Beh, si muore

Da Ballota a Luarca.

Talvolta capita di imbattersi in foto attaccate a un albero, o in mazzi di fiori depositati all’angolo di un sentiero. Sono le “vittime del Cammino”, quelle che giornalisticamente sono parte della cosiddetta “Spoon River” di Santiago. Si stima che negli ultimi trent’anni i morti siano stati intorno ai duecento. Nel 2017 due testate giornalistiche, La Voz De Galicia e FrancigenaNews, hanno fatto un po’ di statistiche e hanno constatato che si muore prevalentemente di infarto, ictus e, in questo periodo, di disastri causati dai colpi di calore (immagino l’ebollizione di pensieri di mio padre a tal proposito, ma questa è un’altra storia). Poi ci sono gli investimenti su strada, gli annegamenti e, pochissimi, gli omicidi. Famoso il caso di un maniaco omicida che modificava le indicazioni del Cammino a mo’ di trappola: lo arrestarono quattro anni fa ed è tragicamente una storia da film. Circa duecento morti quindi, in trent’anni. Il dato può impressionare se buttato lì, senza altri parametri.
E allora mettiamoli in campo, ‘sti altri numeri. 

Nel 2018, l’ufficio del Pellegrinaggio di Santiago di Compostela, secondo le stime ufficiali, ha accolto 327.378 pellegrini, la maggior parte sono donne: il 93,49 % sono arrivati a piedi, il 6,35 % in bicicletta, lo 0,10 a cavallo (il Galoppo di Compostela?), e lo 0,2 in carrozzina. Parliamo di pellegrini, cioè di persone che si registrano: da questi numeri è quindi esclusa quella parte di camminatori che, come me, marciano invisibilmente anarchici.

Quindi a fronte di una folla che si cimenta in un’impresa – parlo del Cammino del Nord o anche del Cammino Francese – qualcuno muore. È un mio problema, lo so, ma quello del rapporto con la morte è un tema per il quale non mi sento allineato col sentire comune (e non è un motivo di orgoglio). Secondo i miei parametri del dolore, la morte durante una missione, durante una gara, durante un’esperienza che ci vede concentrati è altra cosa rispetto al game over per il vaso che cade sulla testa dal terzo piano, al boccone che ci va di traverso (“assassinato dal pane e panelle”). È una morte contestualizzata, è l’addio al palcoscenico con l’orchestra che suona e non l’inghiottimento nel gorgo di un cesso del quale non abbiamo manco tirato noi la catenella. Mi è capitato più volte di polemizzare qui e altrove contro chi invocava, ad esempio, la sospensione di una maratona dopo la morte di un concorrente. Una bestemmia innanzitutto per la vittima che quella maratona voleva chiuderla col tempo migliore e che si sarebbe rivoltata nella tomba nell’apprendere di aver bruciato la gara a migliaia di persone che, come lei, si erano rotte il culo per un anno prima di cimentarsi in quella prova estrema. 

A tutto questo pensavo stamattina mentre, dopo Cadavedo, in cima a una salita mozzafiato ho trovato una foto attaccata a una ringhiera: “In loving memory of Kyriacos Zindilis”. Ero talmente stanco che ho fatto una foto indecente (concedersi la debolezza di essere palesemente deboli è una forza che sto sperimentando nel Cammino), ma l’ho fatta più per ricordarmi di non dimenticare che per altro.

Per i restanti chilometri roventi – oggi c’era un caldo tragicamente palermitano – mi è rimasto impresso il volto di quell’uomo sorridente. E mi sono immaginato i suoi ultimi frame. L’entusiasmo della partenza alla mattina, le chiacchiere, la stanchezza che arriva, il sudore tra la maglietta e lo zaino, la prova da superare, la felicità per la cima raggiunta, un doloretto ma chissà, il cielo, il sole in faccia come al mare, come in vacanza. E all’improvviso la concitazione attorno, degli altri che si chiedono cosa accade e lui che si compiace anzichè preoccuparsi: ve l’avevo detto che ce la facevo, è bellissimo, anche questo sole… poi non fa così caldo, tranquilli che ora si riparte, si ricomincia.

