Caro diario

Il 10 aprile scorso il New Yorker ha pubblicato un interessante articolo di Katy Waldman intitolato “Dear diary, the world is burning” (“Caro diario, il mondo sta bruciando”) in cui si affronta un tema a me molto caro, quello dei diari.

Sono sempre stato un “appuntista”, oltre che un “cassettista” (del mio “cassettismo” compulsivo parlai in questa occasione) e ho seguito maniacalmente la pratica della parola scritta sin da bambino. Ciò probabilmente per porre rimedio a qualche difficoltà relazionale o per arginare una mia strisciante timidezza. Tutti siamo imperfetti, io modestamente di più.

La letteratura è costellata di diari che vengono fuori perlopiù in momenti di difficoltà personale o in frangenti storici complicati. Il riferimento più immediato è a quello di Anna Frank, il diario più citato e meno letto della storia, ma un rimando più semplice è ai blog, come questo.

Da oltre tredici anni mi ostino a stipare qui pensieri che reputo con dilagante fallacia fondamentali, riflessioni drammaticamente effimere, aggiornamenti sui miei viaggi, resoconti sullo stato di avanzamento dell’umanità che mi circonda. Qui c’è tutto delle mie “sei-sette vite vissute sempre sbagliando da solo” (autocit.). Perché un diario vive dell’immediatezza dei social, ma deve essere tenuto lontano dalla loro evanescenza. Non ha un obiettivo preciso né un lettore da blandire. Si adatta solo alle pieghe della vita da cui, autentico, senza mediazioni, promana.

Perché scrivere è un modo per sopravvivere, per lasciare un solco dietro di noi che non crea inciampi se non a chi non guarda dove mette i piedi. Serve a fissare insieme, indipendentemente dalle intenzioni, una cronaca dei tempi e una traccia di come siamo in un certo momento. Una traccia che, riletta a distanza di tempo, ci darà la consapevolezza e la misura di un eventuale cambiamento. Per questo credo in queste pagine ordinate, anche un po’ desuete, che da oltre cinquemila giorni sono uno specchio salvifico della mia vita.

Viaggio a New York – abbracci e baci

baci a central park

Si sa, New York non è l’America. E viceversa. New York è New York, la città più incredibile. La città che rende il sonno inutile, che ha un traffico insopportabile ma anche un verde indimenticabile, che fuma dai tombini e profuma di pietanze di tutto il mondo. La città che ha il cielo più piccolo e l’orizzonte più grande. New York è un arcipelago di città che si fingono quartieri: provate a girarla a piedi e rimarrete colpiti da come tutto cambi vertiginosamente da un chilometro all’altro.
Una settimana non basta per capirla, ma è sufficiente per capire. Capire che a New York tutti cercano qualcosa, corrono verso qualcosa e, contrariamente a quel che verrebbe spontaneo pensare, si guardano intorno. Fate un esperimento: mettetevi una mappa della città in mano e assumete un espressione perplessa; contate sino a dieci e sicuramente qualcuno si fermerà per chiedervi se avete bisogno di aiuto. I newyorkesi sono gentili a modo loro, vi guidano se vi siete persi ma vi correggono bruscamente se sbagliate una pronuncia.
New York ha anche un altro primato, la metropolitana più incasinata che abbia mai visto. Alcune stazioni sono fatiscenti, in altre le indicazioni sono lacunose, in molte non ci sono tabelle orarie sul passaggio dei treni. Perdersi è facilissimo (e se ogni tanto accadesse non è detto che sarebbe un male…).
Per farla breve, di questa settimana nella Big Apple rimane la sensazione di essere stati fortunati. Col tempo soprattutto, giacché la città col sole è davvero una meraviglia. Se mai vi capiterà di vivere un’esperienza simile, trovate il tempo per fare l’unica cosa importante che non sta scritta sulle guide: prendete la persona amata (se non la avete procuratevela, fatti vostri) e andate a sdraiarvi a Central Park. Poi abbracciatevi sotto il sole. E baciatevi.

