Non cogito ergo sum

La bufala dell’ “anch’io sto disattivando” riferita a Facebook è una preziosa occasione per fare il punto sul livello allarmante (e, diciamolo, indecente di credulità a buon mercato) e su quella che un gruppo di psicologi inglesi ha chiamato sugrophobia, ovvero il timore ossessivo di essere raggirati.

Ci sono argomenti a buon mercato per ridere di chi crede ancora a queste scemenze  – e ci sono purtroppo fior di professionisti, di persone non incolte, di miei amici tra loro – il più realistico e grave è quello legato al “tanto non mi costa niente” oppure al “per sicurezza condivido”. Che è la certificazione di una caduta degli anticorpi contro l’illogico. Come se le cazzate fossero vento innocuo e noi tutti fossimo bandiere che garriscono al primo soffio o, a seconda dei casi, al primo peto. No, noi non siamo vele, drappi esposti passivamente alle correnti, noi siamo quelli che le governano, le correnti. Siamo noi che scegliamo se veleggiare o opporci, se accodarci o deviare. Neanche il copia-incolla proposto con umiliante semplicità (“tieni il dito ovunque in questo post…”) suscita in queste anime candide quel minimo di risveglio intellettuale che dovrebbe fare di noi creature senzienti.
Perché? Perché non leggiamo, non leggiamo nulla. La maggior parte di questi spanditori di spam non legge nemmeno ciò che condivide: ed è un dramma dato che si tratta, ripeto, in gran parte di gente che non sta ai margini del mondo e che ogni giorno col suo lavoro e la sua opera contribuisce alla costruzione di ciò che ci circonda, alimenta, rende migliori.
Ciò mi allarma moltissimo. Mi allarma soprattutto l’orgoglio con cui ci sono persone che potrebbero scegliere di essere consapevoli e non lo fanno. Persone che scelgono la distrazione, la superficialità, la grettezza (non tutte insieme magari) e non se ne pentono.
Io me ne vergognerei, ma ho vergogna ad averlo scritto quindi fate conto che non lo avete letto.

L’altro tema è quello della sugrophobia di cui, immagino, queste persone poco o nulla sanno. E si capisce benissimo poiché esse sono la dimostrazione di un’inversione di trend che scompagina i piani degli psicologi. Dai negazionismi al Trumpismo, dai no vax agli inseguitori del chip sottopelle, c’è sempre stata la domanda strisciante alla base di ogni dubbio senza dubbi: “Non mi farò mica fregare, io?”.
L’illusione di essere più furbi degli altri e la certezza che anche dinanzi alla prova più schiacciante “a me non la si fa”, oggi con l’“anch’io sto disattivando” franano senza timore nella valle del qualunquismo orgoglioso.
Non ho un’idea e per giunta ne vado fiero. Mi dà noia impegnarmi a vagliare un’informazione anche se è alla portata di tutti. Nel dubbio abbocco. E, quel che è peggio, non me ne frega niente se faccio la figura del coglione. È il trionfo di un pericoloso sentimento, il checazzomenefreghismo.
Non cogito ergo sum.      

L’utile e gli utili

Undici anni fa il Time incoronò come persona dell’anno Mark Zuckerberg con una spiegazione che oggi fa sorridere: perché avrebbe dovuto “domare la folla urlante e trasformare il mondo solitario e antisociale in un mondo amichevole”. La storia è abituata a farsi beffa di noi umani che vorremmo domarla, piegarla, condizionarla con previsioni azzardate. Dal 2010 a oggi molto è cambiato, ed è cambiato proprio a causa dei social network. Le folle urlanti sono tutt’altro che domate e anzi ululano proprio su Facebook e dintorni, la solitudine è stata accresciuta dall’estinzione di un sentimento comune basato su ragionamenti e il mondo più amichevole che conosciamo è forse quello che sta meno a portata di clic.

Per capire ciò di cui stiamo parlando dobbiamo tenere a mente che, pur evitando pericolosi complottismi, il mondo che conosciamo si regge fondamentalmente sul cemento di consensi versato da Facebook, Microsoft, Apple, Alphabet (la holding a cui fanno capo Google e altre aziende collegate) e Amazon. E che tutte insieme queste aziende alla fine del 2020 avevano una capitalizzazione di mercato di 7.500 miliardi di dollari: cioè se fossero un paese, il loro prodotto interno lordo sarebbe quasi quattro volte quello italiano. Attenzione parliamo di aziende giovani con storie incredibili alle spalle: nel 1997 la Apple era sull’orlo del fallimento; il primo anno in cui Amazon ha fatto profitti è stato il 2001; Facebook è nata nel 2004; Google è stata quotata in borsa nel 2005. Insomma la tecnologia che usiamo oggi è il frutto di interazioni inusitate: hippy, università, marijuana, garage, libri, follia e illuminazione. Sarà interessante vedere cosa si sta seminando adesso, in questi anni lontani da tutti gli altri anni, diversi, unici e speriamo non ripetibili.