E lui tranquillo che ricomincia. Altrove, senza fatica.

(21 – continua)          

Le altre puntate le trovate qui.

A questo argomento è dedicato il podcast in due puntate “Cammino, un pretesto di felicità” che trovate qui.

        

Spuntò un bastone

Da El Pito a Ballota.

La notizia è un bastone. Che oggi ho raccattato e portato con me tutta la giornata e che, al momento, è nella mia stanza a riposare. Però il contesto della notizia è un incastro di tre riferimenti.

Il primo è che a me non piace camminare con le mani impegnate (rif.A).
Il secondo è che nel Cammino del Nord c’è il problema dei cani liberi, non sempre innocui (rif.B).
Il terzo è che, come alcuni di voi sanno, io soffro di Doc cioè di Disturbo ossessivo compulsivo (rif.C).

Stamattina, al ventitreesimo giorno di cammino, ho visto questo ramo spezzato, dritto e forte. Il rif.A mi suggeriva di lasciarlo lì: che poi inciampi (a me il bastone non aiuta nel camminare, come qualunque cosa che uno si porta appresso controvoglia), ti fai male e ci fai una figura di merda a spiegare che ti sei rotto perché non sai fare due cose contemporaneamente, camminare e scandire i passi col bastone. Ma era il rif.C a dare i maggiori problemi. Il mio Doc che si alimenta di rituali – dai colori all’igiene, dalle geometrie al cibo – è refrattario a certi cambiamenti.

Ve la faccio breve perché l’argomento è tanto serio quanto sterminato: la mia mente è in alcuni casi infastidita da ciò che è dispari, o meglio da ciò che non è simmetrico. Esempi: se in moto guardo lo specchietto di sinistra, automaticamente mi viene da guardare quello di destra; se faccio una rampa di scale che battezzano il piede destro per il primo passo, devo necessariamente pareggiare il conto fermandomi e riavviandomi con il piede sinistro.

Ecco, il bastone è dispari. E io lo passo ogni tot di tempo da una mano all’altra perché altrimenti i miei pensieri ne risentono. Tanto sono solo e nessuno si accorge di questa follia della quale voi ridete e io no.

Promettendo che un giorno vi racconterò alcuni risvolti esilaranti di questo problema che esilarante proprio non è, vi riporto alla scena iniziale, quella in cui ho visto il ramo.

Ho pensato: è ottimo per il rif.B. I cani liberi, nella mia esperienza nel Cammino, sono un problema. O meglio lo sono i loro padroni, che ritengono che il mondo venga dopo le esigenze del loro animale. Una settimana fa in Cantabria mi sono trovato davanti una coppia di ragazzi terrorizzata, lungo un sentiero, perché un cane bello grosso gli abbaiava contro accorciando la distanza. Il suo padrone rideva e fumava in mutande (eravamo nei pressi di un camping), e non faceva nulla per richiamare il cane. Mi sono avvicinato e gli ho detto di riprendersi l’animale perché quei giovani si stavano squagliando tra le felci. Lui, sempre fumando, ha borbottato qualcosa tipo: ma qui siamo in uno spazio aperto. Appunto, ho risposto io. E ho raccattato da terra un bastone di legno. Tutto ciò mentre il cane era ormai a pochi metri dai due poveri ragazzi ai quali si stava fermando il respiro in gola.

Ho alzato il bastone e a un certo punto ho capito che non dovevo dirigermi contro il cane, ma contro il padrone. Della serie: ok viva gli animali, ok i cani sono migliori dell’uomo, ok altre menate da video social virali, ma io oggi con te me la sbrigo. Ebbene la questione si è risolta improvvisamente con un fischio al cane e un guinzaglio che il tipo teneva, tipo riempitivo, nelle mutande.
Insomma ecco perché adesso quel bastone riposa nella mia stanza in hotel.

Perché il cammino è lungo e l’egoismo di certi uomini ha bisogno di argomenti solidi.

(20 – continua)

Le altre puntate le trovate qui.

A questo argomento è dedicato il podcast in due puntate “Cammino, un pretesto di felicità” che trovate qui.