Siamo vecchi

Finisce lo stato di emergenza e come sempre la fine di un’emergenza pesa meno, emozionalmente parlando, del suo esplodere. Eppure negli ultimi due anni, gli anni che hanno cambiato radicalmente i nostri stili di vita, non c’è stato attimo in cui quell’emergenza non sia stata presente nelle nostre esistenze.
Soprattutto – è la cosa che mi impressiona – è importante capire quanto questa situazione estrema abbia modificato la nostra percezione temporale.
Siamo invecchiati ben più di due anni.
Perché ad essere colpito è stato il sistema di relazioni, che è quella cosa che ci consente di avere consapevolezza del passare del tempo, più di uno specchio, più di un’autopalpazione della coscienza. Il rapporto con l’altro è l’unità di misura della nostra autostima, del mutare delle stagioni della vita, della disponibilità a concederci e dell’inclinazione a ritirarci.
Personalmente se mi guardo nel 2019 mi vedo molto diverso da oggi. Non peggiore, ma nemmeno migliore. Diverso. Perché è cambiato il mio rapporto con gli altri, necessariamente.
Detto da uno che si avvia a una (speriamo) serena anzianità il discorso ha una valenza tutto sommato declinabile in termini di rimbambimento più o meno precoce. Ma mettetevi nei panni di un giovane. Il suo radar ha girato a vuoto per due anni e gli unici puntini sullo schermo che lo hanno illuso di non essere solo sono surrogati di presenze, emozioni prettamente virtuali.
Non è vero che la tecnologia ci ha salvati, almeno non è vero che ci ha salvati fisicamente. Ci ha aiutato economicamente, certo. Ci ha insegnato a non diffidare più del futuro. Ma fisicamente ha devastato le nostre cellule migliori, quelle dell’immaginazione più pura.

Mi spiego meglio.

Io in questi due anni ho lavorato molto, più degli anni precedenti. E ho lavorato con i miei strumenti: creatività, tecnologia, fantasia. Ma ogni mio prodotto di questo periodo sarà inevitabilmente marchiato dalla pandemia, anche in modo inconsapevole. Perché le mie cellule dell’immaginazione sono state inquinate da una situazione estrema e omologante.

“Estrema e omologante” sono i termini su cui vi invito a riflettere.

Perché che le situazioni estreme siano cibo per la nostra operosità creativa non ci sono dubbi. Se viaggio per 836 chilometri a piedi con uno zaino in spalla è chiaro che ne viene fuori una narrazione in qualche modo degna di nota. Ma se tutti quanti fossimo costretti a fare quei chilometri a piedi e in simultanea, il prodotto sarebbe molto diverso. Sarebbe omologato e omologante, quindi disperatamente scialbo.
Le narrazioni sono di chi legge, ricordiamocelo. Nessuno può apprezzare un panorama al buio. Il problema dell’ignoranza dilagante sui social e delle fake news ha a che fare con questi corto-circuiti. Notizie estreme ed omologanti da leggere a occhi chiusi sono non-notizie pericolosissime. La finta cultura attecchisce tra chi non si fa domande.
In questi due anni il dato più drammatico dopo la morte e la disperazione per un virus canaglia è stato quello dell’esplosione di una incultura tanto violenta quanto colpevole che ha cercato di omologare una situazione estrema derubricandola a mero complotto.
Una vera azione criminale che prima o poi dovrà incontrare il suo opposto definitivo: la giustizia.
“Ne usciremo migliori”: ci eravamo illusi quando ci ritrovammo reclusi in una prigione grande come le nostre città, ma non per questo meno disagevole. Non avevamo fatto i conti con noi stessi, con la nostra indole incerta, con il nostro egoismo.
Non se ne esce mai migliori se si entra peggiori.

Teatri chiusi, istruzioni per l’uso

Quando nel 2015 sono arrivato al Teatro Massimo di Palermo la situazione era molto diversa da oggi. Dentro e fuori. Dentro, c’erano una cultura analogica e granitica, i computer e il digitale erano usati a malapena per spedire qualche mail, lo spettacolo era tutto sul palcoscenico. Fuori, c’era un mondo disordinatamente ordinario fatto di spettatori paganti, di contatti, di relazioni, di progetti a scadenze fisse.

L’innovazione tecnologica è arrivata come spesso arrivano queste cose, per scelta di pochissimi, in una semi clandestinità da intrusi, con contorno di abbondante sospetto da parte di tutti gli altri, a parte i pochissimi di cui sopra. La decisione più dirompente, e importante, fu quella di mandare in diretta web in forma gratuita tutte le prime delle nostre opere.

Da lì iniziò un cambiamento lento che, non senza scossoni, ostacoli non proprio artificiali e alzate di spalle più o meno metaforiche, ha portato il Teatro Massimo in una nuova dimensione. Questa è la parte sulla quale sorvolo (ne ho scritto più volte sui giornali, qui qui e qui trovate qualcosa). In poche parole l’obiettivo era quello di dimostrare che un utilizzo corretto del web non sottrae nulla al nostro sistema di relazioni e anzi porta alla creazione o al consolidamento di occasioni preziose per tentare nuove narrazioni. Il concetto fondamentale che vi chiedo di tenere a mente è quello di “economia di posizione”: cioè una forma di tesaurizzazione non in forma immediatamente economica,  bensì strategica, logistica, lungimirante. Essere dove gli altri non sono ancora è una forma di ricchezza che non è scalfita da svalutazioni o inflazione.