Di certo sta fiorendo una grande illusione e cioè che il fatto che Twitter blocchi Trump sia una garanzia di libertà. La certezza che un prepotente, pericoloso e arrogante, in posizione di dominanza assoluta, venga azzerato da un social network per garantire un mondo migliore, svanisce dinanzi alla consapevolezza che un ristretto gruppo di persone nella Silicon Valley sta ridefinendo le nostre modalità di espressione, creando una sorta di zona grigia dove le regole si collocano da qualche parte, indefinitamente, tra la democrazia e il giornalismo, tra la libertà di espressione e gli utili di una azienda privata.          

Il dio pazzo del web

L’articolo pubblicato sul Foglio.

Sarà un dio e sarà pure un pazzo. Sarà burlone e ingiusto, ma è un dio che ci sa fare con gli affari. Fiuta la preda, la insegue e la fa sua: senza finirla, anzi iper-alimentandola e spingendola verso la bulimia. Più lei consuma, più il dio è soddisfatto. Più lei consuma, più lei stessa è sfiancata. Funziona così nel regno del web, nel cielo dei cieli telematici dove vive e regna nei secoli dei secoli il dio algoritmo.

Accade così che l’inspiegabile si dipani chiaro, come una pergamena srotolata, dinanzi ai nostri occhi e che Nostro Signore del bit ci reputi degni di assistere al più antico dei prodigi, quello della creazione.

Angela Chianello, da Palermo, è la raffinata esegeta degli sviluppi del contagio del Coronavirus, una via di mezzo tra la divulgatrice fai-da-te e l’opinionista da supermercato, che ha coniato il tormentone “Non ce n’è Coviddi”. Lo ha fatto dal suo privilegiato punto di osservazione – la spiaggia di Mondello nei giorni di uscita dal lockdown – scegliendo come tribuna l’agorà televisiva di Barbara D’Urso. La Chianello è l’ultima creazione del dio algoritmo, ed è stata plasmata con la sabbia del golfo di Palermo a futura memoria di un bel po’ di cose.

Non è bella, non è colta, per quel che si sa non è nemmeno cattiva (che pure è una caratteristica cruciale per farsi ricordare in questi tempi senza memoria), non ha un’arte da tramandare né un messaggio da diffondere che vada oltre le dieci sillabe. Lei esiste in funzione di ciò che non esiste, il “Coviddi” appunto, e fa discepoli senza bisogno di spezzare il pane e versare il vino (al limite può dividere un’arancina e sorseggiare una Fanta). Però fa miracoli niente male: la moltiplicazione dei followers è il più impressionante con quasi duecentomila seguaci in pochi giorni. Un suo video su Instagram dove dice semplicemente “Buongiorno” sulle note di una canzone napoletana totalizza cinquecentomila visualizzazioni in un fiat. Ha già diversi profili fake, come un Salvini di questi, e addirittura sdogana un triste oggetto di protezione come feticcio postmoderno quando, disvelando le labbra dal cupo di una mascherina, dà la buonanotte ai suoi ammiratori con sguardo ammaliante. 

Il dio, per via del suo mestiere di dio, ovviamente non si può criticare. Qualche sua opera sì. O meglio ci si può addentrare nei meccanismi della creazione per cercare di intuire se la fine del mondo è a portata di mano oppure se dobbiamo aspettarci altre rivoluzioni e/o benedizioni da Chianello et similia. Quindi con una mano snoccioliamo il rosario di grani bluetooth rincuorandoci con le parole di Vincent Van Gogh secondo cui “non bisogna giudicare il buon Dio da questo mondo, perché è uno schizzo che gli è venuto male”, e con l’altra entriamo nel backstage di una qualunque timeline di un social network come Facebook. Qui l’algoritmo non è altro che lo strumento attraverso il quale il motore del social decide, nello sterminato scenario delle combinazioni possibili, il peso di popolarità delle notizie che l’utente vede appena entra nel proprio account. Il meccanismo di funzionamento è segreto, tipo ricetta della Coca Cola (solo che qui si tratta di una lattina dalla quale bevono più di due miliardi di persone), ma qualche anno fa Adam Mosseri, ex responsabile dello sviluppo del News Feed a Facebook e oggi numero uno di Instagram, si è sbottonato in pubblico sulla logica dell’algoritmo.

In pratica Mosseri lo ha descritto come un “metodo naturale” attraverso il quale si possono prendere delle decisioni basandosi sulla storia precedente e sui dati a disposizione, facendo quindi delle inferenze- cioè delle deduzioni intese a provare o sottolineare una conseguenza logica – derivanti da questi. Domanda cruciale: quali sono i dati importanti, secondo Facebook, attraverso i quali si possono fare queste benedette inferenze?

Proviamo a spiegare senza incorrere nella blasfemia, dato che il dio del web è incazzoso e a farti passare dalla spiaggia della Chianello alla triste libreria di un qualunque Piero Angela ci mette un clic.    

