Le lezioni americane

Una buona notizia. Il centrosinistra sembra aver finalmente capito che le primarie non sono uno strumento di faida, ma un’occasione di crescita, di ostentazione di democrazia se vogliamo.
La mano tesa di Bersani a Renzi in risposta all’apertura di quest’ultimo dopo la sconfitta, è un raggio di sole nel buio della politica italiana. Gli ingranaggi dei partiti hanno bisogno di una buona passata di lubrificante: serve innanzitutto un rinnovato collegamento con la base elettorale che si illude di contare ancora. Le primarie sono preziose in quest’ambito. Non a caso negli Stati Uniti, dove sono state inventate, servono non a dividere ma a consolidare. Ci si affronta più o meno lealmente, si va allo scontro nell’interesse del Paese, si rispetta il verdetto dell’elettorato e alla fine si lavora tutti insieme. Finora dalle nostre parti non girava esattamente così: le divisioni restavano dopo il verdetto popolare e anzi si accentuavano quando c’era da costruire la squadra del vincente.
Oggi pare che i due nemici, anzi “nemici”, abbiano imparato la lezione americana. Il vincitore recluta lo sconfitto, lo sconfitto appoggia il vincitore.
E’ un ottimo spunto di sogno davanti a un centrodestra che non sa ancora svincolarsi dal padre padrone. E’ l’occasione inseguita dopo vent’anni di quel crudele masochismo intellettuale che trasformava in sconfitte anche i gol a porta vuota.

La moda delle primarie

Da sinistra a destra, i partiti italiani cercano di rilanciarsi con le primarie. L’idea di creare maggiore partecipazione è condizionata  dalla paura di scomparire che si porta appresso un dubbio non da poco: se gli elettori non vanno più alle urne per le consultazioni ordinarie, si accolleranno di fare la coda (e di pagare anche) per una competizione meno cruciale?

Le primarie sono un istituto tipicamente americano, risalgono alla fine dell’Ottocento, e sono state sperimentate in Italia solo in tempi recenti. In questo momento vanno di moda e la disinvoltura con cui se ne parla lascia stupefatti. Questo tipo di elezioni infatti dovrebbero partorire un candidato, anzi il candidato forte che, se eletto, dovrebbe governare senza doversi guardare le spalle dai suoi. Esattamente ciò che non accade in Italia.

In fondo a sinistra

A Palermo il centrosinistra ha fatto un casino e le primarie sono saltate. E’ poco elegante dire che nel mio piccolo l’avevo previsto, lo so. Però siccome qui non stiamo a pettinare le bambole e sono parecchio arrabbiato per come è finita la vicenda, me ne frego e linko questo post che già quasi due mesi fa annunciava il disastro politico.

Lo gioia dopo la tempesta

Dopo la delusione della notte romana, ma con la gioia del risveglio milanese, mi prendo qualche giorno di riposo al di là delle Alpi.
Comportatevi bene.

Disintossicazione

berlusconi varioC’è uno strano fenomeno che si è sviluppato in Italia. E può essere sintetizzato in una frase che ho letto e sentito spesso in questi giorni: odio difendere ciò che non mi piace.
Le emergenze vere o presunte ci spingono a prese di posizione che si riferiscono più alle persone (o ai personaggi) che ai fatti (o ai misfatti).  Il risultato è che spesso sposiamo tesi che magari non ci convincono per mantenere una coerenza politica, massimalista nelle intenzioni, inutile nella pratica.
Il catalizzatore di questa reazione contraddittoria, manco a dirlo, è il re delle contraddizioni: Silvio Berlusconi. C’è un popolo che pur di combatterlo come un nemico è disposto a rinunciare al gusto, all’amor proprio, all’anima. Io, per certi versi, ne faccio parte. Così quando c’è da giudicare un suo atto o una sua dichiarazione, il terrore di dargli ragione – una volta ogni mille anni – toglie lucidità al nostro ragionamento. Non faccio esempi, se volete fatene voi. Però mi permetto di avvertire che il rischio della reazione innescata dal signor B è che noi tutti (quelli che stiamo da una parte) ci si ritrovi per l’eternità (cioè la durata del suo mandato) in una coalizione forzata, tipo ultimo governo Prodi, dove le diversità sono costrette a fingersi identità.
Invece ognuno deve difendere ciò in cui crede, ciò che gli aggrada, ciò che lo convince. Liberarsi dalla schiavitù dell’antiberlusconismo è un vero processo disintossicazione. E per di più senza neanche l’illusione di un metadone politico.

