La mia banda suona il rock. All’Ucciardone

Gery e la sua Fender StratocasterEntrai nel carcere dell’Ucciardone molti anni fa. Era il 1981. Avevo scritto una rock opera con la mia band. Faccio subito i nomi della formazione per una forma di giustizia musicale che va oltre la contabilità delle presenze (eravamo un gruppo a media variabilità di organico): io suonavo la chitarra e cantavo, al basso c’era Giovanni Caminita ma c’era stato anche Maurizio Orlando (che suonava anche la chitarra), alla batteria c’era Marcello Sacco ma c’era stato anche Fabio Aguglia, alle tastiere c’era Walter Catania ma c’era stato anche Giovanni.
Dunque avevo quest’opera rock – con una decina di anni di ritardo sui Who e sull’idea del concept album di The lamb lies down on Broadway dei Genesis – e insana voglia di suonare. Avevamo inciso un disco, un 45 giri di cui vi ho già parlato e sul quale per la serietà che i miei 53 anni mi impongono non vorrei ritornare. Nel bailamme della promozione di un prodotto che spacciavamo per musica d’importazione (cantavamo in inglese) ci capitò di essere chiamati da un’assistente sociale che faceva la volontaria al carcere palermitano: venite a suonare all’Ucciardone?
Accettammo alla cieca senza farci troppe domande, soprattutto senza farcene una: che minchia andiamo a promuovere in un carcere?
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Poco innocenti evasioni

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L’articolo di oggi su la Repubblica.

Sarà che le coincidenze sono le cicatrici del destino. Sarà che coincidenze e destino sono spesso una scusa per non leggere la realtà nella sua crudezza. Sarà probabilmente per tutto questo che la storia dell’evasione dell’assassino albanese Valentin Frrokaj dal carcere dei Pagliarelli di Palermo dovrebbe procurare indignazione collettiva e invece, come una barzelletta sussurrata durante un funerale, può suscitare una risata malcelata di cui vergognarsi.
Perché un ergastolano che fugge è un caso. Un ergastolano che fugge di nuovo è un casino. Ma non basta: nella nostra oziosa lettura dei fatti, abituati come siamo a guardare lontano e a diffidare di ciò che è immediato, ci siamo dimenticati di mettere a fuoco quel che sta sotto i nostri occhi. E cioè una fuga in pieno giorno, da un carcere nuovo, con uno dei due agenti di custodia che se ne va al cesso, e tre ostacoli (un muro di tre metri e mezzo, un cancello, un muro di cinta di oltre sette metri) che questo Valentin ha saltato a mani nude con l’aiuto di una fune di lenzuoli.
Da ex freeclimber sarei tentato di rimanere stupito per l’atto ginnico dell’evaso, ma la ragione mi impone di concentrarmi sull’atto fisiologico del secondino. Perché al netto di tutte le analisi e dei tecnicismi investigativi, la realtà ci dice che nell’anno 2014, al Pagliarelli, una pipì mette in crisi un intero sistema di sicurezza. I sindacati (naturalmente) tuonano “siamo troppo pochi”, chiamano in causa il ministro, il Dap e “le politiche sbagliate degli ultimi anni”. Inutile sperare che ci scappi una lettura smaliziata delle conseguenze di quel destino fatto di lenzuola arrotolate. Il cesso è probabilmente l’alibi perfetto.

La Cancellieri nel paese delle meraviglie

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Dice la Cancellieri che contro di lei c’è un attacco politico. Cioè pretestuoso. Perché secondo lei è pretestuoso ritenere sospetto un interessamento diretto del ministro di Grazia e Giustizia per una- detenuta-una, figlia potente di un imprenditore potente amico e foraggiatore di potenti.
Quando Berlusconi tentò di far passare per atti umanitari certi suoi favori e certi suoi interessamenti nei confronti di giovincelle scollacciate, tutti a sinistra gli risero dietro, salvo poi trincerarsi nella debolezza di non riuscire a scalfire il suo potere trasversale. Oggi che una Cancellieri viene scoperta con le mani nella marmellata, una marmellata preziosa più della famosa confettura Arrigoni che si comprava a scatola chiusa (come se le altre te le avessero fatte aprire alla cassa del supermercato prima di pagare), il “soccorso rosso” è addirittura surclassato dalla Croce Azzurra del Pdl che difende a spada tratta il ministro imp(r)udente. Il che la dice lunga sulla buona fede di chi spaccia la merce taroccata per manufatto originale.
In nessun paese del mondo un ministro che si interessa personalmente delle sorti di un singolo, solo perché quel singolo è espressione di un clan, di un gruppo imprenditoriale importantissimo, la fa franca. Viene cacciato a calci nel sedere. La frottola dell’aiuto umanitario varrebbe solo per un poveraccio, per un debole figlio di nessuno e sarebbe comunque difficile da giustificare: quando un ministro scende in campo per il singolo, deve avere spalle coperte e attributi ben piantati.
Ora la Cancellieri resiste, e con lei resiste questa logica furbetta del “tranquillo, ci penso io”, dell’amicizia dalla valuta importante, del “comandare è meglio che fottere”.
Sarà un giorno felice quello in cui i furbetti saranno assediati nel loro quartierino, in cui l’amicizia non peserà sugli atti pubblici e in cui il fottere strapperà il primato al comandare.