Funziona così. Rispetto a tutti i post degli amici o delle pagine (Inventory) seguite da ciascuno di noi comuni mortali, l’algoritmo di Facebook verifica alcuni segnali (Signals) come per esempio chi ha postato cosa, fa delle predizioni in base alla storia passata di altri post, magari con caratteristiche simili, che sono stati commentati (Predictions) e attribuisce quindi ai singoli post un punteggio (Score).

Quindi per ogni singolo post l’algoritmo di Facebook analizza tutti i dettagli: chi ha postato, cosa, quando, che tipo di contenuto e quanto engagement, cioè coinvolgimento, ha generato finora. Al termine di questo processo, che qui è un ingombro di parole impilate ma nell’universo del dio web è lieve e istantaneo, si viene a creare un valore finale.

Questo valore è la scommessa dell’algoritmo su quanto egli crede che quel post possa piacere. Nel rispetto di quel punteggio, i post vengono messi in ordine nel News Feed del singolo utente da quello più alto a quello più basso. Ogni singolo utente si ritrova quindi un News Feed personalizzato, perché deriva sostanzialmente dalla sua interazione con le altre persone sul social network e dalla sua interazione con i diversi tipi di post. Insomma se fossimo al ristorante sarebbe un menù ad hoc coniato sulla base di ciò che abbiamo mangiato in passato, di ciò che mangiano abitualmente i nostri amici, di ciò che teniamo nel nostro frigorifero a casa, e di ciò che pensano i nostri amici del loro e del nostro cibo (e del nostro frigorifero): la qualità del cibo non ha nessuna influenza.

Nulla è per caso in questo mondo in cui persino un concetto rigido come quello di censura viene declinato a favore della pazzia del dio. Pensate alle foto di donne che allattano al seno o alla celebre immagine della ragazzina nuda che fugge al Napalm di Saigon: per il Nuovo Ordine Telecostituito si tratta di pornografia e vanno eliminate. Mentre bugie, fake news, propaganda nazista e contenuti trafugati ai legittimi autori sono ammessi e anzi in un certo senso incoraggiati poiché creano engagement, alimentano discussioni, insomma fanno tutto l’interesse dei social network e del loro mercato di interazioni. C’è un genere di errore stupido che solo le persone intelligenti possono commettere: presumere che un fatto acclarato possa sconfiggere una bugia facile e rassicurante.

Nel suo libro “The Four – I padroni” Scott Galloway, imprenditore ed esperto di marketing, spiega il successo di Google, Facebook, Apple ed Amazon con una frase secca: “Hanno sfruttato i nostri istinti”. Nello specifico Galloway affida un ruolo preciso, immaginifico ma non troppo, a ciascuna di queste quattro aziende.  “Google è il dio dell’uomo moderno. Immagina la tua faccia e il tuo nome su un libro che raccoglie tutto ciò che hai chiesto al motore di ricerca e capirai che ti fidi di Google più di qualsiasi entità al mondo”. Facebook ha invece una diversa collocazione. “È l’amore. Una delle cose meravigliose della nostra specie è che non solo dobbiamo essere amati, ma dobbiamo anche amare: Facebook soddisfa il nostro bisogno di amore”. Continua Galloway: “Amazon è il nostro intestino, e si occupa dell’istinto che forse sentiamo di più. Basta che tu apra uno dei tuoi armadi: magari hai da dieci a cento volte più di quello che ti serve. Perché? Perché la pena di avere troppo poco è molto più grande di quella di avere troppo”. Apple è il sesso, “il nostro secondo istinto più potente: scegliere il miglior seme in circolazione, per le donne, o diffonderlo, per gli uomini”. In tal senso, secondo Galloway, l’iPhone non è solo un telefono, ma è anche un goffo tentativo di affermare: “Se ti accoppi con me e non con un uomo Android, i tuoi figli avranno più probabilità di sopravvivere”.

Il dio algoritmo vede e provvede, in ogni ambito, in qualunque frangente, incoraggiato dal comportamento dei suoi sudditi, i consumatori, che hanno fatto chiaramente capire di essere disposti di rinunciare alla privacy in cambio di uno strumento che pensi e che agisca per loro: una vita per procura. Nessuno si inquieta se la tecnologia di ascolto del rumore ambientale di Facebook può capire se sono a un concerto di un certo cantante e, conseguentemente, mostrarmi la pubblicità di un suo nuovo album o comunque di qualcosa di collegato al suo merchandising. Però se si toccano temi come la religione o l’animalismo scatta subito una agitazione collettiva. Recentemente, senza troppi clamori, la Verify, azienda della Alphabet, si è lanciata nel campo delle assicurazioni sanitarie con la sua Coefficient Insurance. Ricordare che la Alphabet è una holding a cui fa capo Google non è un dettaglio: in pratica chi conosce i dettagli più intimi della nostra vita quotidiana, i nostri contatti, la frequenza con cui interagiamo con essi, i nostri desideri che elenchiamo quotidianamente sul motore di ricerca, adesso può valutare la nostra esposizione al rischio meglio di qualsiasi altra compagnia assicurativa.