Il libretto delle istruzioni.

Ma erano ancora altri tempi. Un altro tempo in cui gli spettatori erano quelli che vedevamo fisicamente, che incrociavamo nel foyer, che salutavamo personalmente (ah, le strette di mano, gli abbracci…), dei quali conoscevamo gusti e pregiudizi. Un altro tempo in cui bastavano tre telecamere e un collegamento volante per stupire senza troppa raffinatezza. Un altro tempo in cui il libretto delle istruzioni era ancora dentro il teatro e riguardava esclusivamente il teatro, perché era lì e solo lì che si celebrava l’antico rito dell’arte. Ed era lì e solo lì che lo spettatore trovava modi e ragione per assaporare la sequenza di emozioni che lo spettacolo doveva suscitare. Il prodigio si ripeteva a ogni replica con la sacralità del gesto di accomodarsi, con la pazienza di non muoversi troppo, con la saggezza di lasciarsi stupire dal fascino del classico (cioè qualcosa che conosciamo a memoria ma che non ci stanchiamo di considerare sorpresa).
Poi venne il virus e cambiarono gli scenari.
Il pubblico divenne liquido, anzi impalpabile. Perse il suo potere contrattuale di critica, almeno nel senso noto come diritto di utente pagante. E soprattutto divenne immenso come la potenzialità di un incontro al buio, di un’entità recensibile. Non sapevamo più nulla di chi ci guardava: altro che gusti e pregiudizi.
Questo è un passaggio fondamentale del ragionamento quindi permettetemi di essere pedante, in fondo è il mio orticello.  
Era cambiato drammaticamente il libretto delle istruzioni. Perché le istruzioni non erano più solamente teatro e nel teatro.  
Siamo a oggi. La lingua è un’altra lingua: è la lingua dei social, dei media sopravvissuti, delle serie tv, dei nuovi neologismi accettati dall’Accademia della Crusca. Si può scegliere di capire o meno, ma opporsi per principio significa arretrare. E arretrare in tempi di guerra significa perdere, scomparire.

Il passato non serve più?

“Chi è ciascuno di noi se non una combinatoria di esperienze, di informazioni, di letture, di immaginazioni? Ogni vita è un’enciclopedia, una biblioteca, un inventario di oggetti, un campionario di stili, dove tutto può essere continuamente rimescolato e riordinato in tutti i modi possibili”.
Nelle “Lezioni americane” Italo Calvino dà le sue (preziose) indicazioni sull’arte e sul futuro, sul mondo della letteratura e su quello delle relazioni sociali. Siccome non si invecchia per caso, mi piace proporvi un brandello dei suoi ragionamenti per spiegare un altro passaggio fondamentale della mia modesta trattazione: il fatto che il futuro avanza inesorabile non vuol dire che il passato non serva più a nulla. 
Il futuro e il passato sono i temi che più ci sconvolgono in questo momento, ammettiamolo. Anzi ci sconvolge il loro contatto brusco. Mai prima d’ora il nostro passato è stato diverso dal nostro presente, figuriamoci il futuro.
E allora mi sporco le mani e scrivo le tentazioni che dobbiamo evitare:
L’innovazione tecnologica rompe i privilegi di una casta e apre alla vera democrazia;
La spettacolarizzazione di un evento lo rende indimenticabile;
I nuovi fruitori sono i nuovi padroni, una versione moderna de “il cliente ha sempre ragione”.

Leggerezza e rapidità.

