Rimodulare

C’è qualcosa che sin dalla mia infanzia mi sono fatto carico di coltivare. È qualcosa che ha a che fare con un senso atavico di irrequietudine che sta tra il pratico e l’evangelico, tra l’isolamento e il casinismo, tra l’altra guancia che attende e il pugno che si arma per reagire.
Non è stato facile puntare alla quadratura del cerchio e forse non ci si arriva mai. Perché parlo della capacità di rimodulare, di rimodularsi. Che è quasi un sentimento, qualcosa che vive e prolifera controcorrente, come certi pesci che per figliare devono scassarsi la minchia e risalire fiumi, lottare senza godimento, vincere senza trofeo.
Se non ti ci dedichi sin da piccolo, finisce che la rimodulazione la scopri quando è troppo tardi. Generalmente quando sei agli estremi: tipo quando hai stravinto e ti accorgi che stravincere può essere noioso, o quando hai macinato una tremenda sconfitta e non hai pensato a un piano B perché eri impegnato a piangerti addosso.

Imparare a rimodulare non è sempre un atto di saggezza. Io ad esempio ho pagato il mio esercizio in tal senso con una serie di errori dei quali non vado fiero neanche adesso che sono abbondantemente superati (esiste una prescrizione anche nelle cazzate). Mi ha molto aiutato la passione per la musica, per la lettura e ovviamente per la scrittura, ma questo è un dettaglio di vanteria quasi onanistica.
Ciò che davvero è stato determinante sin da ragazzo è stato il divertimento applicato allo sport. I miei sport sono sempre stati estremamente divertenti: lo sci, l’arrampicata e i cammini. La maratona no, era uno scacciapensieri pieno di tecnicismi, un modo legale di drogarsi insomma.

Pensavo a tutto ciò l’altro giorno quando sono stato raggiunto dalla tremenda notizia della morte di un mio amico – arrampicatore, torrentista e altro – e mi è toccato rispondere alla solita obiezione banale (e, diciamolo, anche fuori luogo) che il saputello di turno tira fuori quando c’è una vittima di sport potenzialmente rischiosi: ma cosa prova uno a mettersi in pericolo inutilmente?
Generalmente quando mi imbatto in obiezioni di questo tipo rischio di diventare aggressivo se non altro perché sono cinquant’anni che le sopporto e cinquant’anni che rispondo sempre alla stessa maniera. Quindi qui la prenderò diversamente.
Il segreto è tutto nella rimodulazione di cui dicevo, cioè la necessità umana di riorganizzare nuovi schemi, di inventarne di nuovi, di adattarsi e di costruire forme esclusive in cui rifugiarsi e trovare conforto.
L’alpinista non pretende di dominare il mondo, al contrario chiede di essere ammesso al suo cospetto pagando un dazio di rischio. Lo sciatore estremo non oltraggia il pendio, al contrario si adatta a esso accarezzandolo in cerca di un verso giusto (se esiste). Nessuno di loro pensa di mettersi in pericolo, al contrario cerca un riparo in quel mondo che gli altri guardano distrattamente e loro invece ammirano, esplorano, affrontano col rispetto dovuto alle entità superiori.

Perdonatemi una banalità: i momenti peggiori della mia vita, quelli in cui sono davvero stato in pericolo li ho vissuti sul ciglio di una strada, sul cemento di un marciapiede, sul letto di un ospedale da bambino. In montagna, sott’acqua, in un bosco sperduto con uno zaino, davanti a un fiume da guadare o a uno strapiombo da affrontare con gli sci mi sono sentito vivo e soddisfatto come al Teatro quando il mio lavoro è andato bene, o davanti a un foglio quando le parole si sono abbracciate come speravo. Perché l’esercizio della rimodulazione è la migliore ginnastica per l’immaginazione. E perché solo grazie alla fantasia, che della rimodulazione è figlia prediletta, riusciamo a godere di quel castello incantato che salva i nostri sogni, da quando siamo bambini a quando diventiamo vecchi.
Un castello che la realtà puntualmente demolisce.  

Questo post è dedicato a Fabio Valentino (con tanto di foto).    

