La dittatura dell’opportunista

Ci lamentiamo dell’opportunismo doloroso che queste timeline alimentano. È una trappola nella quale tutti rischiamo di cadere. Data un’urgenza tutta nostra, si ritiene che la comunicazione immediata sui social con il suo fondamentale corredo di consolazione/partecipazione istantanea possa contribuire positivamente alla soluzione del caso (che può anche essere piacevole, il caso o la soluzione). Il difetto di questa comunicazione non comunicata è che nella maggior parte delle volte si tratta di un dialogo tra muti, o peggio tra scemi che si fingono scaltri per motivi che vanno dal profitto personale al rincoglionimento conclamato. Frasi tipo “Lo so che mi leggi e fai finta di non leggermi”, o “la vendetta è un piatto che tu non conosci bene perché io conosco te meglio di quanto tu conosca te stesso non sapendo che conosco anche chi crede di conoscerti meglio di me e non conosce né me né te…”, o peggio tutto il repertorio di citazioni amorose avanzato dai Baci Perugina o dalla più trita delle gif virali, costituiscono l’agar sul quale cresce non solo il gramignone del sentimento in saldo che vive e muore tra il primo e il secondo clic, ma il ben più insopportabile opportunismo doloroso. Insopportabile perché dal web si infiltra nella vita reale e contribuisce ad aggravare la seconda delle emergenze di questo pianeta, dopo il riscaldamento globale: il turbinìo dei coglioni.

L’opportunista doloroso (OD) incarna il paradigma di tutte le teorie sul saprofitismo sociale (e sull’arrembaggio ai cazzi nostri), dalle più antiche alle più recenti, fresche di reel, tweet, flash, post, story, sput (sput me lo sono inventato io, ma magari rende l’idea). L’OD è il primo a chiedere aiuto e l’ultimo ad arrivare per cena perché ha sempre una telefonata importantissima da chiudere, perlopiù con la persona causa dei suoi (e adesso anche nostri) problemi. Non si cura di nulla che non lo riguardi. Chiede un parere non per ascoltarci ma per fare una prova microfono del suo ego: ssa, ssa, un due tre…

L’OD non ci chiamerà mai quando è felice, cioè quando non ha un altro cristiano da crocifiggere con le sue cazzate/paturnie/richieste. Quando non ci avrà scassato la minchia nel cuore di una cena o mentre stiamo lavorando o mentre culliamo il nostro ego libero dalle ragnatele dei nemici della contentezza, scopriremo tramite il suo profilo social che il tramonto ultrafiltrato con cuori e colonna sonora di neomelodico preludeva all’ennesima delusione, con tanto di citazione (che andrebbe punita per legge) di Ada Merini sulla solitudine del folle e sull’immancabile felicità come arma di vendetta. Solo che la felicità è la nostra, prima di sentirlo, e la vendetta è la sua, dell’OD, nei confronti dell’unico vero nemico che gli tarpa le ali, gli taglia la strada, gli toglie il respiro, gli causa stitichezza, gli anima i polpastrelli e gli chiude il portafoglio. Perché l’OD non paga mai di tasca sua, preso com’è dai suoi problemi esistenziali: il marito, il fisco, la moglie, i figli, il capocondominio, il datore di lavoro, la suocera, l’amico, la puttanona, il toyboy, il collega, il sodale, il follower, che lo hanno scoperto. L’OD è fondamentalmente un fesso che crede di poter farla franca in eterno solo perché nessuno ha ancora avuto la pietà di dirgli, magari a favore di smartphone, che ha rotto i coglioni.
Li ha rotti a noi e alla sua platea di cerebrolesi che cliccano “mi piace” anche sull’ennesima gif con gli uccellini che gli girano intorno alla faccia inguianata in un filtro che lo fa sembrare la Sindone senza il lenzuolo.
E quando ci ritroveremo, dopo anni di rospi mandati giù tipo Alka Effer e tavoli che si innalzano sulle nostre gambe per le controindicazioni di una pazienza al limite dell’esplosione della patta, ad aver bisogno di lui perché abbiamo smarrito qualcosa – che sia una chiave di casa o il senso di un momento sarà il caso a stabilirlo –, proveremo a cercarlo e, pensate un po’, non ci risponderà. Perché sarà impegnato nella sua riscossa sentimentale di mezza settimana, a postare frasi tipo “L’amore non guarda con gli occhi ma con l’anima”, con Shakespeare che nella sua tomba si rivolta tipo Salvini davanti a un cocktail sbagliato del Papeete.

E allora ci incazzeremo e scriveremo un post, tweet, flash, sput, come questo. E gli augureremo la morte. Della connessione.