Odio i numeri, a scuola ero sempre rimandato in matematica, ma mi arrendo a una tardiva evidenza: i numeri servono.
In Italia ci sono più dispositivi smart che abitanti. E gli italiani trascorrono online circa sei ore al giorno, pressoché in linea con il trend mondiale. Di queste sei ore, tre vengono catturate da smart tv o piattaforme di streaming (le smart tv ovviamente hanno la parte maggiore).
Ciò significa che il pubblico e le poltrone ci sono.
Ora serve lo spettacolo.
Quando, molti anni fa, mi occupai di transizione dalla carta al web per un grande gruppo editoriale italiano diedi una sola avvertenza al mio team: evitare che il nuovo, urgente, istinto al laicismo internettiano divorasse la sacralità della carta nel nome di un nuovo estemporaneo dio. Ancora oggi è un mio mantra, sulla scorta di ciò che scrivevo sopra: il fatto che il futuro avanza inesorabile non vuol dire che il passato non serva più a nulla.
È una questione di codici, per quel che posso capire. Basta azzeccare quelli giusti, come la combinazione di una cassaforte o il pin di un cellulare.
Ci sono solo due parole da pesare bene, tra i miliardi di sbuffi, ghirigori e sproloqui, che il web ci impone: leggerezza e rapidità.
Vi dicono niente? Eh, siamo di nuovo a Calvino. Che era sì uomo di un altro secolo, ma che non era un fesso.
In tempi eccezionali è facile fare due cose sbagliate: tirare i remi in barca e andare a caccia alla cieca di qualcuno da imitare. Nel nostro specifico, vivacchiare sfruttando la corrente e scimmiottare chi ha più talenti e risorse di noi.
E invece la nostra peculiarità sta nell’essere liberi di saper sbagliare da soli.
Come? Facendo quello che abbiamo fatto con sapiente incertezza, muovendoci con saggia paura nel terreno della novità più oscura.
Il crepuscolo dei sogni” è l’esempio (guardatelo se non l’avete visto). Un’opera pensata senza reti di protezione per un mondo sconosciuto, forte delle sue insicurezze, blindata nella sua apertura estrema alle più libere letture. Sul fronte della moderna comunicazione “Il crepuscolo” è un esempio da manuale perché, nella sua più ridondante classicità (e nel suo rimpianto per essa), celebra il qui e adesso senza il ditino alzato, senza la pretesa di dare la lezioncina.
È leggera e rapida. Come regole imposteci da questa era impongono.
Ma nel contempo è classica, è attuale, è precisa. Infatti sorprende a ogni visualizzazione e continua, ogni giorno ad avere spettatori.
Ma il “Crepuscolo” è una eccezione. Molti spettacoli pensati e realizzati per il web ricordano i temini della scuola scritti bene, ma senz’anima. Perché hanno un difetto che riguarda il famoso libretto delle istruzioni: sono cose fatte per i pochi che masticano di opera. E non è la spiegazione che manca, ma l’anima.
Due puntualizzazioni a proposito del “pochi” e della “spiegazione”.         
Tra chi non ha dimestichezza col mondo digitale c’è un problema coi numeri. Allora chiariamo: un migliaio di persone che risultano sul web non sono un teatro pieno, sono un migliaio di passanti, perlopiù distratti, che passano dalle parti del nostro palcoscenico.
Quanto alla spiegazione c’è un equivoco di fondo che può essere sciolto con la differenza che passa tra il mondo reale e quello digitale. Molte spiegazioni che alleghiamo ai nostri video o ai nostri spettacoli in streaming saziano più la nostra visione imperfetta di un mondo che non tocchiamo con mano, che la reale necessità di chiarezza. Le spiegazioni online hanno tempi e modi molto differenti dalle “messe cantate” in presenza, quegli antichi riti in cui il direttore o il regista o chi per loro si presenta dinanzi a un pubblico ossequioso ed elargisce un paio di chiarimenti/esemplificazioni/giustificazioni. Il pubblico online è diverso: non è lì che ti aspetta,  è distratto da mille cose, non paga, non è obbligato dalle circostanze a starti a sentire e soprattutto può passare da lì per caso.
Ricordiamoci di questi passaggi quando riteniamo di risolvere tutto con un paio decisioni che in realtà sanano i conti con la nostra coscienza.

Infine il futuro.

Se siete arrivati sin qui vuol dire che dovrò complimentarmi personalmente.
Cosa ci diciamo per il futuro?
Riprendiamo i concetti chiave.
Il nostro libretto delle istruzioni deve guardare al mondo. Fare l’opera solo per chi conosce l’opera è un atto di onanismo imperdonabile in questi frangenti di chiusura fisica e apertura virtuale. Gli altri, i non-spettatori non-paganti, non sono più i barbari ma sono genti da attrarre. Parlano un’altra lingua, ok. Ma l’arte ha un obbligo preciso in tal senso, per troppo tempo disatteso: inventare nuovi linguaggi per chi a quei linguaggi deve ancora arrivare.
Leggerezza e rapidità devono entrare nel nostro vocabolario di conversione, di traduzione. Perché in questo momento, a parte innovare (che è una fatica pazzesca), noi stiamo traducendo. Stiamo traslando antichi codici in nuovi ambiti e per farlo corriamo il rischio di essere oziosi, autoreferenziali.  Dobbiamo agire a 360 gradi quando pensiamo a programmare per i teatri: ritmo e durata dello spettacolo sono i primi nodi da sciogliere.

Insomma.

Insomma penso che molto abbiamo fatto e che molto possiamo fare: dobbiamo imparare a distinguere tra i confini e l’invenzione di un confine. Spesso siamo noi che ragioniamo applicando vecchi registri a nuove narrazioni. E il motivo è sempre quella piccola insistente tentazione che oscilla tra l’abitudine e la convenienza. Quando qualcosa cambia, la prima tentazione è quella di alzare una Grande Muraglia per difendere ciò che abbiamo dentro. Ma quando ci accorgiamo che il nostro eroismo domestico è solo mero spirito di autoconservazione, allora dobbiamo cambiare idea. Senza esitazione, magari insieme per darci coraggio.
E muoverci davvero per vie che superino la mutazione.    

Poco innocenti evasioni

L’articolo pubblicato su la Repubblica Palermo.

Esistono molti modi di sbagliare su un tema così delicato e attuale come il rispetto delle norme di contenimento del Covid-19. E sono tutti deprecabili. Ad esempio, a chi nel tardo pomeriggio capitasse di percorrere la via Monte Ercta, la strada che da Mondello sale a Monte Pellegrino, potrebbe accadere di imbattersi in una comitiva di ragazzini che, per sfuggire ai controlli anti-assembramento, si dà appuntamento sulla piazzola panoramica che un tempo era territorio di coppiette più o meno clandestine. È un tipo proibito di assembramento – assembramento, la più attuale tra le parole un tempo desuete – che spesso è imbarazzante da censurare. Chi è stato giovane sa quanto è innaturale non far cose da giovani. I giovani non sono creature solitarie e imporre loro di esserlo è un compito da svolgere con garbata fermezza. Ai ragazzi di via Monte Ercta va spiegato che esistono libertà alle quali si rinuncia proprio per poterne (ri)conquistare di nuove.      

