Falcone, Borsellino e i soloni dell’anti-antimafia

Un estratto dall’articolo di oggi su la Repubblica.

Rita e Salvatore Borsellino chiedono che gli avvoltoi della politica restino lontani dalle commemorazioni per la strage di via D’Amelio. In fondo chiedono qualcosa che non dovrebbe essere pesato come qualcosa di speciale. Notizia sarebbe il contrario: venite a noi, onorevoli farabutti, strumentalizzate pure i brandelli di memoria dei nostri cari. E invece fanno rumore perché in un certo sentire comune si realizza finalmente il sogno di una divisione nell’antimafia più sacra, quella dei parenti delle vittime. Continua a leggere Falcone, Borsellino e i soloni dell’anti-antimafia

Ma va

Qualcuno si meraviglia perché il figlio del boss Provenzano parla come il figlio del boss Provenzano. Ne scrivo qua.

Alito cattivo

Ho ascoltato le intercettazioni dell’ultimo blitz antimafia di Palermo e, come immagino sia accaduto a molti di voi, sono rimasto colpito dalla distanza logico-temporale tra quei boss e il mio/nostro mondo. Nell’era della comunicazione globale, del progresso fermo all’ultimo passo prima del teletrasporto, della condivisione esasperata, c’è una fetta di popolazione (per fortuna piccola) che si esprime con lo stesso linguaggio di cent’anni fa, che vuol pesare sulla bilancia l’onore sbilenco della violenza e che pretende di seminare nel terreno del sottosviluppo. Continua a leggere Alito cattivo

Il giornale che odia gli scoop

Non è un segreto e nemmeno un’infamità il fatto che al Giornale di Sicilia di Palermo non piacciano gli scoop.
Dal lontano settembre 1985, quando un giornalista fu licenziato per aver scritto su un altro giornale quel che il Gds non aveva voluto pubblicare, qualcosa è però cambiato.
Allora era accaduto che Francesco La Licata aveva pubblicato su L’Espresso i verbali di alcuni pentiti di mafia, dopo che i vertici di via Lincoln non si erano dichiarati interessati all’argomento.
C’era stato un gran casino: sciopero, mobilitazione della stampa nazionale, riassunzione del giornalista.
La Licata, dopo un paio d’anni di caienna (costretto a passare le pagine di Enna), era riuscito a fuggire: oggi è editorialista per La Stampa.
Nel corso del tempo, il Gds, ha cambiato strategia. E anche i giornalisti sono cambiati, nel senso fisico: al giornale c’è stato un enorme ricambio professionale. Via i vecchi, prepensionati. Via i giovani troppo ambiziosi, costretti a calare le corna. Via i non allineati.
Tralasciando decine di episodi degli anni Novanta, alcuni anche grottescamente divertenti, arriviamo alla fine del 2007, quando un cronista ha quella che si definisce “una signora notizia”.
Il pentimento di un boss.
Il giornalista in questione viene sottoposto al terzo grado. Ma non dalle forze dell’ordine, ché l’articolo ancora non lo ha scritto (anche se ci fu un caso in cui fummo tutti deportati in procura per un pezzo mai scritto), ma dalla direzione del Gds. Risultato: non se ne fa niente. Il cronista non convince i suoi capi.
Ovviamente l’indomani la Repubblica ha la notizia, il Giornale di Sicilia no.
E siamo a oggi.
Leggo su La Stampa uno scoop di Riccardo Arena: “Trovato un assegno di Silvio Berlusconi destinato a Vito Ciancimino”.
Salto sulla sedia e non solo per la notizia.
Riccardo Arena è il cronista giudiziario del Giornale di Sicilia. Eppure sulla prima pagina del Gds (a differenza de La Stampa che ha un richiamo) non vedo niente.
Poi per fortuna cercando all’interno trovo un pezzullo.
Sì, la situazione al Gds è nettamente migliorata: gli scoop restano ancora materia ostica, però almeno i giornalisti non vengono più strapazzati in ossequio alla vecchia regola che ancora qualcuno tra i sopravvissuti di via Lincoln ricorda: curnutu cu porta ‘na notizia.

Ciancimino, Alfano e la Palermo che non vuol vedere


Quanto dista il tutto dal suo contrario? C’è un sistema di sicurezza che ci garantisce, anche a futura memoria, dalle frequentazioni sbagliate?
Queste domande possono sembrare criptiche e soprattutto slegate l’una dall’altra. In realtà così non è, almeno per il caso che andiamo a esaminare.

