti. Che il pensiero semplice sia con voi.

La vera infelicità dei finti felici

finta felicità

Si riconoscono perché sono dappertutto nel web, occupando ogni bacheca, salendo su ogni strapuntino dei social, aggrappandosi all’ultimo messaggio di posta elettronica. Sono i primi della mattina e gli ultimi della notte, danno il buongiorno e la buonananna in monologhi monosillabici spesso comprensibili solo a loro.
Tu magari non conosci nessuno di loro personalmente, ma leggendoli capisci subito qual è il loro tormento, ti rendi conto della prigione invisibile dentro la quale perdono il loro tempo. Sprizzano allegria quando non c’è niente da ridere e ballonzolano scribacchiando soddisfatti quando chiunque altro al posto loro si prenderebbe un paio di goccine e andrebbe a farsi un pisolino.
La loro sintassi è piena di parole forzatamente allungate, tipo bellooooo, gronda di emoticons senza alibi e ostenta un’ipertrofia di punti esclamativi. E poi è la quantità che li tradisce. Queste persone sono sempre oltre misura. Scrivono o chattano o postano a raffica tradendo un distacco grottesco dalla vita reale. Se si trovano in difficoltà non chiedono aiuto, ma si vantano della propria forzata indipendenza. Se si trovano in situazioni potenzialmente idilliache fingono di essere beati, e si capisce che preferirebbero essere infelici ma in compagnia.
La solitudine è il loro vero nemico, ma non è il loro vero problema.
Sono i finti felici, sono tutti quelli che si trovano nel posto sbagliato o giusto senza la persona giusta, tutti quelli che non ammettono di essere scontenti e simulano soddisfazione, tutti quelli che fanno finta di ricominciare e invece per debolezza non hanno ancora avuto il coraggio di mettere una pietra sopra. I finti felici, poveri loro, ci raccontano quel che si raccontano: una storia sbagliata, dal finale truccato.
Solo che noi tutti – felici o infelici, ma veri – abbiamo pietà di loro. Loro non hanno nemmeno pietà di se stessi.

Tante cose belle

Tra le foto del mio passato c’è questa, che non mi appartiene e non mi ritrae. E’ una foto che per la leggerezza del gesto e per il momento che ferma, mi è sempre rimasta in mente come qualcosa di vago e bellissimo. L’avevo vista una volta molti anni or sono, ero anche presente quando fu scattata, ma nulla di più. Poi, qualche giorno fa, ho chiesto ai miei due amici che sono immortalati nello scatto di averla. Perché? Perché mi piace, perché la voglio pubblicare sul mio blog. E perché – loro lo hanno appreso un po’ sbalorditi – fa in qualche modo parte del mio passato pur raccontando un’altra storia felice, la loro.
Quindi eccola qua.
Dobbiamo essere egoisti e spregiudicati con le cose belle.