Errori. Tutti deprecabili, dicevamo. Ma ce ne sono alcuni più irritanti, come quello dell’immarcescibile Angela Chianello, iconica creatura della tv spazzatura foraggiata in popolarità dall’algoritmo strabico dei social. La signora del “non ce n’è Coviddi” è tornata l’altro giorno sul luogo del misfatto, la spiaggia di Mondello, e infischiandosene del semi-lockdown ha ballato con amici e sodali a favore di telecamera, tutti rigorosamente senza mascherina (probabilmente è un modo per preservare il brand). Anche questo video è diventato virale, arrivando però all’attenzione della Polizia. La Chianello si è beccata una denuncia quasi a clamor di popolo: uno di quei rari casi in cui il problema della giustizia-spettacolo non è la giustizia.

C’era una volta

Il nuovo non avanza, si insegue, si stana, C’è questa insana idea che l’innovazione ci debba raggiungere comunque, ineluttabilmente come le tasse, la morte e il silenzio di Badalamenti (cit.). Invece no, e che a ricordarlo qui debba essere un tizio come il sottoscritto che ha più strada alle spalle che futuro davanti è divertente (almeno per me).
L’idea del futuro è qualcosa che ti prende alle spalle, senza un motivo apparente.
E per spiegare bene vi racconto due brevi episodi della mia vita.

Metà anni ’90, Giornale di Sicilia. Ero vice caporedattore, capo delle Cronache Siciliane, e nel quasi totale disinteresse di una redazione analogica guardavo oltre. Mi interessava questa strana macchina virtuale che metteva in comunicazione le persone del mondo con un paio di clic, ci si scambiavano esperienze, musica,  deliri notturni. Perché era di notte che vivevamo a quei tempi, noi smanettoni. Tutti gli altri ci guardavano storto, poiché il web percepito era allora legato alla clandestinità delle sensazioni: e poco importava se era scambio di files o di numeri di telefono. Noi eravamo marchiati. Al giornale eravamo in due: io e Daniele Billitteri. Parlavamo la stessa lingua, anche perché lavoravamo insieme già da oltre un decennio. E solo dopo una manciata di anni sarei riuscito a convincere l’editore che non bastava un modem semiclandestino a mettere in moto il cambiamento.
Il resto è storia. Il sito del Gds venne varato con grande successo di pubblico e poi inspiegabilmente chiuso per cinque anni. Anni in cui da spento come testimoniai su queste pagine da spento il gds.it faceva oltre tremila utenti unici al giorno. Insomma, ogni giorno tremila persone si collegavano per guardare un monoscopio. E l’editore non ne sapeva nulla, nel migliore dei casi.
Oggi il Gds sta affondando e la gestione dell’online è uno dei capitoli cruciali del “come non si fa”: roba da studiare all’università.

Agosto 2014, Teatro Massimo di Palermo. Il sovrintendente Francesco Giambrone mi chiede di riposizionare il Teatro sul web e non solo. Accetto al buio per due motivi: conosco e stimo Francesco da molti anni e soffro per come il teatro è nudo e disarmato di fronte a qualsiasi tipo di innovazione. Mi invento una web tv, accendo i riflettori dei social, metto su un sito degno di questo nome, e si va. Soprattutto mi prende alle spalle l’idea, quella idea che altrimenti avrei temuto… sì, quella : mandiamo GRATIS online tutte le prime delle nostre opere, con sei telecamere, in full hd.
Ma come? E se le diamo gratis, chi se lo compra il biglietto? Se lo chiedono molti dinosauri della burocrazia, ma non Giambrone. Che, senza battere ciglio, si fida e mi dà carta bianca. Non ne ho mai parlato prima d’ora, ma credo che la sua lungimiranza sia stato il catalizzatore ideale per la mia follia.
Oggi il Teatro Massimo ha una partnership consolidata con Google (ultimamente anche con YouTube), è finito sulla prima pagina del New York Times anche per la sua attività sul web, e ha una web tv che non sfigura in campo mondiale.

Perché vi ho raccontato queste storie?
Perché nel mio minuscolo servono a testimoniare che, anche e soprattutto nei momenti complicati, l’innovazione è un’idea che deve volare libera dai lacciuoli dell’ordinarietà. Sennò è buona amministrazione, o lucida burocrazia, altra cosa comunque.
Le migliori idee vengono sempre quando si è senza guinzaglio (o quando anche per poco al guinzaglio si è sfuggiti). E non è detto che siano buone, la percentuale di rischio dà il valore umano, professionale e intellettuale di chi le avalla. Perché farsele venire è una cosa, approvarle è un’altra.

Siamo in un’epoca difficile e per questo dobbiamo pensare a nuovi grimaldelli, nuove chiavi di lettura, nuovi parametri per catalogare gli items che ci circondano.
E se lo faccio io che, proprio in questo momento, sento per la prima volta sul groppone tutto il peso dei 57 anni accumulati spesso barando nelle mie sei-sette vite, non vorrete non farlo voi, giovani e forti?
Quindi pensate, pesate, agite.  Il mondo, oggi più che mai, è dei creativi o comunque di quelli che non hanno paura di mettersi a nudo per raccontare una storia che gli altri aspettano (anche se non lo sanno).

Sin quando ci sarà un “c’era una volta” ci sarà una volta. E una luce da spegnere su un bambino che prenderà sonno e che progetterà un mondo nuovo, con un futuro da stanare, inseguire.

