Come Keith Jarret

Ieri.
In una sera d’estate di quasi trentasei anni fa Keith Jarrett aveva cominciato a suonare (male) al Teatro di Verdura di Palermo quando uno spettatore lo fischiò. Il famoso pianista mollò tutto e minacciò di far saltare l’esibizione. Lo spettatore fu identificato e additato come un molestatore di arte pubblica. Mentre rischiava di essere ammanettato disse: “Amo troppo Jarret per sentirlo suonare così male”. Difesi pubblicamente quello spettatore, lui e il suo diritto di protesta. Perché non c’è contratto di consenso tra un artista e il pubblico pagante e perché, secondo me, nel merito aveva ragione.

Oggi.
Rientravo a piedi da una serata tra amici (fantastici, perché tutti loro rincasano allegramente a piedi come me e alla fine l’unico inquinamento prodotto da una simile adunata è quello acustico, per certe risate al di sopra di un’eventuale ordinanza). Lungo il tragitto ho incontrato un posto di blocco della polizia, in una zona dove spesso si posizionano le pattuglie per controlli.
Qualcosa ha attirato la mia attenzione. Ed era qualcosa di recondito.
La pattuglia aveva fermato una ragazza.

Reset.
Quante volte ho visto ragazze fermate a un posto di blocco?

Mi sono fermato, nel buio del marciapiede tipo maniaco dei giardinetti, senza l’impermeabile che cela nudità però.
E ho capito cosa c’era di recondito in questa mia esperienza.
Negli anni ho visto troppe ragazze e signore fermate ai posti di blocco. Infatti solo ieri sera, nel giro di pochi minuti, un’altra auto è stata fermata. E chi c’era alla guida?
Ora, io capisco che ci sono i controlli a campione, ma ‘sto campione lo vogliamo verificare, benedetto dio?

Non sono uno che sbava per certi estremismi moderni, per cui se non chiami avvocata un avvocato donna ti devono venire a prendere i carabinieri (anzi le carabiniere). Sono uno che se pensa alla schwa nella lingua italiana gli passa la fame di scrivere (che non è detto che sia un male per l’umanità, ma per me sicuramente lo è). Sono anche uno al quale piace la magia della contrapposizione maschio femmina, con le sue derivazioni maschio maschio, femmina femmina o quel che è, ognuno per i suoi gusti. Perché è fecondità mentale, curiosità, gioia, vita.
Però quest’immagine serenamente tollerata di posti di blocco pieni di femmine presunte sospette controllate da maschi presunti integerrimi, mi insospettisce.
Anzi, da cittadino dico che non mi piace affatto.

Sarebbe bene dare una sbirciatina a campione negli elenchi delle persone controllate ogni sera nelle nostre città, sempre che questi passaggi di “favorisca i documenti” siano documentati. Perché le nostre forze dell’ordine sono garanti, da me ammirate, di forza gentile, e di ordine indiscusso anche se talvolta la mia fede vacilla. Fugare un sospetto quando si parla di cose così delicate è un sollievo o un miraggio, a seconda del gradi di ottimismo. Comunque fa bene a quell’anima comune e desueta che un tempo chiamavamo società.
Insomma come allora al Teatro di Verdura, oggi scrivo da fan e difendo chi fischia se sul palco si stecca.
Amo troppo le nostre forze dell’ordine per vederle cadere in fallo.
Le amo come Keith Jarrett.

Manganelli e poverelli

Non mi piace questa colpevolizzazione della ricchezza che in Italia tende a confondere il ricco con il disonesto e l’ho scritto. Tuttavia sono rimasto di sasso quando ho appreso che il capo della Polizia Antonio Manganelli guadagna 621.253,75 euro all’anno. Cioè più di 1.700 euro al giorno.
Ora, se in questo paese i poliziotti guadagnassero cifre calibrate sui rischi che il loro mestiere impone, nulla ci sarebbe da dire (anche se somme di questo genere per funzionari pubblici suonano un po’ stonate coi tempi che corrono). Però se un agente prende poco più di 1.300 euro al mese, cioè guadagna in trenta giorni molto meno di quanto il suo capo percepisce in 24 ore, allora qualcosa non va.
Anche qui di certo dobbiamo stare attenti a non confondere il ricco col disonesto, ma contemporaneamente dobbiamo sforzarci di evitare di identificare il povero col fesso.

Maroni, vieni via…

C’è un equivoco di fondo dietro la partecipazione, imposta quasi per decreto, del ministro degli Interni Roberto Maroni alla trasmissione “Vieni via con me”.  Il diritto di replica è di una parte chiamata in causa, di una parte debole, non di un rappresentante del governo, di un potere forte che sta al di sopra dell’accusa.
Questo è il passaggio fondamentale per capire che quando un esponente di primo piano dello Stato impone la propria presenza in un programma televisivo, per giunta della rete pubblica, si è alla frutta (avariata).
Se un privato cittadino si sente offeso, calunniato, ingiustamente tirato in ballo, deve avere tutti i supporti di legge affinché gli si forniscano gli appigli per un replica che abbia audience adeguata. Quando un rappresentante della Repubblica ha bisogno di forzature da dittatura centroafricana per riuscire a biascicare quattro parole in tv, è segno che si è fatta un po’ di confusione:  un ministro non è un esponente di partito o se lo è – coi tempi che corrono – deve fare in modo da mimetizzarsi in modo che tutti lo possano scambiare per un persona perbene; il luogo deputato per le opinioni sono i mass media, e i rappresentanti politici non possono interferire; nello specifico esibire un fazzoletto verde nel taschino impone una reazione a ciò che quel simbolo rappresenta (divisione, Padania, ronde, celodurismo, tricolori nel cesso, eccetera), che sia una pernacchia o una dignitosa alzata di spalle sarà la sorte a deciderlo. Confido nelle pernacchie.