La banda delle spalle lussate

Mi sono lussato una spalla, porto un tutore scomodissimo, vado in giro con una manica del maglione penzolante con conseguente effetto “tre braccia” che fa molto maniaco sessuale, e ho l’umore talmente nero che al confronto un corteo funebre è un’adunata di mattacchioni. Il tutto in un periodo di bug tecnologici che rimandano più al rito voodoo che alla nuvoletta di Fantozzi. Insomma, probabilmente qualcuno mi pensa ardentemente con sentimenti non proprio amorevoli.
Per questo sono rimasto spiazzato, e piacevolmente, davanti al manifestarsi spontaneo di una confraternita di perfetti sconosciuti che appena ne hanno l’occasione condividono con me l’esperienza di una spalla scassata. Dovunque vada, a fare la spesa, al lavoro, se cazzeggio sui social o se passeggio per strada, c’è quasi sempre qualcuno che mi ferma e che mi dice: “Eh, ti capisco!”. E via con la narrazione.
Non sapevo di quest’epidemia di spalle lussate, non immaginavo che un simile accidente – che è comunque una cosa risolvibile e non grave – potesse generare una spinta aggregativa e di altruismo così vigorosa.
Ci ho pensato su, per capire quale potrebbe essere il fattore scatenante. E, analizzando le frasi che mi vengono rivolte da questi caritatevoli sconosciuti, ho capito tutto.
Il dolore.
La spalla lussata provoca un dolore fortissimo, il più forte che abbia mai provato. Un dolore che però ha una specie di sortilegio in sé: scompare istantaneamente quando la testa dell’omero torna al suo posto. Un istante prima stavi per svenire (io piangevo, giuro!), un istante dopo tutto si placa. On – off. Nero – bianco. Orrore – piacere.
Ecco, andando per astratto, il senso di molte esperienze che ci accomunano è proprio questo: se il dolore affratella, il sollievo dal dolore rende complici. E più il sollievo confina col dolore, più l’incisione nella corteccia della memoria è profonda.
Insomma anche una spalla lussata può essere un’occasione per inventarci migliori (senza facili buonismi).
Se una sofferenza ci rende malvagi l’abbiamo sprecata.

Fermate Barbara D’Urso

A Pomeriggio cinque questo pomeriggio si è celebrato l’ennesimo rito tribale della cronaca gestita come uno spettacolo circense, con Barbara D’Urso e nientepopodimenoche Alessandra Mussolini a dibattere, tra urla e pianti, con la madre del bambino conteso.
Il problema, al contrario di quel che si possa pensare, non è il contenuto ma il contenitore.
L’emergenza umanitaria della televisione italiana dei nostri tempi è infatti la fascia pomeridiana, durante la quale programmi di intrattenimento diventano spazi di informazione gestiti con una profondità di vedute da avanspettacolo.
Lasciare nelle mani di Barbara D’Urso – ma anche di Mara Venier  – la libertà di porgere notizie, approfondirle senza alcun controllo di testata, è un atto che toglie legittimità alle redazioni e attendibilità alla rete.  Eppure tutto si spiega con un’atroce regola moderna: la televisione urlata è quella che ha più fortuna, lo scoprì vent’anni fa Maurizio Costanzo con Vittorio Sgarbi.
Ho già scritto cosa penso di quella che un tempo era la tv dei ragazzi e non ho ancora un’età che giustifichi rimpianti a 360 gradi.  Però ritengo che Barbara D’Urso et similia non possano raccontare l’Italia che cambia, ma al massimo recensire il guardaroba di una starlette o blaterare degli amorazzi di una gieffina.
Prima possibile una contraerea della ragione dovrà entrare in azione: prima che la tv del finto dolore ci imponga finte esistenze con finti sentimenti e finte soddisfazioni.

Allarme a bordo

Scrive oggi Roberto Alajmo sull’Unità:

In una sua illuminante conversazione Gianrico Carofiglio suggerisce un accostamento fra i concetti di dolore e vergogna. I ricettori del dolore svolgono un ruolo cruciale per l’organismo umano: senti il bruciore e allontani la mano dal fuoco. Ti fa male la pancia e vai dal medico. In assenza del dolore rischieresti di morire senza nemmeno rendertene conto.
Per una società di umani l’eclissi della vergogna è altrettanto pericolosa, perché falsa la percezione del futuro. Quando i singoli individui perdono la facoltà di vergognarsi del proprio comportamento o delle proprie opinioni, viene a mancare il segnale d’allarme che avverta del collasso morale ormai imminente. Si è guastato il radioaltimetro che doveva segnalare quanto basso stia planando l’aereo su cui ci troviamo.
A causare il disastro è spesso una semplice spia che si è fulminata.

Sono d’accordo.