Zitto coglione

“Zitto coglione!”. Sino a qualche anno fa, e sembra passato un secolo, una discussione impari tra una persona mediamente intelligente e un ignorante presuntuoso (cioè uno che fa del proprio non sapere un’arma di attacco) si poteva ritenere chiusa con una frase del genere. Poi il senziente tornava tranquillo a casa, il cretino d’assalto restava isolato nell’eco di quelle ultime parole (“Zitto coglione!”) e il mondo continuava a girare più o meno tranquillamente con la parte sana del pianeta immersa nei suoi dubbi e quella bacata avvolta nella coltre oleosa delle sue certezze.

Oggi nell’epoca del “Social dilemma” – a proposito, ne parliamo giovedì 15 ottobre, alle 19, a piazzetta Bagnasco a Palermo – la moltiplicazione del dubbio è diventata un’emergenza e da strumento del saggio si è trasformata in alibi dello stolto. Perché se il dubbio è instillato in malafede siamo davanti a un’emorragia di buon senso. E dove il buon senso latita, la cretinocrazia impera.

L’adunata di no-mask negazionisti e fascisti travestiti da scienziati di oggi a Roma è in tal senso un esempio da enciclopedia. Prendi i peggiori imbecilli del paese, dagli una platea di cretini ammaestrati, forniscigli una motivazione politica cialtrona tipo il governo ci guadagna con l’emergenza, condisci il tutto con la truce sensibilità per le fandonie dell’algoritmo di Facebook, e il gioco (sporco) è fatto.

Non c’è spazio per l’ottimismo di Woody Allen secondo il quale “il vantaggio di essere intelligente è che si può sempre fare l’imbecille, mentre il contrario è del tutto impossibile”. Oggi il contrario è la regola di ogni meccanismo sociale. Il contrario giustifica, premia, innalza, erige, eccita. E non c’è rimedio se non il puntuale opporsi a ciò che non è, che non può essere e che non dovrà mai/più essere. Per questo è drammaticamente sbagliata la tesi secondo la quale bisogna lasciar correre, non dare spazio a certi fenomeni perché altrimenti si corre il rischio dell’effetto amplificazione. No, è dimostrato che una falsa notizia ha un’eco sette volte superiore a una notizia vera. Quindi deve essere crociata senza confine. Oggi, domani, sempre.
Il grido di battaglia? “Zitto coglione!”.    

Una Chianello senza musica

L’articolo pubblicato su Repubblica Palermo.

In quello che verrà ricordato dai posteri come il sillogismo di Miccichè (Berlusconi è sopravvissuto al Coronavirus, Berlusconi ha 85 anni, quindi il Coronavirus non è più quello di una volta) c’è un solo difetto: manca la musica. Il verbo del presidente dell’Ars non è solo la versione noiosa del tormentone di Angela Chianello (“Non ce n’è Coviddi”), maître à penser formatasi nella battigia di Mondello e maturata nelle trasmissioni di Barbara D’Urso, ma anche un raffinato affresco di negazionismo scientifico applicato alla politica: “A Roma sono innamorati dell’emergenza perché nell’emergenza possono fare quello che vogliono”. Che è come dire che tutti i medici e gli scienziati che si sbracciano per metterci in guardia dall’aumento dei contagi sono in fondo complici di un gioco delle tre carte. Nel 2010 Silvio Berlusconi, in uno dei suoi noti slanci di realismo, disse che nel programma del suo governo c’era l’impegno di sconfiggere il cancro entro tre anni e probabilmente fu per un intoppo nel meccanismo della propaganda che non si stamparono i manifesti “Meno tumori per tutti”. Oggi Miccichè va ben oltre quel limite di panzane e si ricollega a quel filone culturale che dai “Gilet arancioni” di Antonio Pappalardo al “Popolo delle mamme” vede complotti a ogni angolo e anzi inventa nuovi angoli per non morire di noia. È in qualche modo un upgrade del sonno della ragione che non si accontenta più di generare mostri, ma li vuole retwittare, condividere, spammare, li alimenta per trovare uno slancio vitale verso qualcosa che proprio vitale non è. Il negazionismo di Miccichè è una cosa seria, esattamente come gli show della Chianello su Instagram e come la cialtronaggine dei no mask. Però almeno con la Chianello si ride.

Elogio dello streaming

L‘articolo pubblicato su Il Foglio.

Si sa che il buio costringe ad aprire gli occhi, ma ci voleva davvero una pandemia per scoprire l’utilità dello streaming per tenere i cervelli connessi? Stando alle parole del ministro Dario Franceschini, che in pieno lockdown ha sparato l’idea della creazione di una “Netflix della Cultura”, sì. Stando alle carenze strutturali di un Paese che crede nell’innovazione tecnologica solo quando ha le pezze al culo e rischia di dover tornare ai telefoni a disco per ristabilire le comunicazioni, no: bisognava muoversi molto prima perché le idee partorite in piena emergenza sono a grande rischio di fallimento.

Il rapporto tra web e cultura in Italia risente di quelle stesse resistenze ideologiche che portarono il filosofo John Haugeland a gelare – sin dagli anni ’80 – le aspettative sull’intelligenza artificiale. “Ai computer non gliene frega niente” scrisse sulla distinzione tra la capacità di calcolo e quella di giudizio: laddove il calcolo è inteso nel suo senso etimologico originale, cioè il saper svolgere operazioni aritmetiche, e il giudizio è un impegno più complesso che richiede il coinvolgimento dell’intero sistema verso il mondo esterno. Oggi lo streaming è visto come uscita di sicurezza, come ultima spiaggia, e raramente come strumento utile anche in tempi di pace. È la stessa posizione di pregiudizio che, ben prima del Coronavirus, ha portato il mercato editoriale italiano fuori asse rispetto alle potenzialità del web.