Il boss che mi comanda

Ho sempre immaginato il mio corpo come una specie di azienda che produce non so cosa: probabilmente vita, la mia. Sono nato negli anni sessanta quindi si tratta di un sistema organizzativo e industriale non moderno. Tutto è governato da una centrale operativa che si trova nel mio cervello e che lavora agli ordini di un grande capo, un tizio oltre la sessantina, abbastanza sovrappeso, calvo, sempre in maniche di camicia (sudata). È lui è la chiave di tutto. Lo conosco bene e quel che so della sua vita privata è sempre de relato. Sulla scrivania, tra pratiche inevase e portacenere stracolmi di cicche, c’è una foto della sua signora che per quanto mi riguarda potrebbe essere tipo la moglie del Tenente Colombo: se ne parla sempre, la si vede mai. Si dice che il capo abbia anche un figlio, o addirittura due, ma il confine tra realtà e leggenda è labilissimo quando si parla di un uomo che lavora 24 ore al giorno, senza ferie e che tende a una prevalenza di aroma ascellare già alle prime ore del mattino. Insomma se un figlio c’è, potrebbe averlo fatto per delega (con rispetto per la signora Colombo).

Al lavoro il grande capo è inflessibile, grida spesso e dal suo ufficio tiene sotto controllo tramite un vecchio interfono tutti i reparti produttivi (e anche quelli improduttivi).

C’è il settore “Sport e avventura” che ha subito un ridimensionamento: gli addetti al running e all’arrampicata sono andati in prepensionamento, resistono solo un paio di lavoratori part-time che gestiscono il minimo ordinario senza grande impegno. Di tanto in tanto il capo chiede uno sforzo, ma l’ufficio è ormai in smobilitazione e i programmi sono quasi totalmente nelle mani del reparto “Determinazione, cause perse e affini”. Questo è un settore cruciale dell’azienda giacché è quello che in ordine gerarchico gestisce la programmazione della quasi totalità del lavoro. L’organico di sei persone è stato recentemente rinforzato dall’arrivo di una giovane specializzata in “Motivazione forzosa” che fissa nuovi obiettivi, spesso alzando un po’ troppo l’asticella e provocando le ire del capo: “Ma me lo vuoi ammazzare?”, ha urlato un giorno quando – ultracinquantenne – mi sono ritrovato a correre per 14 chilometri con 35 gradi all’ombra. Lei però tira avanti e confida nella sua arma segreta: una liaison clandestina col responsabile del settore “Autostima”. Costui è, diciamolo, un uomo poco attraente, un secchione che ha fatto il suo tempo nell’azienda senza mai imbastire una ambizione o sprecarsi più del dovuto. Sino a qualche tempo fa mi chiedevo come cazzo era finito lì – lo avrei visto più al reparto “Studio e sopravvivenza scolastica” – poi però, dopo l’arrivo della signorina con conseguente colpo di coda sessuale, mi sono convinto che deve avere almeno una dote nascosta. E spero che in qualche modo io ne possa godere di riflesso.

Nella mia centrale operativa c’è una battaglia che il capo conduce da più di mezzo secolo, quella per la riorganizzazione del settore “Sensi di colpa”. Inutilmente ha cercato di limitarne i terreni di azione. Ha ridotto l’organico a due impiegati, ha abolito i turni di notte delegando al reparto “Sogni e pensieri trasversali” la gestione della gran parte delle operazioni di sopravvivenza notturna, ha tolto loro le chiavi di accesso al sistema operativo degli “Affari sessuali”, ma niente. Non riesce a liberarsi di loro, per via di un’ostinata resistenza dei sindacati che parlano di vessazione e tentativi di demansionamento agitando lo spettro di uno sciopero generale con il conseguente blocco di tutte le attività non vitali (tra queste, purtroppo, anche quella del settore “peccati di gola e peccati in generale”). Nel timore, fondato, che gli uffici dei “Sensi di colpa” siano oggetto di incursioni da parte di sconosciuti o comunque di persone non autorizzate, il grande capo recentemente ha fatto mettere dei catenacci alla porta di cui solo lui ha la chiave.

Non so quanto in lui ci sia di dedizione alla comune causa della mia vita e quanto di pura cura del tornaconto personale – in fondo se io muoio, lui resta disoccupato – però di una cosa sono certo e gli sono grato. Il suo impegno quotidiano per portare avanti la baracca mi ha insegnato che esistono vittorie assolutamente inutili e sconfitte meravigliosamente feconde.