Viaggio a New York – aperitivo a Manhattan

fototopDopo la corsa, la bici. No, la nostra non è una vacanza estrema né ci stiamo preparando per il triathlon, solo che è interessante visitare una città con mezzi meno convenzionali. Se siete a Manhattan, affittate una bici a Battery Park e risalite l’Hudson lungo la ciclabile. Godrete di una vista unica: da un lato i grattacieli di Manhattan, dall’altro il fiume e in lontananza il profilo della città che vi osserva dalla sponda opposta. Poi risalita l’isola potete addentrarvi, come abbiamo fatto noi, in Central Park (di cui parlerò approfonditamente un’altra volta) e poi a Broadway: in città state molto attenti al traffico pesante che è un problema delle strade newyorkesi.
Importante: quando affittate le bici, se scegliete quelle del bike-sharing (opzione interessante perché non vi obbliga a tornare indietro per restituirle), tenete conto che il servizio prevede che ogni mezz’ora ci si fermi a una rastrelliera, altrimenti bisogna pagare una penale che a seconda del ritardo può diventare pesante.
A Chelsea un bel posto in cui prendere un aperitivo è The standard highline, un bar con vista panoramica e buona musica: andateci al tramonto e non pensate al conto. Per cena abbiamo provato il Buddakan, un ristorante di cucina fusion che sembra il set di un film di Stanley Kubrick. Nella penombra rischiarata dalle candele, mangerete bene a patto che non abbiate troppa fame e che siate disposti ad alzare la voce per chiacchierare (la musica è un po’ più di un sottofondo). Anche qui è bene non pensare al conto.
Per una serata alternativa potete scegliere di prendere un mezzo pubblico e andare al Barlays Center, per assistere a una partita di basket. Noi abbiamo visto i Brooklyn Nets contro i Toronto Raptors e più che l’incontro – l’NBA è sempre una garanzia di spettacolo per chi ama lo sport – ci ha colpiti il contorno, i riempitivi di tempo, lo spettacolo nello spettacolo. Ballerine scatenate, bambini acrobati, telecamere, effetti speciali. Insomma un incredibile e americanissimo evento a metà tra il super show e la festa paesana.

A che titolo?

L’attimino fuggente
di Giacomo Cacciatore

Si può dire di tutto, è vero, anche delle stronzate. Ma è pur vero che questo tutto dipende da chi lo dice e come.
Ai tempi della prima Repubblica c’era una frase molto in voga nel parlato quotidiano: “Ma lei, a che titolo?”. A che titolo afferma questo, a che titolo si comporta così, a che titolo pretende quest’altra cosa, etc. Era un brutto modo di dire, lo ammetto: sottendeva un’equazione grossolana e anche un po’ ridicola, un ragionamento da sottogoverno nel quale la libera espressione dell’individualità corrispondeva ai ruoli e le competenze ad essa correlati. E se tale corrispondenza non saltava fuori, zitto e mosca.
Però ci sono situazioni in cui questa frase io vorrei rispolverarla. Quando un tale Paolo Grimoldi, deputato leghista, si alza una mattina, si accorge dell’esistenza di un libro che si chiama “Il diario di Anna Frank”, si informa di che tratta (se lo sarà fatto spiegare più volte, azzardo) viene a scoprire che ci sono degli insegnanti che lo leggono persino ai loro alunni e giunge alla conclusione che, cito testualmente: “vi è un passo nel quale Anna Frank descrive in modo minuzioso e approfondito le proprie parti intime e la descrizione è talmente dettagliata da suscitare inevitabilmente turbamento in bambini della scuola elementare”… ecco, io avrei una gran voglia di appendermi la sua fotografia nello studio, capacitarmene, e ripetergli: “Scusi, ma lei… a che titolo?”.
Lo faccio qui.