L’errore fondamentale è tradurre tutto in una mera guerra di supporti: carta contro internet, analogico contro digitale, pagine contro byte. Soprattutto nel mondo della cultura, e nel mercato a essa connesso, dovrebbe essere chiara da tempo la diversa vocazione dei mezzi. Prendiamo l’opera lirica, uno degli spettacoli più complessi. È ben noto ad appassionati e addetti ai lavori che, a differenza di altre attività – come una partita di calcio, una serata di cabaret o persino un concerto rock – l’ambito, cioè il luogo nell’opera, conta in modo determinante sul godimento da parte dello spettatore. Il teatro come struttura fisica in questo caso è infatti parte integrante della forma di narrazione, con la sua acustica, con la sua architettura, e nessun surrogato potrà mai sostituirlo. Il web dal canto suo sollecita una componente voyeuristica che stimola altri sensi. Ripeto altri sensi, quindi non è in alcun modo un concorrente diretto. Applicando questi codici si può dimostrare, ad esempio, che generalmente la diretta streaming di un’opera non cannibalizza biglietti d’ingresso giacché non può essere inquadrata come qualcosa che sostituisce lo spettacolo dal vivo, ma al contrario assolve una funzione determinante, da manuale di marketing: crea desiderio.                

Pagare o non pagare, questo è il dilemma: lo streaming gratuito è sbagliato? Qui è questione di strategie. Innanzitutto va detto che c’è gratis e gratis. Una cosa è il non farsi pagare, un’altra è il non essere pagato. È la differenza che passa tra il dono e il furto: perché chi vuole da te una prestazione o un manufatto pretendendo di non pagare, è un mezzo ladro.

Però giudicare sbagliato lo streaming gratuito, stroncandolo senza appello, è come dare dello scemo al tale che raccoglie l’uva e, anziché mangiarsela, la mette in un tino e la pesta. Questione di prospettive. In Italia gran parte delle polemiche su questo tema vertono più sulla questione di principio (non è giusto lavorare gratis) che sulla strategia imprenditoriale (non guadagno oggi perché penso di guadagnare di più domani). Scegliere un’economia di posizione, ad esempio pasturare una fetta di pubblico ben selezionata con proposte gratuite, potrebbe rivelarsi utile soprattutto alla luce dei cali di presenze registrati dalla Siae (dati 2017-2018): meno 18,72 per cento nell’attività teatrale totale; meno 46,16 per cento nella concertistica.

“Lo streaming uccide l’arte”: è un’argomentazione riempipista. Al pari di: leggere su carta è un’altra cosa; il teatro è teatro, il web è web; si stava meglio quando si stava peggio. Lo streaming e il web non hanno mai assassinato nessuno, lo hanno fatto gli imprudenti nelle grinfie dei quali certi strumenti sono finiti e soprattutto lo ha fatto l’ignoranza, ergo l’endemica mancanza di conoscenza. Rassegniamoci: persino un libro nelle mani sbagliate può diventare un oggetto contundente. In questo campo ci sono molte varianti che raccontano dell’analfabetismo digitale italiano: il web ammazza i giornali, il web ammazza il commercio, il web ammazza le famiglie e via assassinando. In ogni forma di progresso c’è un lato oscuro, persino nei vaccini salvavita ci sono le controindicazioni. E poi diciamolo fuori dai denti: oggi, nell’anno di disgrazia 2020, lo streaming può essere la salvezza di un’arte confinata in un gigantesco sanatorio. Non sappiamo ancora se il mondo finirà per un Grande Starnuto ma, nell’attesa che i teatri tornino ad essere luoghi di cultura e non più raduni di potenziali appestati, bisogna accettare che il rapporto tra arte e web può essere cambiato: da convivenza a integrazione.

Non la pensa così la regista Emma Dante, che in piena emergenza Covid, ha spiegato su Facebook la sua linea di (non) azione: “Non farò teatro sul web o utilizzando chissà quali tecnologie pazzesche: il mio teatro non diventerà mai virtuale, è più facile semmai che mi ritroverò a fare teatro con soli due spettatori. Ribadisco, se questo deve diventare il teatro, allora meglio aspettare. Ma l’attesa non deve essere un privilegio di pochi, il tempo della ricerca non può essere il lusso di chi può permetterselo. I lavoratori dello spettacolo devono essere messi nelle condizioni di poterlo fare. Devono essere tutelati”. E sull’idea del ministro della Cultura di una piattaforma online per rilanciare il settore in crisi: “Mi dispiace che dal ministro arrivino proposte del genere e che non ci sia, invece, un dibattito serio su questi temi, sulla cultura, proprio adesso che il Paese ne ha grande bisogno”.

Da convivenza a integrazione, dicevamo. Un esempio lo fornisce il Teatro Massimo di Palermo che, per la sua riapertura in epoca di distanziamento sociale, ha scelto di ridisegnare lo spazio scenico abolendo la platea. E lo ha fatto affidandosi a un regista come Roberto Andò che conosce i codici del cinema, dell’opera e del romanzo e che ha immaginato uno spazio nuovo: a misura di spettatore, ovunque lo spettatore sia, in teatro o a casa.