Una sinistra poco elegante

roger-vivier-shoesde La contessa

“Se sei nato senz’ali,
non fare nulla
per impedire loro di crescere”
Coco Chanel

Ho riletto i commenti al post di ieri e ne ho tratto alcune indicazioni che, tradendo il patto di discrezione che mi lega alla vita ancor prima che a questa comunità di stimati commentatori, vi propongo in punta di piedi (immaginate lo sforzo calzando un tacco 12!).
Da un lato ci siamo noi, reduci di una sinistra acefala e démodé, un po’ piagnoni, un po’ idealisti.
Dall’altro ci sono loro, quelli del centrodestra governativo, pragmaticamente operativi e (anche eccessivamente) sorridenti.
Noi, al netto dei risultati, siamo vecchi e noiosi.
Loro, al netto dei favoritismi, sono fattivi e svegli.
Noi prendiamo di mira il loro capo, monsieur B, e perdiamo di vista le loro truppe.
Loro non si curano del nostro capo perché sono le nostre stesse truppe che l’hanno messo fuori gioco.
Credo che, fermo restando il diritto alla lamentela, dobbiamo finirla di flagellarci con fruste altrui. Servono insomma una svolta pragmatica di protesta e un po’ più d’eleganza (che non fa mai male).
Ad esempio, anziché continuare a criticare il monopolio berlusconiano sui media, perché non provare ad alimentare il sistema dell’informazione alternativa? Soltanto nella mia adorata città, Palermo, mi dicono che cinque blog ben scelti hanno un bacino di utenti simile a quello di un piccolo quotidiano.
Le ronde sono una vergogna tout court. Bene, proviamo a rendere disoccupati i cittadini che si sostituiranno alle forze dell’ordine in virtù di un brutto decreto. Come? Denunciando noi per primi ogni spunto di reato; non voltandoci dall’altra parte quando vediamo qualcuno che fa qualcosa di profondamente sbagliato.
E ancora. Impariamo a scegliere i prodotti che ci servono, con coscienza politica: dagli scaffali del supermercato (coi quali, lo ammetto, ho sporadica frequentazione) ai tasti del telecomando. Non si può criticare il prodotto delle televisioni di monsieur B se si guarda, magari di nascosto, il Grande Fratello.
Quest’Italia, nella pacchiana era di bandane che coprono capelli e non teste, deve riassoldare i cittadini dimissionari. Servono menti critiche, persone sveglie, voti contrari.
Voti, sì. Perché, non dimentichiamolo, sono le elezioni il vero campo di battaglia in cui si confrontano le opposte fazioni di uno stato democratico.
Sempre con classe, parbleu!

