Falliti e contenti

C’è una pericolosa deriva, incrementata dalla cretinaggine liquida dei social, che tende a dare le colpe di un fallimento, un qualsiasi fallimento, al cosiddetto sistema. Una azienda licenzia, una squadra fallisce, un teatro chiude, un negozio abbassa le saracinesche, un sodalizio si scassa: difficile trovare una responsabilità precisa nelle analisi degli addetti ai lavori, figuriamoci tra gli astanti.

C’è quasi sempre un politico da additare, anzi la politica in generale perché dopo il maggiordomo il colpevole ideale è il ministro, o il sindaco o l’assessore di turno. C’è quasi sempre questa odiosa diluizione della colpa, anche quando è chiaro che un inetto a guida di un ente pubblico o di una fabbrica sempre minchiate combinerà.

Nella mia vita la maggior parte dei fallimenti (economici, politici e sociali) in cui mi sono imbattuto erano da addebitare esclusivamente a chi dirigeva quelle realtà. Se un’attività commerciale chiude è perché, al netto di rarissime eccezioni, non ha saputo rinnovarsi, non ha letto tra le righe del mercato, ha peccato di presunzione o di pigrizia (non so quale sia la colpa maggiore).

Invocare l’intervento divino, cioè pubblico, per sanare umanissime responsabilità anche gravi è oltraggioso per chi ce l’ha fatta stringendo la cinghia, costringendosi a scelte da batticuore, senza chiedere un centesimo che non fosse dovuto al registratore di cassa.

Il perdonismo imprenditoriale è una piaga dolorosa soprattutto al Sud, dove il piagnisteo è il primo ammortizzatore sociale universalmente riconosciuto.

Dovremo trovare il coraggio di dircelo tra di noi, almeno a denti stretti, che se un’attività finisce in naufragio mentre quella accanto continua a navigare, il primo responsabile è chi sta al timone. Che è stato scarso e amen.

Uno legge un giornale e affonda una nazione

Non c’è solo l’Italia forgiata, rappresentata e stipendiata da Silvio Berlusconi a dare scandalo davanti agli occhi increduli del mondo. C’è anche quella millantata dal premier a lasciare attoniti innanzitutto i cittadini liberi, cioè quelli non foraggiati dal premier. Continua a leggere Uno legge un giornale e affonda una nazione

I furbetti della Telecom

staino_sulla_telecom_2Piccole soddisfazioni della vita. L’Antitrust ha multato Telecom per mercato scorretto. In pratica prometteva una velocità di collegamento internet, mediante Adsl, di sette mega che non avrebbe potuto raggiungere nemmeno col pensiero di tutti i dipendenti concentrati sul modem di casa mia. Sono stato un utente della suddetta azienda e a giorni alterni, per qualche mese, ho cercato di protestare per la qualità del servizio. Fin dall’inizio del proclama pubblicitario persino io, che ho una capacità divinatoria simile a quella degli scienziati dell’Istituto nazionale di geofisica, avevo manifestato qualche timida perplessità. Mi chiedevo: come fa un’azienda che non riesce a garantire una comunicazione elementare con i suoi abbonati (cioè uno chiama una centralinista, segnala un problema, lei dà una risposta e amen) a impegnarsi in un programma di comunicazione multipla, ultraveloce, istantanea?
La risposta sta in quel rigurgito di furberia che tanto prende dall’esperienza dei bari al tavolo verde: quando il gioco si fa pericoloso, meglio renderlo ancora più pericoloso perché l’eccitazione è parente stretta della confusione. E nella confusione si arraffa quel che si può.
Solo che prima o poi ti acchiappano e ti riempiono di schiaffoni, per fortuna. E anche se ti costringono a restituire un millesimo di  quello che hai fraudolentemente incamerato, la soddisfazione dei polli che hanno abboccato al tuo gioco è grande.
Quando si parla di signori della truffa persino una semplice tirata d’orecchi è una notizia, in questo Paese. Nell’attesa che arrivi una signora pedata nel sedere. Magari multipla, ultraveloce, con sette mega effettivi di potenza.

Professione precario

Illustrazione di Gianni Allegra
Illustrazione di Gianni Allegra

Sono tempi difficili. Migliaia di lavoratori, per colpe di chiunque tranne che proprie, hanno perso il lavoro. Il precariato è diventato il mestiere ufficiale. E nel segno di una crisi che tutto avvolge e molto nasconde, ci si piange addosso rimanendo immobili.
Ancora una volta – del resto questo è un blog, mica un servizio pubblico – devo citare un’esperienza personale.
L’altro giorno mi ha chiamato un’amica, direttore di un mensile che fa capo al più importante gruppo editoriale italiano. Lei mi ha esposto i suoi dubbi sul futuro dell’editoria. Abbiamo parlato dei nostri rispettivi progetti (i suoi molti più rilevanti dei miei), poi mi ha fatto una domanda: “Conosci persone che sappiano scrivere e che abbiano voglia di lavorare?”.
La sua domanda è stata la conferma a un convincimento che ho segretamente coltivato, in questi ultimi anni: una buona porzione di questa crisi di occupazione è figlia della mancanza di professionalità.
Il discorso vale ovviamente per i mestieri in cui la specializzazione ha un valore pari alla duttilità del lavoratore (che, per essere chiari, può decidere di mettere a disposizione la propria esperienza in cambio di un compenso riveduto al ribasso per evidenti fattori congiunturali).
Quasi un anno fa ho firmato la lettera di dimissioni da un’azienda per la quale ho lavorato ininterrottamente dal 1984. Non avevo un altro lavoro che mi attendeva, mi ero semplicemente rotto le scatole di un sistema che ritenevo scriteriato. Sono della linea di pensiero che tende a derubricare le scelte a semplici scommesse. Sono stato fortunato: oggi lavoro col massimo della libertà, guadagno il giusto (anche un po’ meno) e continuo a preoccuparmi per il futuro esattamente come facevo vent’anni fa.
Un parte, solo una parte, dei disoccupati di questo Paese sono figli (e purtroppo anche seguaci) dell’assistenzialismo che governo e opposizione tendono ad alimentare nel segno di un populismo che poco ha a che fare con la soluzione del problema. Gli aiuti una tantum, le elargizioni su larga scala che sulla porta di casa si traducono in spiccioli non portano a niente di utile.
Probabilmente già domani saremo costretti a cambiare ottica: lavori a progetto, massimo rendimento, sperando in una coltura intensiva dei talenti e nella responsabilizzazione al cento per cento. E’ una missione che riguarda ognuno di noi, senza colori politici né pregiudizi.
Non so quanto il nostro Paese sia pronto.