Lo spot di Maroni

La differenza tra spot e cronaca sta nell’obiettività. Il Tg5 ha sposato la linea commerciale: fare gli interessi dell’editore. Quindi ieri sera ha organizzato una bella intervista al ministro Maroni, che lavora nel governo dell’editore, per dire che la criminalità al Nord non esiste, che la criminalità è stata pressoché battuta e che chi dice il contrario è un menagramo comunista.
E’ seguito – giuro – un elenco in stile “Vieni via con me” (stessa colonna sonora, di Paolo Conte) dei latitanti arrestati negli ultimi due anni.
Poi per fortuna è arrivata la pubblicità. Quella seria.

Il traffico

Sono in un Paese in cui il traffico stradale è un’emergenza (altro che Johnny Stecchino), in cui ci sono i metal detector all’ingresso degli alberghi, in cui se nomini Berlusconi tutti ti sorridono soddisfatti. Ovviamente non è l’Italia.

Il coraggio ordinario

Quella di Valeria Grasso è una storia ordinaria, e ciò non deve sminuirne l’importanza. Perché è ordinaria come il diritto calpestato di un cittadino, come l’abbandono di un monumento pubblico, come la politica delle rane dalla bocca larga.
Valeria – mi permetto di chiamarla per nome perché è una mia amica – è una donna coraggiosa che si è scontrata con il sistema mafioso. Come è accaduto a molti imprenditori siciliani, si è accorta di essere imbrigliata in una rete appiccicosa di storture, solo quando i giochi erano fatti.
Come si dice, nessuno nasce insegnato e non c’è nulla di più irritante, per chi vive alle nostre latitudini, del pontificare di chi, in virtù del senno di poi, ha soluzioni meramente verbali per problemi reali.
No, Valeria ha avuto modo di provare sulla sua pelle gli inganni di questa terra: i finti amici, i rapporti di lavoro truccati, certe abominevoli consuetudini.
Quindi astenersi pontificatori.
Però Valeria se n’è accorta in tempo.
Ha denunciato tutto e tutti.
Si è esposta con faccia, nome e cognome. Ha messo in gioco la sua vita e quella dei suoi tre figli.
La sua presa di posizione in sede giudiziaria è costata il carcere a due mafiosi (di merda).
Lei ha fatto e continua a fare nomi e cognomi. A volto scoperto, a testa alta.
Ora ha subito troppe minacce, intimidazioni e la sua attività economica ne ha ovviamente risentito (vorrei vedere voi a lavorare nella vostra azienda mentre vi tagliano i cavi della luce o vi distruggono l’auto sotto casa).
Valeria non vuole soldi. Cerca solo qualcuno che la ascolti.
Ha scritto a tutte le autorità di questo Stato. E, pensate un po’, non le ha risposto nessuno.
Io sono in grado di fornire tutti i suoi recapiti. Se qualcuno vuole mettersi in contatto con lei, può inviarmi una e-mail. Se qualcuno vuole far circolare questo post (anche senza citare la fonte) può farlo liberamente.
Non credo nelle catene internettiane né nelle petizioni online. Credo nella saggezza degli onesti.
Facciamo qualcosa per lei e per quelli come lei.
Il nostro programma non prevede insuccessi.

Incrocio pericoloso

A Palermo c’è un incrocio in cui i lavavetri sono particolarmente aggressivi. Io stesso ne sono testimone.
Finalmente
le forze dell’ordine sono intervenute. E ora non cominciamo con la solita tiritera sui poveri immigrati costretti a sbarcare il lunario.
Tutti gli altri sono poveri immigrati, quelli di quel gruppetto sono (aspiranti) criminali.

Stupri e logica

stuproC’è qualcosa che non mi quadra nel meccanismo logico del governo italiano, anche se l’aggettivo logico è un po’ forzato. Si è scoperto ultimamente che in Italia ci sono gli stupratori (ci sono anche gli assassini, i ladri, i pedofili, i comunisti… ma non è il loro turno) quindi ci vuole un bel decreto caldo caldo che risolva una volta per  tutte la questione.
Che problema c’è? Lo sforniamo subito, tipo pizza Catarì.
La gestione di un evento necessita delle vittime di quell’evento e soprattutto del coro mediatico. Senza, non c’è piacere.
Promuovere gli stupri a emergenza nazionale significa ammettere che la delinquenza più bassa e abietta (se mai ci fosse una classifica delle nefandezze più nefande) è stata finora immune e sottovalutata. Non è discorso di poco conto per un governo che ha fatto della sicurezza, con o senza ronde private legalizzate e auspicate, uno dei suoi ronzini di battaglia.
Basterebbe un discorso franco, del tipo: “Abbiamo tagliato i fondi per le forze dell’ordine e incitato i cittadini a sostituirsi a loro, a costo zero… era una minchiata, scusate”.
Invece serve un decreto per soddisfare la smania onanistica dell’atto di forza.
La parola prevenzione, in certi vocabolari, è stata coperta da una macchia di qualcosa che non oso immaginare.