Se il vitello si dà arie

Da Deba a Markina.

La questione è semplice e spiazzante. Le distanze tra una tappa e l’altra vengono stabilite dalle guide (di cui avremo modo di parlare nei prossimi giorni) prendendo come punto di riferimento gli albergue per pellegrini. Io non sono un pellegrino, almeno nel senso classico. Lo spiego una volta per tutte, dato che alcuni me lo hanno chiesto sui social. Sono un camminatore laico, uno che sta sperimentando su se stesso un’esperienza speciale: non ho un’illuminazione religiosa canonica e non me ne frega niente della benedizione finale. Il mio dio non si perde in dettagli turistici. Inoltre non dormirei mai in una camerata insieme con altre sei-otto persone, non mi laverei mai in docce comuni e tantomeno mi metterei a turno per andare in bagno: per giunta in vacanza. Ditemi quello che volete, ma dopo aver scarpinato per una trentina di chilometri ci mancherebbe solo dividere il sonno con una banda di russatori e fare la doccia tipo servizio militare. Sarò capriccioso e snob, ma ho (ancora) un discreto livello di amor proprio.

Gli albergue quindi. Sono il punto di riferimento del Cammino (degli altri). E, rovescio della medaglia, i miei hotel e B&B sono abbastanza distanti dalle rotte ufficiali. Ciò spiega la cosa molto semplice e spiazzante di cui sopra: più chilometri da percorrere.

L’esempio di oggi è chiaro. Da Deba a Markina avrei dovuto percorrere 24 chilometri e 700 metri. Ne ho percorsi 32 e 250. Occhio, otto chilometri in più in montagna significano almeno due ore di cammino che non ci dovevano essere. A tutto ciò si aggiunga che la tappa era una delle più dure, dato che si sale in altitudine e che dall’ottavo chilometro si viaggia in autosufficienza perché non ci sono più ristori e fonti d’acqua. Insomma, roba da farsi prendere dalle visioni: col tempo che cambia da pioggia a sole, la temperatura che si impenna in un fiat da 18 a 30 gradi, un bivio cruciale preso alla cieca con conseguente errore di percorso (prezzo da pagare: due chilometri in più), un unico essere umano che incontri in tutta la giornata e che invece di darti una dritta su come ritrovare la via smarrita ti comincia a rintronare di minchiate, perché ha scoperto che sei siciliano come un suo amico, tale Calogero, che da quelle parti ha messo su un’industria specializzata nella conservazione del pesce e bla bla. Che a me fa pure schifo, il pesce conservato.  E poi, ciliegina sulla torta, la visione arriva. Un vitello esuberante  blocca un sentiero stretto e viscido. Tu gli dici: togliti da lì, che figurati io manco ti mangio, se tu fossi un asparago potresti temere, togliti da lì ripeto, e poi non sei manco un toro. E invece quello ti guarda e ti ricorda, cretino che non sei altro, che hai una maglietta rossa, uno zaino pesante sulle spalle, solo due zampe e gli occhiali appannati per la fatica. Ebbene sì, il vitello poteva chiudere la partita con una sventagliata di coda. Invece mi ha guardato sbuffando mentre, come un ladro, strisciavo su una parete fangosa a pochi centimetri dal suo orifizio più allarmante.

Pensiamo sempre a finali avventurosi per le nostre vite. Mai che ci scappi il timore, pure reale e fondato, di restare fulminati dal peto di un vitello. 

(5 – continua)  

Le altre puntate le trovate qui.

A questo argomento è dedicato il podcast in due puntate “Cammino, un pretesto di felicità” che trovate qui.

Appeal zero, of course

Da Zarautz a Deba.

Il terzo giorno di viaggio, da Zarautz a Deba, è stato faticoso per uno strano fenomeno di addizione. Strano perché mi ha preso alle spalle in questo mood di sottrazione. 

Si sono sommate due forze diverse. Da un lato la fatica accumulata ed esasperata dalla mancanza di recupero. Dall’altra una soave forma di assuefazione alle cose che normalmente ti disturbano, tipo la pioggia, il fango, un muscolo che duole.

La fatica, come i maratoneti sanno bene, è una droga. Le endorfine liberate durante uno sforzo prolungato sono una cocaina naturale che snebbia le idee, fertilizza la creatività, pompa autostima. A proposito di autostima, c’è un divertente siparietto che facciamo con alcuni amici improvvisati, qui durante il Cammino. Ci guardiamo, la mattina infagottati nei nostri mantelli impermeabili con gli occhi gonfi e i lineamenti stanchi (tipo la foto sopra), oppure la sera coi nostri orribili sandali e la nostra maglietta da “tempo libero” (sempre la stessa), e ci diamo voti che convergono in un unico risultato: appeal zero.

Insomma, maschi e femmine, siamo il miglior preservativo di noi stessi. Infatti generalmente ce ne stiamo ognuno per i cazzi nostri, per amor proprio.

L’immagine più sexy che ci si scambia è quella dei nostri piedi dopo che ognuno di noi ritiene di aver sperimentato il miglior trattamento segreto: chi dice vaselina, chi dice burro di karitè, chi dice acqua e bicarbonato.

Tornando alla fatica, qui non c’è una competizione. Nel Cammino la fatica è un investimento, non un dazio da pagare. Perché io non so se ce la farò a percorrere tutti questi chilometri – nessuno lo sa – però so che devo far fruttare ogni passo con questo maledetto zaino che affatica più le spalle che le gambe. E investire costa.

L’assuefazione invece ti intorpidisce, ti incanta. Non senti più la pioggia che ti martella le ossa tipo il tizio della Plasmon e intanto quella lavora sul tuo sistema scheletrico. Non ti curi del fango e intanto quello lavora sul tuo involucro penetrando nelle pieghe più impensabili. Non ti curi del doloretto all’adduttore (che da maratoneta ti avrebbe fatto suonare una sirena d’allarme che avrebbero sentito da qui a Bagheria) e intanto quello sta apparecchiando al tuo fisioterapista una stagione autunno-inverno coi fiocchi.

Ecco l’insieme di queste due forze dà la dimensione dell’eccezionalità di una missione così. Che forma e, come dicono i miei amici, deforma. Gioiosamente.

(4 – continua)

Le altre puntate le trovate qui.

A questo argomento è dedicato il podcast in due puntate “Cammino, un pretesto di felicità” che trovate qui.