Antoci, gli spari e le nebbie

L’articolo pubblicato su la Repubblica.

Nella drammatica miscela di sonniferi giudiziari e veleni istituzionali il giallo dell’attentato a Giuseppe Antoci, rilanciato dalla relazione della commissione regionale antimafia, poggia su una sola certezza: il lavoro dell’organismo guidato da Claudio Fava è stato indiscutibilmente migliore di quello investigativo, perché ha saputo mettere a frutto con grande equilibrio la certezza del dubbio senza perdersi in conclusioni avventate, ma senza nemmeno fare il pesce in barile.

Per il resto, il quadro che viene fuori da quelle 104 pagine è un insieme di domande e interrogativi che raccontano una storia dai contorni inquietanti. Una storia che qualcuno vorrebbe relegare a vicenda di provincia, e che invece evoca scenari pericolosamente nebbiosi.

Inutile girarci intorno, delle tre ipotesi contenute nel documento – agguato mafioso, avvertimento, messinscena – la terza è quella che catalizza i maggiori sospetti e che alimenta il fuoco di fila delle domande. Innanzitutto: perché si sarebbe dovuto simulare un attentato? E a seguire: a chi avrebbe giovato la messinscena?

A scorrere i verbali dell’antimafia si ricava la sensazione che l’inchiesta giudiziaria sia stata costruita con un misto di leggerezza e imbarazzo. Leggerezza perché le prime indagini per un agguato di tale livello sono delegate soltanto alla squadra mobile di Messina e al Commissariato di Sant’Agata di Militello. Imbarazzo perché in tutta questa vicenda non c’è mai un’autorità che ha il coraggio di mettere le mani nell’acquitrino di lotte durissime, e nemmeno nascoste, tra ufficiali di polizia giudiziaria: quasi che si temesse il fastidio nel riscuotere una verità dolorosa. 

Poi c’è la figura della vittima designata, quel Giuseppe Antoci che da presidente del Parco dei Nebrodi aveva rotto le uova nel paniere alla mafia con scelte nette e coraggiose. Domanda: perché Antoci è così duro con Claudio Fava, che comunque lo aveva dipinto come “vittima, bersaglio della mafia o strumento inconsapevole di una messinscena”? Antoci dice: “Non mi sarei aspettato una cosa del genere da chi l’ha vissuta sulla propria pelle”, e cita addirittura Pippo Fava. Perché difende strenuamente la versione dell’attentato? E soprattutto, come mai non è colto da un dubbio dinanzi alla marea di contraddizioni che, puntualmente elencate in sede giudiziaria e in sede politica, sommergono la versione ufficiale rendendola a tratti inverosimile?

In quella terribile notte tra il 17 e il 18 maggio 2016 non c’è una sola ricostruzione che non sia in contrasto con le altre: non tornano i conti sul numero degli attentatori, sulle armi usate, sulle modalità del blocco della strada, sulle tempistiche di chi arriva e chi va, non tornano i conti su nulla.

E, ineluttabile, albeggia sullo sfondo la luce triste di un’antimafia politicante che vuole mettere a tutti i costi il cappello su un mostro a due teste: quella della minaccia e quella della mistificazione.

Ballarò e la politica degli inutili idioti

pub ballarò attentatoL’altro giorno mi sono occupato della surreale vicenda del pub di Ballarò, tolto alla mafia, dato in mano a gente onesta e proprio per questo osteggiato dalla parte più tragicamente “influente” del quartiere. Ieri Sara Scarafia è andata a sentire i consiglieri della circoscrizione, che metaforicamente (e non solo) rappresentano il primo anello nella catena che unisce politica e quartiere. Guardate il filmato: pur di giustificare la codardia enciclopedica di chi non ha il coraggio delle proprie azioni, alcuni consiglieri, a partire dalla presidente Paola Miceli – una che viene dal Partito comunista, mica dalle feste di Arcore – , s’inventano una serie di scuse che vanno dal “non posso risponderne io” (di che, delle fiamme al locale o del fumo di omertà?) al “non è competenza nostra” (di stilare una noticina di condanna dell’attentato, mica di imbastire la requisitoria del maxiprocesso). Insomma, questi qui non sono stati capaci manco di scrivere un temino in bella grafia per metter su almeno un teatrino antimafia. Figuriamoci come se la caveranno con le cose serie. Quando le forze dell’ordine decideranno di mettere ordine in un quartiere in cui ancora lo Stato non è la prima forza al comando, dovranno sincronizzarsi con la politica affinché si decida almeno a separare gli utili idioti (da riciclare) da quelli inutili (da buttare e basta). A Ballarò c’è l’imbarazzo della scelta.