Non è la prima volta che un’azienda tecnologica entra a gamba tesa nel settore dell’assistenza sanitaria. Già in passato, ben prima dell’emergenza Coronavirus, Alexa (Amazon) e DeepMind (Alphabet) hanno iniziato a lavorare col servizio sanitario inglese, la Apple ha collaborato con la compagnia assicurativa Aetna per usare i dati degli Apple Watch e premiare gli utenti che hanno stili di vita salutari, e Facebook ha lanciato Preventive Health, uno strumento che consiglia agli utenti di sottoporsi a controlli medici in base all’età e al sesso.

Il problema non è di privacy – elemento ben pesato dai giganti del web e affrontato anche in sede legislativa in vari Paesi – ma è sociale. Se ne è occupato recentemente sul Financial Times il sociologo Evgeny Mozorov avvertendo sul rischio “delle possibili riconfigurazioni di potere tra gruppi sociali – i malati e i sani, gli assicurati e i non assicurati, i dipendenti e i datori di lavoro – che saranno innescate una volta esaurito il clamore della notizia (il riferimento è al lancio della Coefficien Insurance). Bisogna essere molto ingenui – scrive Mozorov – per credere che un sistema di sorveglianza digitale più esteso, sul luogo di lavoro ma anche a casa, in auto e ovunque ci porti il nostro smartphone, possa favorire i più deboli. Certo potrebbero esserci effetti positivi (un ambiente di lavoro più salutare, forse), ma dovremmo chiederci: chi pagherà il prezzo di questa utopia digitale?”.

La risposta ovviamente non interessa il dio algoritmo. Però un’interessante chiave di lettura la fornisce il filosofo e professore presso il Gettysburg College in Pennsylvania sulla rivista digitale Aeon, partendo da un’altra domanda: abbiamo davvero il diritto di credere in ciò che vogliamo?

Secondo DeNicola questo diritto ha dei limiti importanti.

“Credere in qualcosa significa ritenerlo vero – ragiona DeNicola – ma questo non implica in modo automatico che quella convinzione lo sia realmente. Le credenze, per la maggior parte, non sono atti volontari, ma piuttosto idee e atteggiamenti. Il problema è rifiutare questo genere di ‘eredità’ quando si tratta di una credenza eticamente sbagliata – come considerare la pulizia etnica una soluzione politica accettabile”. Continua il filosofo: “Se una convinzione è immorale è anche falsa. Sostenere, per esempio, che una razza sia inferiore a un’altra, non solo è moralmente ripugnante, ma è anche sostanzialmente falso. Le credenze inoltre hanno uno stretto rapporto con la realtà e con la sua conoscenza: attribuire a un’autorità il fatto che dobbiamo credere in una cosa, oppure negare un avvenimento certo o ancora ignorare evidenti incoerenze è un atto di irresponsabilità, somiglia piuttosto a voler abbracciare un desiderio. Per questo – conclude DeNicola – la libertà di credere deve avere dei limiti”.

Sarà un dio e sarà pure un pazzo. Sarà burlone e ingiusto, ma è un dio che ci sa fare con gli affari. L’algoritmo ha costruito la sua roccaforte decostruendo le antiche logiche: oggi la verità e la falsità palese sono del tutto ininfluenti in termini, ad esempio, di successo politico. Sempre più persone rifiutano i fatti perché minacciano l’identità che si sono costruite intorno alla loro visione del mondo.

La Chianello in tal senso è un prototipo di successo.

Piedi, selfie e altra fuffa dei social

L’articolo pubblicato su Il Foglio.

C’è qualcosa di utile in ciò che è perfettamente inutile: e cioè che lo si può usare come cattivo esempio. Almeno nella vita reale, al di qua del moderno specchio delle nostre brame, ergo lo smartphone. Dall’altro lato, nell’universo virtuale, tutto cambia. L’utile e l’inutile si diluiscono in una marea oleosa nella quale persino il cattivo esempio annega anonimo e umiliato dal non essere più né cattivo né esempio. È il trionfo di una lanugine del pensiero che avvolge e non ripara, sovrasta e non copre, ingombra e non riempie: la fuffa dei social.

Tutto è iniziato quando abbiamo rivolto verso di noi l’obiettivo del cellulare e da cultori più o meno scafati di un voyeurismo innocente e casereccio che alimentava l’interesse per le immagini degli altri, siamo diventati indefessi produttori di immagini da far guardare agli altri. E in questa rivoluzione, che è tecnologica, di costume e di linguaggio, abbiamo sovvertito una serie di regole che originariamente tendevano a raffinare il prodotto, a centellinare i risultati.

