Armando, a che numero siamo?

Molti anni fa quando lavoravo al Giornale di Sicilia capitava spesso che il condirettore Giovanni Pepi usasse l’interfono in modo abbastanza invasivo. Dal nulla quell’infernale apparecchio (che, lo confesso, sfasciai il giorno dopo che lo avevano installato) faceva “Diiin!” e trasmetteva la voce imperiosa del de cuius che a tradimento dava un ordine o, peggio ancora, chiedeva qualcosa a saltare. La cosa davvero fastidiosa era l’invasività del mezzo, per non dire della persona che lo usava a sproposito: quella voce irrompeva spesso quando nelle nostre stanze c’erano ospiti e la figuraccia era purtroppo assicurata.

Una sera, come ogni sera, io e Francesco Foresta eravamo riuniti (quasi accampati data la mole di lavoro) nella stanza dell’allora caporedattore Armando Vaccarella. Era il periodo in cui il giornale si batteva per la riapertura del Teatro Massimo e pubblicava periodicamente editoriali sul tema, preceduti da un numero che scandiva i giorni dall’inizio della campagna. Quella sera dal nulla scattò il tremendo “Diiin!” seguito dalla voce tuonante di Pepi.
“Armandooo! A che numero siamo col Teatro Massimo?”.
Armando non ci penso due volte e sparò: “Duecentotrentasei!”
“Bene, pubblichiamo un editoriale su domani!”.
Chiusa la comunicazione ci guardammo smarriti e io non chiesi ad Armando cosa avrebbe scritto in un fondo commissionato a tradimento, così come se fosse un coppo di calia e simenza, ma: “Ma come facevi a sapere a memoria a che numero eravamo arrivati”.
E lui: “Che minchia ne so? Ho sparato a muzzo (a casaccio, ndr)”.
Quindi tutti di corsa, con un sottofondo di risata isterica tipo quella che ti scappava in classe quando la maestra ti guardava e tu non potevi dire nulla, nella stanza del caporedattore centrale Giovanni Rizzuto.
“Giovà, fai quello che vuoi ma domani in prima pagina ci deve essere questo numero: duecentotrentasei”. Altre risate, nella cui eco – essendo l’unico sopravvissuto di quel dream team – mi cullo ancora oggi con serena nostalgia.
Armando non aveva sbagliato di poco: solo di un centinaio di giorni (in più o in meno, non ricordo e non importa). Nessuno se ne accorse mai.

Questa storia mi è venuta in mente stamattina mentre, durante il solito dispendio di calorie quotidiano che alcuni chiamano supplizio e altri chiamano sport, pensavo al mio futuro lavorativo: è un rituale che mi concedo ogni fine anno, un po’ scaramantico e un po’ candidamente razionale.
Il lavoro di tutti noi, ma proprio tutti, è fatto prevalentemente di cose che conosciamo solo noi ed è quasi sconosciuto a chi ci sta sopra. È una questione ontologica, i livelli di comando sono compartimenti stagni in cui le interferenze che vengono dal basso vanno disinnescate e in cui ciò che è davvero importante sono i feedback che vengono dall’alto.
C’è un però gigantesco.
La competenza.
Credo che un buon manager debba conoscere la materia prima dei suoi prodotti e non solo i numeri che scaturiscono dalle vendite. La nostra politica si è sostanziata sempre più di dilettanti orgogliosi di esserlo, di inutili cittadini di potere, di gente qualunque investita inopinatamente di poteri straordinari. Il risultato è stato – è sotto gli occhi di tutti – disastroso.
Il direttore che sbraita nell’interfono per chiedere qualcosa di cui non ha idea, che non controlla, è la fotografia di un sistema produttivo che punta all’abisso: e i risultati della cronaca lo confermano.
Serve competenza condivisa. Servono capi che cazziano con cognizione di causa i dipendenti ignoranti. Serve chi sa, chi conosce, chi può insegnare. Serve un’idea di valorizzazione che sia complementare a un sistema di esclusione: ciò che funziona deve stare dentro, costi quel che costi, ciò che non vale un cazzo si butta, pazienza.
Serve il coraggio di ribellarsi, di mollare tutto se necessario, di inventare.

“Armandooo! A che numero siamo?”
“Duecentotrentasei” (e non rompere il cazzo, è il sottotesto).

Che il 2024 sia un anno di trionfo oltraggioso della competenza. Auguri.

La lunga notte…

Di nottate elettorali è fatta la vita di un giornalista. Modestamente le ho affrontate sin dagli anni ’80 e ho attraversato tutte le difficoltà tecniche possibili. Dalla fotocomposizione all’impaginazione digitale, dalle telescriventi alle agenzie online, dai dimafonisti alle chat di internet, dalla carta al web, non c’è notte elettorale che sia semplice: perché per assioma se uno spoglio è semplice o stai sognando o sei nel Donbass.