Fuori dall’emergenza Covid, ma dentro il dibattito sul purismo dell’arte, il capofila della crociata contro lo streaming  è stato Steven Spielberg, che conduce da tempo una battaglia contro Netflix. “Mi auguro che tutti noi continueremo a credere che il principale contributo che possiamo fornire da registi è offrire al pubblico un’esperienza cinematografica” ha dichiarato nel discorso di ringraziamento per il Filmmaker Award tributatogli lo scorso anno dalla Cinema Audio Society a Los Angeles. “Credo fermamente che le sale cinematografiche continueranno a esistere per sempre. Amo la televisione, amo le possibilità che offre. Alcuni dei più grandi lavori di scrittura sono stati fatti per la televisione, oggi alcune delle migliori performance sono in tv. Il suono nelle case è migliore di quanto sia mai stato, ma niente può sostituire un cinema buio con persone che non hai mai incontrato prima con cui condividere l’esperienza”.

Quella di Spielberg è però una crociata per l’ortodossia del godimento del cinefilo, contro l’inscatolamento dei contenuti dal grande al piccolo schermo, alta nel suo simbolismo artistico ma stratosfericamente distante dai problemi di casa nostra. Dove spesso si ragiona per slogan. Uno di questi è: il web ci toglie lo stipendio. Vero se, come detto, lo strumento viene usato come panacea. Falso se si guarda la realtà senza pregiudizi. Di solito questa argomentazione minuscola viene usata perlopiù da un (purtroppo) maiuscolo sindacale spalmato su tutti i settori produttivi. Invece è bene ricordarlo. Ci sono categorie di lavoratori che durante il lockdown, in svariati campi, hanno vissuto solo grazie alla contestata evanescenza del web, e non ci si può arroccare in tecnicismi quando si tratta di sopravvivenza. Osteggiare per principio internet è la cosa più pericolosa che si possa fare. Studiarlo con umiltà sarebbe un dovere, come frequentare un corso estivo per ripetenti.  

Alla luce di tutto questo proviamo a rileggere la proposta della “Netflix della Cultura” lanciata da Franceschini. In un Paese che per aumentare la sua alfabetizzazione digitale ha avuto bisogno di una pandemia – basti pensare all’esplosione dello smartworking e del telelavoro, per non parlare dello choc collettivo della didattica digitale con insegnanti che non distinguevano un computer da una caffettiera costretti a prendere lezioni di chat dai loro alunni – non serve creare nuovi portali nel deserto. Basterebbe usare i mezzi che ci sono: le reti Rai ad esempio, che hanno una ramificazione territoriale e una dotazione tecnologica ben rodata. E soprattutto tenere d’occhio i grandi cambiamenti del web che in questo momento è di fatto nelle mani di quattro grandi aziende private statunitensi (Google, Facebook, Apple e Amazon). La Cina si è fatta avanti per imporre un nuovo modello di protocollo internet centralizzato che, di fatto toglie il pallino dalle mani dei privati e lo dà ai governi: una sorta di brace dopo la padella insomma. Il Financial Times ha visto in anteprima il progetto presentato nel settembre scorso agli uffici dell’Unione internazionale delle telecomunicazioni a Ginevra, un’agenzia dell’Onu che definisce gli standard mondiali per le tecnologie, dalla squadra cinese che si compone essenzialmente di ingegneri in forza al colosso Huawei. E lo ha descritto come una “architettura calata dall’alto” che nelle intenzioni dei creatori dovrebbe favorire progetti di condivisione tra governi “per metterli al servizio dell’intelligenza artificiale, della raccolta dati e di ogni altro tipo di applicazione”. In pratica è più di una larvata ipotesi che con questo nuovo tipo di Rete i fornitori di accesso a internet sarebbero generalmente di proprietà statale e avrebbero il controllo totale di tutti i dispositivi collegati. Insomma, con questi chiari di luna quando si accoppiano le parole “internet” e “cultura” bisogna stare molto attenti giacché si maneggia un materiale come la conoscenza che ha valore in quanto trasmissibile, cioè soggetto a scambio, a movimento. Se c’è una cosa che il lockdown ci ha insegnato è che da una difficoltà si esce solo con un cambiamento, e che non c’è tempo per perdere tempo. Il Darwinismo applicato agli enti culturali, come teoria di sopravvivenza dei più forti e soprattutto adattabili, può risultare crudele ma appare come una strada obbligata.          

Blaterare di “mai più”…

Non c’entra la memoria, il cui culto tardivo e spesso interessato è fonte di maggiori problemi rispetto all’amnesia. Non c’entra nemmeno l’onanismo del futuro, nel cui nome disprezziamo in maniera indecente l’antico e i vecchi. C’entra il presente e una convinzione urgente ma non recente: che i nostri tempi, quelli che stiamo vivendo, siano di fondamentale importanza e che tutto il resto, il vissuto e ciò che verrà, non conti un cazzo.
Si chiama cronocentrismo e lo ha inventato/scoperto 46 anni fa un sociologo americano, Jib Fowles, scrivendone sulla rivista Futures. È un termine attualissimo ma, come detto, non nuovo. Racconta di come crediamo di vivere immersi in tempi stratosfericamente eccezionali quando invece, se mai ci confrontassimo con quello che ci sta alle spalle, potremmo davvero pensare di incidere qualcosa nella granitica massa del tempo che incombe e che, ahimè, ci precede.