Nel passaggio dall’autoscatto al selfie si modifica un fattore determinante come quello del tempo: oggi il risultato è subito visibile, non è più un investimento che potrà essere riscosso dopo sviluppo e stampa, bensì una astrazione di realtà ripetibile, duplicabile e modificabile all’infinito. Quel braccio teso nei selfie è un invito a oltrepassare la cornice del ritratto e a entrare in comunicazione. Ma con chi? Non certo con l’individuo che si è autoritratto poiché nulla è più insondabile di un’immagine ciclostilata a uso e consumo di milioni di occhi. Entriamo in comunicazione col coro degli “adoratori della fuffa”, di cui quell’immagine è parte infinitesimale, ci lasciamo accogliere nelle echo chambers dove ciascuno vede solo ciò in cui si riconosce e che si aspetta di trovare.

L’autoselezione, cioè il volontario intruppamento in una conventicola di followers, è un elemento determinante per il proliferare incolto della fuffa nei social network.

Il caso dei tramonti è prezioso per spiegarne le dinamiche.

Non c’è nulla di più falso della foto di un tramonto. Perché già nell’attimo stesso in cui lo smartphone la cattura, un sistema elettronico ha colorato e alterato l’immagine (che è un controluce per antonomasia) uniformandola a parametri che la renderanno simile a milioni di altre immagini scattate davanti a milioni di altri tramonti. Non è tema di esclusiva pertinenza tecnologica, basti pensare alle ripercussioni sulla filosofia che divide i fotografi tra “albisti” e “tramontisti”. Giacché un’alba si cerca e un tramonto si trova, con quel che ne consegue in termini di fatica, dedizione e competenza, una semplice opzione sulla app di qualsiasi telefonino è in grado di trasformare un sole caldo in un sole freddo e viceversa: risultato, la moltiplicazione infinita di immagini nate e morte false. Eppure l’oppio delle echo chambers produce la reazione opposta a quella che ci si dovrebbe aspettare. In un tripudio di cuori, pollici alzati, faccine sbalordite, sale il coro dei “bellissimo/a”, come se contasse davvero quella macchia di colore rossastra, come se Zanzibar e Ustica avessero davvero un sole diverso, come se quel bicchiere in primo piano (la foto dell’aperitivo al tramonto è una pratica che ha più a che fare con l’onanismo che con la socialità tecnologica) raccontasse davvero una situazione unica.

L’applauso all’emozione contumace premia la conventicola stessa, è più pacca sulla spalla agli amici del gruppo che complimento all’autore. Più effetto che affetto.

Sarà per questo che ormai non ci curiamo nemmeno di apparire al meglio della nostra forma, di metabolizzare raffiche di selfie che non ci soddisfano, che non cestiniamo il brutto per valorizzare almeno il passabile. Che addirittura ci ridicolizziamo con evidente orgoglio mediante stickers o adesivi virtuali, ci mettiamo orecchie da coniglio, nasi da topo, che ci deturpiamo gioiosamente i volti con effetti visivi da casa degli orrori, che accettiamo di metterci in mostra nel luna park del web come non siamo mai stati e come in fondo non vorremo mai essere.

Perché l’applauso non è per noi, e lo sappiamo pur senza essercelo mai confessato, ma è per il circo che ci gira intorno e che usa gli stessi codici per blandirci e rassicurarci: smorfiette, emoji, pollici, cuori.

La fuffa rassicura e scaccia ogni forma di ansia perché droga ogni forma di giudizio.  

Persino il metodo più naturale di narrazione, quello che inquadra il divenire nel suo tragitto inesorabile tra punto di partenza e punto di arrivo, viene stravolto senza che si ridesti in noi il sistema immunitario sociale del senso del ridicolo. È il caso dell’“effetto boomerang”, una applicazione che crea delle brevi gif, ossia scatta una serie di foto in sequenza e le mette insieme formando un video pochi secondi. Il risultato è una galleria nevrotica di smorfie in loop, piedi barcollanti, cucchiaini che affondano nel gelato senza ferirlo, di corpi che resuscitano dalle acque: un panorama tremolante e ossessivo che fa dell’effetto (manco troppo) speciale il mezzo per raccontare una storia troppo breve per essere storia e troppo lunga per essere tollerata senza un sorriso.  

Nel 2014 lo psicologo ed economista ambientale Dan Ariely definì sul Wall Street Journal le cinque ragioni psicologiche per spiegare il fenomeno dei selfie: “1) ci serve a fermare l’attimo; 2) ci permette di continuare a vivere il momento (se dovessimo fermarci a chiedere a un’altra persona di scattarci una foto, smetteremmo per un attimo di viverlo); 3) condividiamo l’esperienza del momento con altri; 4) non ci preoccupiamo troppo del nostro aspetto; 5) lo fanno tutti”.
Era stato fin troppo ottimista dal momento che non aveva aggiunto il punto 6: ci fa godere nell’apparire terribilmente ridicoli.