P.S.
Se ve lo siete perso, date un’occhiata a questo bel servizio di Stefania Petyx per “Striscia la notizia”.

Un bel respiro, su

In questo momento la confusione nelle indagini per l’attentato di Brindisi si riflette sulle prestazioni del titolista di Corriere.it.

Incongruenze

Due uomini armati si affrontano sulle scale di un condominio. Il primo spara, ma la pistola si inceppa. Il secondo, che è un poliziotto, risponde e spara in aria, una, due, tre volte.
Occhio: siamo in un ambiente piccolo e scomodo.
Ciò che desta sospetto, a un qualunque lettore di polizieschi, è la reazione del secondo. Uno va per spararti addosso e tu miri in alto?
Ciliegina sulla torta dei dubbi. L’aggressore fugge via nonostante fuori ci sia un altro poliziotto.

Frammento di 11 settembre

Io, come tutti voi, ricordo cosa facevo l’11 settembre 2001 intorno alle 15.
Stavo rientrando al giornale, in ritardo. Una mia amica mi chiamò al cellulare. Mi chiese cosa stava accadendo in America perché, lo disse quasi scherzando, “lo sai che tra quattro giorni io e mio marito dobbiamo partire per New York…”.
Risposi: “Guarda, sono appena arrivato. Dammi il tempo di raggiungere la mia scrivania”.
Attraversai la redazione e non mi accorsi che era semideserta nonostante l’orario. Tutti i miei colleghi, i fattorini, i grafici, i fotografi, erano coagulati davanti alle tv.
Ricordo di aver catturato involontariamente l’immagine di un aereo che sfondava un grattacielo. Il mio cervello in quegli istanti la registrò come se fosse il fotogramma di un film.
Qualche istante dopo credetti di capire. Ma per capire veramente avrei dovuto aspettare molti anni.

I grandi all’altezza

tacchi di berlusconi

C’è una caratteristica fondamentale che rende veramente grandi gli uomini di potere: è il loro sapersi mettere in gioco quando il gioco gira male.
Se in Italia si fosse verificato un buco nella sicurezza nazionale come quello del fallito attentato di Natale negli Usa, lo scaricabarile, gli insabbiamenti e le risse politiche avrebbero paralizzato ogni attività di ricerca della verità.
Già me li vedo i Capezzoni, i Di Pietri, i Gasparri (lui è avvantaggiato perché ha un cognome che è già un plurale) che consumano ugole e saliva. Monica Setta che imbastisce un programma per dimostrare che il terrorismo è solo di sinistra e che addirittura ha una radice genetica nel mancinismo. Bruno Vespa che indossa un plastico delle mutande esplosive come quelle strappate – tra qualche gridolino ammirato delle hostess – all’attentatore.
Invece in America il presidente ha usato la più raffinata arma di persuasione di massa: l’ammissione personale di responsabilità. Ha detto al popolo “è colpa mia” ottenendo un duplice risultato: sedare al più presto le polemiche politiche (se uno ammette, ammette e basta, inutile continuare a battere i pugni sui tavoli) e rassicurare la sua gente (se uno si mette in discussione riscuote una maggiore fiducia).
Per uno come Barak Obama mettersi in gioco quando il gioco gira male significa prendersi tutte le responsabilità: reali, metaforiche, ipotizzabili.
Per altri mettersi in gioco quando il gioco gira male significa litigare con tutti, arbitro compreso, e magari tentare di comprarsi la partita.

Link per il fine settimana/3

Armatevi di pinze e leggete.