Massimo Ciancimino sta fornendo ai giudici la sua versione sui rapporti tra il padre, ex sindaco di Palermo condannato per mafia, e pezzi dello Stato. Sta riportando frasi e documenti del genitore che proverebbero rapporti (di dipendenza? di causalità? di connivenza?) tra i vertici di Cosa Nostra e quelli di Forza Italia.
Il ministro della Giustizia Angelino Alfano bolla come scempiaggini le parole di Ciancimino e sciorina tutti i provvedimenti del governo, presente e passato, contro i boss. Insomma offre l’assist al premier che descrive il figlio dell’ex sindaco mafioso come un “ciarlatano”.
Questa è la spremuta della cronaca. Un concentrato estremo di quello che tutti dicono, scrivono, leggono.
Ma c’è dell’altro su cui sarebbe bene riflettere.
Massimo Ciancimino e Angelino Alfano sono, o sono stati, distanti fisicamente meno di quanto si possa pensare e sono la dimostrazione di come il tutto e il suo contrario possano sfiorarsi. Di come le frequentazioni, pur rimanendo nella sfera delle responsabilità personali, non hanno un certificato di garanzia universalmente valido.
Sono entrambi addendi della borghesia siciliana, anzi palermitana (pur essendo Alfano agrigentino), con qualche amico in comune. I due hanno frequentato gli stessi ambienti e condiviso i salotti di concittadini illustri (magari senza incrociarsi). Ciò non prova nulla, né costituisce appiglio per nessuna speculazione giudiziaria. Anche perché le persone che si frappongono tra l’uno e l’altro sono, per usare un termine trito ma comprensibile a tutti, perbene. Gente onesta, comunque.
Ve la porgo in positivo, per essere chiaro. Ciancimino e Alfano pur battendosi da opposte barricate, incarnano unitariamente un principio calpestato negli anni della emergenza mafiosa: quello secondo il quale non può esistere il reato di conoscenza; quello per cui i ruoli del divenire non combaciano matematicamente con i flash del passato.
Conosco Massimo Ciancimino – siamo stati compagni di classe molti anni fa – conosco anche i suoi fratelli e sua sorella e, pur restando fermo nelle mie posizioni antimafia, sono interessato senza pregiudizi alle sue deposizioni. Anche se mi sono fatto un’idea.
Non conosco Angelino Alfano – è più giovane di me – conosco i suoi atti, la politica dello schieramento di cui fa parte e, pur tra mille perplessità, sono ansioso (con qualche preoccupazione) di vedere dove porterà la sua azione di governo. Anche se mi sono fatto un’idea.
Conosco i palermitani, conosco una certa superficialità nel rinnegare frettolosamente passi di cui magari c’è da spiegare qualcosa, e una certa facilità nel condannare chi ammette di poter spiegare senza esitazioni.  L’allergia al giunco che si rialza, che sia Ciancimino o un imprenditore probo, nella città che sbuffava per le sirene di Falcone e che vota a destra quasi di nascosto è un dramma antico. Qui il migliore giudizio è purtroppo sommario perché il tempo per quello ponderato è intollerabilmente lungo: le voci corrono, le dicerie si inseguono e per i fatti c’è troppo da aspettare.
Ciancimino e Alfano potrebbero essere un paradigma di nemici vicini, navi nella stessa bottiglia, come nella vita può accadere. Invece nessuno ci pensa o si sogna di raccontarli così.
Molto più comodo collocarli lontani: l’uno nella Palermo dei veleni, magari somministrati da pm stregoni; l’altro nella Roma gagliarda, periferia di Arcore, capitale di Berluscolandia.
Una finta distanza. Un’occasione sprecata per misurare con precisione quanti passi ci sono tra il tutto e il suo contrario

I disagi del boss

Poche parole

di Raffaella Catalano

L’unica frase che il boss Domenico Raccuglia ha detto ai magistrati della Procura di Palermo dopo il suo arresto ha dell’incredibile.
“Avete visto in che condizioni vivevo?”. Questo ha detto.
Che voleva? Compassione? Oppure sperava che i poliziotti, dopo averlo arrestato, lo trasferissero in un grand hotel per dargli modo di riprendersi dai disagi del covo?