Cuffaro e il paradosso dello strabismo sociale

salvatore cuffaro

Un estratto dall’articolo di oggi su la Repubblica.

La richiesta di affidamento ai servizi sociali da parte di Salvatore Cuffaro è un’occasione importante per portare alla luce un paradosso che potremmo definire di strabismo sociale: molti di quelli che hanno detestato l’ex governatore come politico, lo hanno stimato come detenuto. E ciò perché l’ex governatore si è comportato bene in carcere e perché non ha mai offeso i giudici che lo avevano stangato con una condanna di sette anni per favoreggiamento aggravato a Cosa Nostra e rivelazione di segreto istruttorio. Il “senso dello Stato” attribuito al Cuffaro galeotto è insomma il frutto della sua semplice accettazione della pena, deriva dal suo inchinarsi davanti alla legge degli uomini e ha provocato, nel tempo, un imbarazzante ricorso al surrogato della santificazione in vita che ha più a che fare con l’ipocrisia che col sentimento della pietà. Continua a leggere Cuffaro e il paradosso dello strabismo sociale

Mi dispiace, non siamo tutti Sallusti

Il tam tam internettiano in difesa di Alessandro Sallusti ha toccato picchi di ipocrisia e superficialità da Guinnes dei primati. Ieri ho letto migliaia di messaggi deliranti sulla vicenda del direttore del Giornale che, lo dico apertamente, non merita di finire in carcere vivendo in un paese in cui in carcere non ci stanno più neanche i corruttori e gli assassini.
Su Twitter impazzava l’hashtag #siamotuttisallusti, e bastava scorrere i commenti per avere la prova dell’effetto deleterio delle catene di Sant’Antonio: quando si diffondono parole senza senso, la ragione vaga come una barca senza timone.
La panzana più grottesca (e purtroppo più frequente) ieri era basata sull’equivalenza tra il caso Sallusti e la libertà di stampa. Caso da manuale in cui si confonde il mestolo con la minestra: operazione che non solo è da stupidi, ma che fa anche male alla salute (provate a ingoiare un mestolo e vedrete quanto ve ne frega poi della minestra).
Il problema del direttore del Giornale è quello di aver violato la legge, legge che può piacere o meno ma questo è un altro discorso. La libertà di stampa non c’entra un tubo perché il giornalista non può mai avere garanzia di impunità per ciò che scrive, per di più sbagliando. La libertà di stampa insomma non è uno scudo contro l’irresponsabilità, ma una necessità dello stato democratico, cioé qualcosa di sideralmente distante dal privilegio di casta.
Sallusti non merita il carcere per la sopra citata questione di congruità (prima in cella ci vadano e ci restino i delinquenti, poi – ma proprio poi – si penserà ai diffamatori), ma evitiamo di fare le fiaccolate per uno che con la buona informazione, quella non asservita alle esigenze del padrone, quella che non insegue gli asini che volano, non c’entra niente.
Il caso Boffo non vi dice niente?

Mafia 2.0

Il presunto boss Nino Mandalà, nel suo blog, chiede l’abolizione del 41 bis e si appella alla buonanima del cardinale Martini. Che magari si rivolta nella tomba, a differenza di quei cadaveri che si rivoltano nei piloni di cemento armato.

Con quella faccia un po’ così

alberto stasiPoche parole

di Raffaella Catalano

Alberto Stasi è stato assolto per il delitto di Garlasco. Secondo il gup Stefano Vitelli, non ha ucciso la sua fidanzata Chiara Poggi. E’ la seconda volta che un giudice respinge le istanze della Procura. La prima era stato un no alla custodia cautelare (Stasi, fermato quaranta giorni dopo il delitto, rimase in carcere solo per tre giorni), indizio del fatto che gli elementi a carico del bocconiano erano molto deboli. La sentenza di oggi lo conferma, mandando all’aria la ricostruzione del pm Rosa Muscio e la sua richiesta di condanna a trent’anni. Quando non c’è certezza, nel dubbio è bene che le cose vadano così. Soprattutto se l’imputato è un ragazzo di ventisei anni. Sarebbe stato facile condannarlo, come ha fatto una parte dell’opinione pubblica, solo per le foto scabrose che aveva nel pc (quelle pedopornografiche, pare, scaricate per caso), per la sua imperturbabilità che a molti è apparsa fastidiosa e per la sua faccia un po’ così: antipatica, fredda, inespressiva. Insomma, da colpevole ideale.
Il “mostro” perfetto per i salotti tv di questi tempi.

Il monologo di Rizzo al carcere di Enna

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Per la prima volta il delicato tema dell’omosessualità verrà rappresentato davanti ad un pubblico di detenuti: ad ospitare lo spettacolo, domani, sarà il carcere di Enna.
“Le mille bolle blu”, il monologo scritto dal giornalista Salvatore Rizzo, interpretato e diretto da Filippo Luna, racconta la vera storia di Nardino ed Emanuele, un amore profondo e struggente vissuto per trent’anni nella clandestinità.
Chi ha avuto modo di assistere allo spettacolo ne ha parlato bene anche qui: io spero di vederlo presto.