Il gene “natura selvaggia”

Ho finito di leggere “Everest solo, orizzonti di ghiaccio”, il libro in cui Reinhold Messner racconta la sua ascensione in solitaria della montagna più alta della terra (l’impresa è del 1980 e il libro è datato, nonostante le molte ristampe e le edizioni aggiornate). Ho sempre subito il fascino dell’estremo, non lo nascondo, nonostante non sia mai stato un campione di coraggio. Sono uno che sogna più a occhi aperti che durante il sonno e credo che in molti di noi ci sia un gene “natura selvaggia”: una specie di interruttore che, d’improvviso, accende desideri e stila nuovi elenchi di priorità. Mi è accaduto, con avventure alla portata di molti, quando ho scelto di camminare per oltre 830 chilometri con uno zaino in spalla attraverso montagne e fiumi o quando ho inforcato una moto per raggiungere Capo Nord. Ma la stessa emozione l’ho provata, quando arrampicavo, scalando le vie della montagna di fronte casa mia o quando mi sono buttato giù da un fuoripista al limite del ribaltamento sulle Alpi francesi. Sono tutte cose che si possono fare in relativa sicurezza, se si accetta un concetto fondamentale della vita, quello della preparazione. Un concetto purtroppo desueto, e ce ne accorgiamo tutti i giorni scorrendo l’agenda politica, guardandoci intorno al lavoro o semplicemente leggendo un giornale.

Prepararsi per qualcosa significa innanzitutto prepararsi alla sconfitta e in tal modo cercare di schermarsi dalle ferite della delusione. Non sono un esperto di vittorie, però sono un fortunato perché ho conosciuto la paura, ho constatato il miracolo, ho subìto la sconfitta, ho gioito per la fatica e pianto per un traguardo tagliato. Da buon fatalista credo che ogni passo sia una scommessa, ma che prima del passo la gamba debba essere allenata.

Mi ha sempre irritato la presunzione dell’incoscienza perché la ritengo pericolosa per la sua forza di contagio. Avevo un amico, ultraottentenne, che aveva girato il mondo, scalando, pedalando, immergendosi. Usava la stessa prudenza nei fondali del mare del Sudan come sulla collina che stava accanto casa sua, perché sapeva che non è nella geografia che si annida il rischio, ma dentro di noi, nella nostra assuefazione al pericolo. Quando capì che il tempo a sua disposizione stava finendo, lui si ritirò in silenzio e da solo, come i vecchi capi indiani che vanno a morire da soli. Non accettava più di raccontare i suoi ricordi, le sue storie: pensava di essere guardato come una specie di fenomeno di baraccone. Aveva capito che la verità è semplice e senza alibi, come scrive Messner: “Più si arriva in alto, più noi stessi diventiamo un problema”.

Cicogna, vola altrove

L’altra sera, sempre per via della terribile influenza, ho visto per la prima volta “Wild Oltrenatura”, su Italia 1. Il programma è una via di mezzo tra una raccolta di video truculenti, con leoni che azzannano guardiani di zoo e squali che staccano gambe a bagnanti incaute, e un’ostentazione di finte prove di ardimento della conduttrice Fiammetta Cicogna.
Il risultato è osceno. I filmati choc sono in tutta evidenza paccottiglia raccattata nei circuiti televisivi internazionali (soprattutto americani, dove questo genere va ignobilmente forte) e basterebbero da soli per far crollare il programma. Il peggio arriva con gli interventi della conduttrice che lasciano allibiti: c’è una finta missione da compiere, con finti pericoli, con una finta eroina (la Cicogna), con una finta regia che presuppone finti telespettatori.
Dalle battute pronunciate esattamente come in una recita scolastica, alle situazioni inverosimili il programma è un crescendo di insulsaggini come raramente mi era capitato di vedere.
L’altra sera questa tale Fiammetta Cicogna doveva scendere da un’imprecisata vetta delle Dolomiti e, tutto in un respiro, ha urlato alla camera, è saltata dall’elicottero, ha sorriso, si è fatta calare con la corda da un dirupo di un paio di metri, ha finto di cadere, ha sbuffato, ha porto i vestiti a un tale che si faceva il bagno nudo nel ghiaccio, ha sorriso, ha costruito una slitta in un minuto e mezzo, ha urlato alla camera, ha ricavato una canna da pesca da un ramo e una piuma d’uccello, ha mangiato legno macerato nell’acqua, ha dormito all’addiaccio, non ha fatto colazione, ha sorriso, ha pescato una trota, ha perso l’acciarino, ha urlato alla camera, ha mangiato la trota cruda (compreso l’occhio), ha sbuffato, ha sfidato un lago ghiacciato con voce tremante, ha digerito la trota, è arrivata a destinazione, ha sorriso, il tutto senza mai scombinarsi i capelli.
Insomma l’unica prova estrema di questo programma è quella richiesta allo spettatore, che deve cercare di non lanciare il telecomando contro il televisore.
E poi altro che Oltrenatura.
Contronatura, signori, contronatura.