Ma liquidare la fuffa dei social come mero riempitivo di esistenze che si riverberano nelle timeline, sarebbe sbagliato. Basta fermarsi e guardare con più calma ciò che ogni giorno passa sullo schermo del nostro smartphone. Fondamentalmente un tripudio di gambe e piedi. Ma attenzione, nel messaggio tramandato da questi arti in bella mostra c’è una porta nascosta e la chiave che la apre va cercata nei dettagli.

Nello specifico è una questione di centimetri. Il selfie che svela un paio di gambe adagiate su un divano con il loro corredo di filtri, effetti, sfocature strategiche ci rivela un’intenzionale manomissione che stavolta non interessa la foto in sé, bensì l’effetto che essa vuole provocare. Insomma c’è un curioso meccanismo di doping dell’attenzione altrui su quelle cosce che si mostrano per quello che sono (un paio di cosce) ma che, grazie all’inquadratura ampia quanto basta, promettono un dettaglio inguinale che non c’è. In quell’immagine ci si mostra liberi e al contempo pentiti di tale libertà, come se improvvisamente un freno avesse bloccato, per miracolo, la mano che conduce il gioco dell’autoscatto (che non a caso, negli anni Settanta, era una rubrica di alcuni giornali porno), in un rigurgito di pudore. Anzi di semi-pudore, che è la cifra dominante dei maggiori produttori di fuffa social. Cioè di tutti quegli utenti che sussurrano all’orecchio di ciascuno dei propri followers “vorrei tanto, ma non posso” e intanto alimentano l’antica forma di “ferocia” del feticista visto da Marx, che inquadrava una relazione ossessiva con una parte del corpo come più significativa rispetto a una relazione misurata con l’intero. Si dice: misero è il feticista al quale è offerta una donna, quando ciò che vuole è una scarpa. Ecco, il semi-pudore è una declinazione di furbizia social che non offre in realtà nulla, ma riscuote come se fosse.

Nei suoi lavori su media ed etica, l’israeliano Hagi Kenaan sostiene che l’occhio ha ormai raggiunto uno “stato di morte clinica” a causa di ciò che definisce “estetica dell’appiattimento”. La sua tesi è che “passiamo la maggior parte delle nostre vite di fronte a schermi, di modo che la profondità, il tempo, gli errori, le crepe sono interamente eliminati. In quanto vedenti funzioniamo come drogati, allo stesso tempo bramanti e dissanguati da ciò che usiamo per prevenire il nostro impegno nel mondo”. Così come generalmente accade nella dipendenza, la responsabilità etica tende ad essere la prima vittima dell’appiattimento, afferma Kenaan: dal pudore al semi-pudore è solo un passaggio tecnico, nel rispetto del dio algoritmo che regola l’effetto sul web dei nostri pensieri, parole, opere e omissioni. 

Alla luce di questi cambiamenti climatici nel pianeta delle emozioni, l’antologia della fuffa ha eletto il suo organo di riferimento. Che, come si può supporre, non è più l’occhio, ma il dito. Non a caso l’universo nel quale galleggiamo, più incoscienti che incolpevoli, è quello digitale. E le dita toccano, regolano, scattano, modificano, pubblicano i contenuti che alimentano le echo chambers.  Il paradosso è che proprio il tatto, quel senso che dovrebbe essere penalizzato nel mondo virtuale, è il protagonista di questo nuovo fenomeno cognitivo.

La tecnologia non sta a guardare, non indugia e nel suo perverso tentativo di rendere l’uomo strumento del suo stesso strumento, piazza il suo colpo basso: l’ultimo iPhone 11 Pro ha tre telecamere per inquadrare una stessa scena con un grandangolo, un ultra-grandangolo e un teleobiettivo. Avremo la fuffa in 3D. 

Il grande guardone

L’articolo pubblicato sul Foglio lo scorso fine settimana.

Secondo una battuta che circola negli Stati Uniti, ormai per farsi finanziare un qualsiasi progetto dal governo basta aggiungere la parola cyber al titolo del progetto stesso. Il motivo è semplice: quando si parla di rischi legati alla tecnologia, e più in generale di criminalità informatica, pochi conoscono esattamente qual è l’effettivo “campo di gioco” con le sue regole e i suoi trucchi.
La gran parte delle agenzie di intelligence soffiano sul fuoco del pericolo imminente probabilmente perché devono in qualche modo attestare la propria esistenza in vita (con relativi costi). Inoltre è sempre forte l’eco di quella che il ricercatore di Harvard Ben Buchanan chiama la “leggenda della sofisticazione”: ogni attacco viene descritto sui giornali come estremamente sofisticato, quando spesso non lo è affatto e si è propagato solo per l’inefficienza delle infrastrutture informatiche.
Insomma, il vero problema in tempi così drammaticamente moderni è la diffusione dell’analfabetismo digitale. Da un’inchiesta del New Yorker emerge un dato su tutti: fino a qualche anno fa gran parte dei giudici della Corte Suprema degli Usa, il massimo organo giudiziario del Paese chiamato a dirimere anche questioni di tecnologia, non aveva mai usato la posta elettronica.