Prendete il Coronavirus. Tutti a blaterare, me compreso, di cambiamenti epocali di “mai più” e “d’ora in poi”. Uno dei casi più emblematici è questo: sullo Spiegel si preconizza l’estinzione della notte solo perché i bar e i locali notturni sono stati costretti a chiudere per l’emergenza.
Il cronocentrismo è uno spunto per riflettere, per raccontarci. Per non diffidare di chi porta testimonianze proprie di fatti pubblici (tipica allergia in ambiente social) e incrementare le domande. Per tenere a distanza con la canna l’imbecille che indossa un gilet arancione per accusare l’alba di avergli rubato l’idea. Per parlare di chi c’era prima e di chi ci sarà dopo. Occuparci finalmente dell’altro – in altro luogo, con altro interesse, con altra cultura, in altro tempo e altri tempi – sarà il metodo migliore per cercare di trovare l’unica merce senza scadenza che vale oggi, ieri e domani: risposte, alternative.
Il migliore cibo per una civiltà è stato seminato ieri e verrà raccolto domani, non dimentichiamocelo.      

Mondello senza “capanne”

L’articolo pubblicato su la Repubblica Palermo.

L’estate di una Mondello senza capanne è la fine di un alibi. L’alibi del “chissà”. Chissà come sarebbe la spiaggia senza le cabine/capanne, come se d’inverno non la vedessimo meravigliosa nella sua selvaggia vuotezza. Chissà come farebbero i palermitani a vivere un agosto di sabbia e asciugamani, senza quel riparo di legno e chiodi nel quale stipare cianfrusaglie e sudore. Chissà che fine farebbe tutto quello spazio in più: più anime da stipare? Più munnizza da abbandonare?  Più metri quadri da strappare al dominio incontrastato della Mondello Italo Belga?   

Ecco, quest’anno avremo l’occasione di tastare con mano la realtà temuta o agognata, a seconda dei punti di vista, di una spiaggia “decapannizzata”, uno skyline stagionalmente nuovo per generazioni di bagnanti. L’emergenza da cui questa situazione deriva rischia di interferire con il complesso sistema biologico che governa i meccanismi della socialità a queste latitudini: una Mondello estiva senza ressa per molti palermitani è come una pietanza insipida. Perché a tutto avevamo pensato, ai supermercati come le trincee di guerra, ai runner clandestini come untori, all’assembramento killer e ai congiunti disgiunti, ma mai si sarebbe potuto immaginare un ferragosto senza il combinato pasta al forno – briscola – capanna. Questa nuova estate di Mondello è un’occasione per mettere da parte languidi ricordi (quanti amori nati dentro, intorno e persino sopra quelle capanne) e riflettere su un malinteso sempiterno: una spiaggia liberata non è automaticamente una spiaggia libera. L’unica forma definitiva di distanziamento sociale, purtroppo inattuabile, è quella dall’inciviltà di chi sporca, distrugge, oltraggia quella preziosa lingua di sabbia.        

Titoli di coda

Siamo a una fine che è inizio. E quando una fine e un inizio coincidono forse si è autorizzati a fare un bilancio. Il mio sarà breve.

Lockdown è una parola che all’inizio mi sembrava il titolo di un film di Ridley Scott, invece era un enorme cancello su un luogo pubblico: un catenaccio fisico a tutte le nostre libertà, un black-out della socialità mondiale. Siccome sono uno fortunato, la natura mi ha donato l’indipendenza e la lucidità necessarie per goderne senza sprecarle. Ecco, in questi mesi ho imparato ad apprezzarmi un po’ di più. Non mi sono lasciato andare (avrò preso un chiletto, dai), non mi sono annoiato mai. Perché ho frequentato il bar di casa mia, il ristorante di casa mia, l’albergo di casa mia, la palestra di casa mia, il cinema di casa mia, il teatro di casa mia, la libreria di casa mia, persino il centro benessere di casa mia. Tutti luoghi che ho usato come rifugio e come approdo, luoghi in cui avendo tanto tempo a disposizione ho persino potuto scegliere cosa non fare.
Ho letto meno di quanto avrei voluto perché la lettura è un atto anarchico che non può risentire di contingenze stringenti come quella di un virus dittatore. È come se qualcuno vi dicesse: forza leggete, pronti… via!

Ho fatto molte cose belle, interessanti nella loro ordinarietà privata. Mi sono riappropriato delle ore del giorno: ora so bene qual è la differenza tra le 15 e le 16, mentre prima per me erano solo uno spazio indefinito tra una riunione e l’altra (sono invecchiato tra giornali, teatro e varie con appuntamenti tutti tra le 15 e le 16). Ho dormito molto, anche più di dieci ore al giorno, e mi sono svegliato felice così come mi ero addormentato. Ho assaggiato vini sconosciuti e impastato farine conosciute, perché col vino e col cibo si conoscono il mondo e le persone. E io dal chiuso di casa mia ho esplorato lande che mi erano sconosciute: in un lievito c’è più groove che al Papeete pre-virus.

Insomma non dico che questo lockdown mi mancherà, ma che se fosse stato un film, di certo avrebbe avuto un finale di quelli che non sai se ridere o piangere, come la nostalgia per quella foto in cui “sorridevi e non guardavi”. Qualcosa che è scivolato via non senza grumi, lasciandoti felice per esserti ritrovato felicemente imperfetto.
La felicità in fondo è un’asimmetria.