L’Italia carogna di Genny ‘a carogna

Jenny a carogna

Funziona così in un paese che si fa forte coi deboli e che lecca gli stivali agli arroganti. Uno, un giocatore, un funzionario pubblico, va a trattare con un delinquente per far sì che una partita di calcio possa iniziare, che gli ostaggi di uno stadio – che rappresentano una nazione intera – possano riprendere a respirare. Inutile dire che dovremo aspettare un’altra vita, giacché non c’è più speranza in questa, per provare l’emozione di vivere in un mondo ben sincronizzato, in cui se gli ultras di una squadra mettono a ferro e fuoco uno stadio e addirittura una città, non solo la partita non si gioca, ma la squadra se ne va a raccogliere margherite per qualche anno.
I discorsi alla melassa secondo i quali la moltitudine onesta non può pagare le colpe di un ristretto gruppo di monellacci dovrebbero valere non per i tifosi di quella squadra – che ha comunque una singolare concentrazione di malavitosi tra le sue file – ma per i cittadini di una nazione che non possono soggiacere ai desiderata di Genny ‘a carogna, uno che ha già un nickname lombrosiano.
In Italia lo Stato, o chi per lui, è sempre pronto a trattare per un oggetto misterioso che resta segreto ma che ha la forma della codardia. Che si tratti di mafia, di calcio, di agibilità politica, di mandanti occulti, di tritolo o di bombe carta, arriva puntuale un emissario in giacca e cravatta, o in calzoncini, o in divisa, pronto a stipulare patti da cui emerge una sola certezza: l’onesto sarà sempre un poveraccio che non conta un cazzo. Per tutto il resto basta rivolgersi a un galantuomo che si mostra al mondo con una maglietta che inneggia all’assassino di un poliziotto onesto.

La speranza è l’ultima a dormire

Uno si alza la mattina coi bottoni rotti perché la notte prima hanno rubato il motorino a sua moglie e lei è in uno stato di prostrazione che nemmeno quando il parrucchiere ha sbagliato taglio è stata così male.
Uno cerca di mettere da parte la rabbia verso i delinquenti che hanno forzato il cancello del garage e recita il rosario per diluire la voglia di bestemmiare. Mentre fa colazione, cerca di contattare l’assicurazione per capire che fare della polizza (tanto il furto, come da contratto, non è previsto) e pensa, chissà perché, a tutti i suoi nemici (tra cui ex amici, finti amici e lestofanti vari)  che in quel preciso momento, chissà perché, stanno pensando a lui con particolare trasporto.
Poi si decide e, accompagnato dalla moglie che più che una motociclista affranta sembra una vedova inconsolabile (e uno si tocca i bottoni rotti), va a sporgere denuncia.
Arriva davanti al commissariato con la moto superstite, entra nel cortile e parcheggia accanto ad altre quaranta motociclette. Un piantone, con la mascella volitiva d’ordinanza, gli dice che no, lì non si può parcheggiare. Ma come? – chiede uno, indicando i motocicli (termine da commissariato) – E questi che sono, ologrammi?”. Alla parola ologrammi, il piantone quasi mette mano alla pistola. Ma la vista della vedova lo ammansisce.
Qualche minuto dopo, davanti all’agente che deve verbalizzare la denuncia, si apre un mondo di relative che si annodano e di congiuntivi strabici: uno, alla fine, è costretto a firmare una dichiarazione dove oltre che per i reati in oggetto, si dovrebbe procedere per strage della lingua italiana (a firma sottoscritta di uno che scrive per mestiere).

Insomma, uno si alza la mattina coi bottoni rotti perché la notte prima ha subito un atto violento e volgare, come violenti e volgari sono gli atti contro noi e le nostre cose. Alla fine si ritrova davanti a un poliziotto pacioso e pienotto che, con un verbale in triplice copia tra le mani, tenta un’opera di consolazione disperata come la sua grammatica. “La speranza è l’ultima a dormire, cara signora”, dice alla vedova.
E ti regala l’unico, bellissimo, sorriso della giornata.