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L’assessore che governa on demand

L’articolo di oggi su Repubblica.

L’assessore regionale ai rifiuti Vincenzo Figuccia lancia un contest su Facebook: “Meglio Brescia o Vienna pulite attraverso impianti e nuove tecnologie o Catania e Palermo ‘ngrasciate con le discariche e la differenziata con numeri da prefisso telefonico? Aspetto idee e pareri di cittadini e di esperti in una logica di cittadinanza attiva, di condivisione e ampia partecipazione”. Bene, oggi la condivisione e l’ampia partecipazione sono sempre ben accette, il populismo un po’ meno soprattutto in un settore, come quello dei rifiuti, che da sempre ha scatenato gli appetiti delle organizzazioni criminali. Il problema delle scelte strategiche on demand è che non sono né scelte né strategiche per un semplice motivo, manca il metodo di valutazione: come pensa di vagliare “idee e pareri”, l’assessore Vincenzo Figuccia? Per numero di “mi piace”? Per alzata di mano? Per efficacia di foto profilo? O magari per originalità dei commenti: si va dall’esempio svizzero a quello tedesco, dagli altiforni ai tavoli comunali, dal “bravo!” al “continua così!”. Continua così, come? Aspettiamo idee e pareri di lettori ed esperti.

Quelle storie spezzate prima di Facebook

L’articolo pubblicato ieri su Repubblica Palermo.

C’è Paolo che è un ragazzo timido e affettuoso. Gira per la Palermo degli anni Settanta col suo vespino azzurro: è gentile ed educato. Se sei a piedi e cerchi un passaggio, lui fa in modo che il suo itinerario coincida col tuo. Per questo è molto amato da quelli della sua comitiva. È un tipo spassoso, Paolo. Una notte di fine estate scorrazza sul lungomare Cristoforo Colombo insieme con altri amici e altri vespini. Ride e scherza. E ridendo non vede un cassonetto dell’immondizia. Lo danno per morto tanto è devastato; ma Paolo, oltre a essere gentile ed educato, è forte. Fortissimo. E si riprende dopo mille operazioni. Vive giusto il tempo per assistere alla sua nuova alba che dura qualche anno. Poi un giorno all’improvviso Paolo muore in un fiat, senza neanche rendersi conto che non era alba ma inganno di tramonto, per una minuscola ferita che il suo cervello non era riuscito a far rimarginare.
C’è Tano che è un vigile del fuoco ma ha più soldi di un vigile del fuoco. È piccolo di statura, ma guai a farlo incazzare. Una volta ha steso con una sola testata un buttafuori un metro più alto di lui: non voleva farlo entrare in discoteca nonostante avesse pagato il biglietto. Ai primi degli anni Novanta Tano decide di aiutare un amico che fa lo 007 a catturare latitanti. Ma qualcuno lo tradisce e lo attira in un tranello. Lo strangolano le mani che credeva amiche e lo seppelliscono in un posto nascosto. Solo otto anni dopo un pentito di mafia si ricorda di aver ammazzato anche lui. E fa ritrovare quel che resta di Tano.
C’è Filippo che suona la chitarra da dio. Non beve, non fuma e consuma tonnellate di fazzolettini perché è allergico a chissà cosa. È timido, soprattutto con le ragazze: forse per via dell’acne che gli dà comunque un’aria da eterno ragazzino. Un giorno conosce una tipa che vive in provincia di Trapani e se ne innamora. Da quel momento cambia tutto, inspiegabilmente. Filippo si vede sempre meno in giro. L’ultima sua immagine ai primi degli anni Ottanta è catturata da una telecamera di sorveglianza di una banca. Poi Filippo svanisce. E nessuno ne saprà più nulla.
Paolo, Tano e Filippo non si sono mai conosciuti nonostante le loro storie si siano incrociate per le strade di Palermo. Solo una cosa hanno in comune: una morte che ci appare antica, senza eco, quasi che il dolore di quei tempi avesse la sordina.
Sono morti prima di Facebook.