Le bombe e i bambini

Illustrazione di Gianni Allegra

I tempi cambiano. E ultimamente sembra che cambino più in fretta. Tralascio le mode (di cui non capisco niente), l’economia (di cui capisco, se possibile, ancora meno) e le tendenze (nelle quali c’è poco da capire).
Politica.
Frequento molti blog: ritengo che, proprio per effetto dei tempi che cambiano, siano il vero termometro di quello che una volta si chiamava sentire comune. Trovo che quelli di sinistra siano più interessanti degli altri. E non per fede politica, quanto per volume di stimoli, contraddizioni, cortocircuiti.
C’è però qualcosa di irritante (per me, ovviamente) nei contenuti, una specie di virus subdolo che scatena tutto il suo potenziale di disturbo a distanza di tempo. Per descriverlo mi ci vorrebbero centinaia di righe, però ci ho pensato e ho trovato una parola, una parola sola, per risparmiarvi una tediosa lettura: disfattismo.
L’accettazione di una sconfitta senza lottare e la conseguente acquisizione di un dato di fatto senza schermarlo dai partiti presi è una malattia endemica della sinistra italiana.
Ecco un esempio che mi pare illuminante.
Nel sanguinoso conflitto tra israeliani e palestinesi c’è una visione univoca della vicenda, politicamente e assurdamente empatica: i buoni sono i palestinesi, i cattivi sono gli altri. Per assioma.
Ora, io non ho alcuna propensione per l’arrogante potenza militare israeliana. Ancora meno per il governo di quel Paese. Però cerco di adoperare una certa prudenza nel giudicare ciò che accade in quelle lande.
La tesi populistica, secondo la quale per giudicare il fallimento di una strategia si allineano i morti dell’ultimo bombardamento, non mi incanta: i morti si contano (e si pesano) sempre, non solo quando stanno da una parte della barricata. Perché gli errori di valutazione sono come le emorroidi: vengono fuori, dolorosamente, quando meno uno se li aspetta. La sinistra italiana, nella sua base più diffusa, ha deciso che i kamikaze, le nefandezze di Hamas e  il fanatismo di una ristretta parte dell’Islam sono quisquilie. O peggio, sono semplici adattamenti storico-sociali a un dato di fatto (la prepotenza israeliana). I palestinesi sono perdenti quindi, nella moderna logica disfattista di cui sopra, bisogna accettare la loro sconfitta celebrandola senza indugi, col massimo dell’estremismo. E’ il trionfo negativo del partito preso.
Non c’è un solo dubbio, non c’è mai un riferimento all’impotenza colpevole della sinistra europea, non c’è ombra di un concetto lontanamente affine alla solidarietà, non c’è richiamo a quel valore senza muri e volti che si chiama tolleranza: tutti baluardi del progressismo illuminato. C’è solo l’ultimo orribile missile, che fa strage di bambini in una scuola di Gaza.
Ecco, la sinistra di altri tempi si sarebbe mobilitata per i bambini, gli scuolabus, gli asili, le case, gli ospedali, gli orfanotrofi. Il Veltroni di un decennio fa sarebbe andato subito in Medio Oriente e non altrove. I radicali risalenti all’epoca geologica precedente alle minchiate di Capezzone e al rincoglionimento di Pannella si sarebbero affamati sulle pietraie della Galilea. Qualche pacifista, magari papà di quelli di oggi, che si distinguono per lingua lunga e bandiera facile (o viceversa), avrebbe scalzato gli scudi umani senza pensarci due volte.
Nessuno però avrebbe deciso che ci sono bombe più sbagliate delle altre.

Del Turco e la vendetta politica

Ho letto l’intervista del Corriere a Ottaviano Del Turco che non esclude di tornare in politica, dopo l’arresto per tangenti, ma nelle fila del partito a lui (finora) ufficialmente avverso, cioé il Pdl.
Il centrodestra, nel corso degli anni, ha riempito la cambusa di reduci, sopravvissuti, scontenti e qualunquisti. Però questa di Del Turco è una sortita che merita una breve riflessione.
Prima ipotesi. Depresso per il senso di abbandono, l’ex governatore dell’Abruzzo ha deciso di vendicarsi del silenzio dei compagni seguito al suo arresto. La sinistra non è abile a far quadrato quando il cerchio non quadra e preferisce le lame affilate di Di Pietro al garantismo che fa parte di una storia ormai mesozoica.
Seconda ipotesi. Esaltato da una politica liberista soprattutto in questioni di giustizia, una giustizia che si vorrebbe abolire in toto al pari di una leggiucola decrepita ereditata dallo Statuto Albertino, l’ex governatore dell’Abruzzo ha scelto la via più breve per seppellire le sue pendenze penali. Un cambio di casacca è più che conveniente quando si intravede il sole a scacchi, e in Italia c’è un partito che promette più abbronzature integrali per tutti (anche d’esportazione).
Ora, io non ho le capacità per giudicare quanto valgano le intenzioni politiche di Del Turco, però credo che valgano una riflessione. Anche fuori dai confini abruzzesi.