Autodistruzione

Un’amica ha vissuto un periodo molto difficile, con un allontanamento forzato dalla sua vita quotidiana. Si è trovata in un mondo parallelo, quasi estraneo, a gestire un’esistenza quanto più normale possibile. Un’operazione quasi impossibile. Se lei, come chiunque di noi, avesse voluto scegliere la via più facile si sarebbe incanalata con serena rassegnazione sul binario che portava al deragliamento. Non c’è nulla di più utile che consolarsi con le cose inutili e dannose quando il tempo volge al brutto, tu sei a piedi senza un ombrello e non c’è un tetto nel raggio di 500 chilometri. Ci si illude di mettere al sicuro l’anima sacrificando il corpo. L’autodistruzione nasce spesso come insano spunto di salvataggio: ed è una delle peggiori menzogne che alcuni di noi si sono raccontati almeno una volta nella vita.
Invece la mia amica ha scelto la via più difficile, fregandosene dell’anima e curandosi del corpo. Ha smesso di fumare, ha macinato chilometri di corsa, ha mangiato di meno, è dimagrita e ha preso aria, sole.
L’ho rivista l’altra sera che pareva tornata da una vacanza. Invece era appena riemersa da un mare di difficoltà.

Il mafioso depresso

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La foto è di Ciro Spataro

La vicenda del boss mafioso depresso al quale sono stati concessi gli arresti domiciliari va affrontata, a mio parere, ricordando innanzitutto che il diritto alla salute è sancito dall’articolo 32 della nostra costituzione. Ciò dovrebbe essere utile a spazzare via ogni tentazione di fare dell’ironia e a evitare di impelagarsi in diktat estremisti.
Sono a favore del 41 bis, il carcere duro per i mafiosi e i terroristi, che – va ricordato – è entrato a regime grazie al governo Berlusconi (quando è sua, è sua).
Ora il problema che si pone è questo: può un provvedimento estremo diventare meno estremo, senza perdere la sua efficacia?
Secondo me, no.
E allora che si fa quando ci si trova davanti a un caso come quello in questione?
C’è più di un valido motivo per cui un mafioso viene tenuto in isolamento: dai tempi del Grand Hotel Ucciardone a quelli degli ordini trasmessi dalle celle all’esterno via cellulare, nulla è cambiato nella capacità comunicativa degli uomini di Cosa Nostra. Il boss in gabbia deve essere neutralizzato. Tranciare i suoi rapporti è la soluzione più efficace per renderlo meno offensivo.
C’è un metodo, spesso trasversale e oggetto di polemiche, per sottrarsi a questo regime di dentenzione dura: collaborare con la giustizia.
C’è infine la possibilità di appellarsi a un tribunale se le condizioni di salute divengono incompatibili con lo status carcerario: una roulette che ogni tanto dà il numero sperato.
La tentazione di gridare “marciscano tutti in carcere” è fortissima: specie per chi è stato devastato negli affetti dalla crudeltà degli uomini del disonore. Ci vuole stomaco per leggere, senza lasciarsi prendere dall’ira, le motivazioni dei giudici che rispediscono il mafioso depresso a casa e che identificano nell’“affetto dei familiari” la terapia migliore per riprendersi e guarire. Ci vogliono una immensa coscienza civica e, per chi ce l’ha, un solido appiglio religioso per accettare che una legge possa essere meno cattiva con il cattivo in stato di difficoltà.
In questo momento ho una discreta tentazione, poco stomaco, una modesta coscienza civica, un fragile appiglio religioso.
Saranno i tempi bui.