L’attimo morente

Il “poliedrico riccionese noto sul territorio internazionale come studioso di Arte Liberty e artista alla 54° Biennale di Venezia” – la definizione è sua – che vedendo un ragazzo agonizzare dopo un incidente stradale anziché aiutarlo, chiamare i soccorsi, pregare, fuggire (purtroppo è previsto), ha messo su una diretta Facebook ci dice di questi nostri tempi molto di più di uno studio sociologico o di un editoriale di Selvaggia Lucarelli.
Oggi è facile seppellire questo signore di minacce, ingiurie e maledizioni perché l’esercizio della morale a posteriori è come quello della pedalata in discesa: chi non ha la struttura va in playback.
Ma nemmeno è urgente il bisogno di difenderlo, questo stupido prodotto del colon retto dei social.
In realtà quello che dovrebbe darci uno stimolo di dibattito, non soltanto a me che questi avvenimenti comunque li osservo per mestiere, deriva dalla rarefazione degli attimi cruciali dopo quel tragico incidente.
Il poliedrico assiste al dramma.
Resta sconvolto.
Prende il cellulare.
E qui imbocca la strada sbagliata nel bivio spazio-temporale che divide l’istinto tramandato (quello che tutto conosciamo come semplice “istinto”) e quello acquisito (un ibrido di bieca consuetudine e pigrizia mentale). Sceglie la consuetudine, che come tutti sanno è strettamente personale al contrario di un istinto puro diffuso e di specie.
Prende il cellulare e non telefona al 112, al 113, al 118, all’amico che ha quella stessa moto, alla mamma, alla fidanzata che magari lo ha appena lasciato. No. Accende una diretta Facebook e filma tutto a distanza con una codardia tecnologica che rischia di essere la cifra di una fetta di generazione.
A che cazzo serve la cibernetica (la chiamavamo così decenni fa) se non ci migliora la vita e anzi ce la rende detestabile?
Su questo dovremo interrogarci. Sull’istinto acquisito che ci spinge ad atti innaturali come la diretta Facebook della morte di un ragazzino. Pensate un po’: persino la fuga sarebbe un atto più umano.

Se vostro figlio torna a casa pestato

Il padre che pubblica le foto del figlio minorenne pestato da delinquenti minorenni innesca polemiche lunghe come la teoria di dubbi sulla reale utilità di quel gesto.
Da un lato l’esigenza di dare una scossa, di rispondere a choc con choc, dall’altro evidenti limiti di privacy e di esigenze di tutela dei minori.
Bene, questa è la parte che conosciamo tutti.
Ora prendiamoci però la piccola libertà di riflettere su un altro aspetto.
Il mondo, come lo conoscevamo sino a dieci anni fa, non c’è più. Tutti, ripeto tutti, siamo stati catturati dall’orbita di questa nuova giostra che travolge e stravolge: il privato è pretesto per rendere più appetibile il pubblico (e viceversa), la condivisione è la forma di intrattenimento più gettonata, lo smartphone è l’unico oggetto del desiderio che non teme il logorio della vita moderna, il sistema di relazioni è fondato su una rigida scelta di campo – meglio quel gestore di telefonia o quell’altro?
È chiaro che, nonostante le umane resistenze di chi è cresciuto nel mondo analogico, non si può cercare di svuotare il mare col secchiello. Quindi è inutile lanciarsi in crociate che sottendono giustizie sociali di altre ere geologiche.
Un minorenne che vive nei social, tra i social, per i social non può che trovare lì il suo destino o, se preferite, la sua nemesi (il discorso vale anche per i maggiorenni, ma in questo momento la riflessione è legata ai ragazzini). Per questo non riesco a non immedesimarmi nel padre di quel ragazzino che torna a casa pestato e umiliato, e che racconta tutto all’unica autorità che dio, o madre natura, gli ha messo di fronte: un papà attonito. Un papà che ha il dovere di fare tutto quello che può per il suo bambino. Ecco, se quest’uomo ha ritenuto di fare un passo ardito nel mondo che è più di suo figlio che suo, vuol dire che ha capito che il coraggio è una forma d’inquietudine: ognuno ha la sua. Ci si nasce e chi non ce l’ha non la troverà online.

Restare in tema

minoranza_aUno dei contraccolpi più fastidiosi – e, a lungo andare, anche un po’ pericolosi – della pseudo-comunicazione liquida, cioè quel flusso di informazioni non certificate che arriva dal web, è la quasi impossibilità di stabilire una conversazione a tema.
Uno prende un argomento e dice: ragazzi, oggi che ne dite se parliamo di questo e non di quest’altro? Dopo un paio di commenti annoiati (le discussioni non deraglianti richiedono un grado di conoscenza e/o fantasia tali che, se mancano, l’effetto sbadiglio è garantito) arriva quello che con l’aria dell’imbucato alla festa delle media si butta a capofitto su quest’altro e non su questo.
Fateci caso quando, magari alla fine di una giornata di lavoro, vi accoccolate sulla vostra timeline in cerca di relax. Se mai doveste scegliere di seguire una discussione, provate a contare quanti cercano disperatamente di rimanere aggrappati allo spunto iniziale e quanti sbrodolano i cazzi loro prendendo come pretesto non l’argomento sul tappeto, ma l’esistenza stessa di un tappeto sul quale esporre, non richiesti, la loro non richiesta mercanzia. E se mai cercherete di far notare che sono fuori tema o, Dio vi preservi, in clamoroso errore, sarete voi a essere messi all’angolo. Quando il non sapere è maggioranza, la ragione non ha più ragioni.