Coi colleghi che al contrario di me ancora oggi resistono in trincea, abbiamo rievocato spesso quelle notti in cui un corrispondente si dava latitante (famoso il caso di uno che approfittò dell’alibi elettorale per andarsene con l’amante) e tutto si fermava, o abbiamo rivissuto l’incubo delle elezioni nel Messinese dove con 108 comuni, alcuni di pochissime anime, era praticamente impossibile avere i definitivi entro l’ora stabilita e a volte entro le ore che seguivano. A tutto ciò si aggiunga la grottesca esigenza delle aziende editoriali di anticipare sempre più l’orario di chiusura e quindi il crescente ricorso, da parte nostra, ai salti mortali per mandare in edicola una versione almeno plausibile di ciò che era accaduto e stava ancora accadendo.

All’alba del suo pensionamento un anziano caporedattore del giornale in cui lavoravo, ripescando le collezioni, scoprì addirittura che in questa foga di anticipare, anticipare, anticipare, di alcune tornate elettorali non avevamo mai pubblicato i risultati definitivi.
Ancora oggi con alcuni colleghi di cui sopra abbiamo una sorta di parola d’ordine che facciamo circolare via whatsapp a ogni elezione. È una frase: “La lunga notte…”. E rievoca, appunto, una notte che nella nostra memoria si arricchisce col tempo – sapete, i vecchi quando non ricordano, inventano – di particolari fantasiosi.

Elezioni del 1996. Avevamo mandato Enrico del Mercato, allora cronista parlamentare del Giornale di Sicilia, a fare un reportage nel quartier generale della Rete e lui, in assenza di un briciolo di dati che non fossero quelli scarni dell’affluenza, aveva temporeggiato sino all’ultimo per cercare di mettere più sostanza possibile in quelle cento righe di pezzo. Solo che era tardi. Anzi tardissimo. Fumavamo nervosamente intorno a lui, mentre scriveva una frase che avrebbe dovuto imboccare la fine agognata dell’articolo, ma lui stava ancora lì a scegliere le parole, a cercare un’arguta metafora.
Aveva appena digitato “la lunga notte…” quando il caporedattore Nonuccio Anselmo mi scansò di peso, letteralmente vista la stazza, tolse la tastiera dalle mani di Enrico e scrisse: “…finisce qui”.
Poi schiacciò i comandi “control – assegna” e la lunga notte, almeno per quel pezzo, finì davvero lì. Per poi entrare nella nostra minima leggenda di giornalisti sopravvissuti e non rassegnati.

Ancora oggi una notte elettorale non si evita, si scampa.

“Caccia alle brevi!”

L’articolo pubblicato oggi su La Repubblica Palermo.

Una volta si diceva che la lettura del giornale al mattino è la preghiera dell’uomo moderno. Oggi sappiamo che il rito e addirittura la religione sono cambiati. I giornali, sino a qualche decennio fa, erano luoghi molto diversi da come sono adesso. Erano culle di notizie, palestre di sopravvivenza, scuole in cui consumavano grandi successi sociali ma anche molte ingiustizie. Erano cucine di fatti che venivano serviti a volte crudi, altre volte adeguatamente lavorati e conditi. Un esempio di cuoco ideale per capire cosa erano le redazioni trent’anni fa è stato Armando Vaccarella, storico caporedattore del Giornale di Sicilia. Armando aveva il cinismo tagliente di chi sapeva bene che nel giornalismo di quegli anni non si galleggiava: o si nuotava o si annegava. Era il primo motore immobile di un sistema produttivo che era al contempo stile di vita, insalata di dovere e cazzeggio. Imprevedibile come la vita vera che, allora, imponeva di leggere nell’aggettivo “virtuale” la definizione prevalente di “non reale” e nulla di ammaliante. Armando fu tutto e il suo apparente contrario. Fu la penna al servizio della direzione per i triti editoriali sul traffico – che ispirarono Vincenzo Cerami per la celebre scena di Johnny Stecchino – ma fu anche il primo a raccogliere lo sfogo di Libero Grassi. Il suo grido di battaglia era “Caccia alle brevi!” perché a quei tempi i giornali dovevano stipare quante più notizie possibili: e per un prodotto solido la quantità era importante. Regalò pomeriggi indimenticabili quando, per riuscire a parlare con Sergio Mattarella che si negava al telefono, finse di essere la segretaria di un ministro e, stabilito il contatto col politico riottoso, lo salutò con un “Sergio, Armanduccio tuo sono: ti ho fregato…”.
Una volta – siamo nell’epica – voleva sfuggire a Raffaele Bonanni che stava arrivando a tradimento in redazione e stimò opportuno sdraiarsi per terra dietro la scrivania mentre tutti noi, pietrificati da una risata che non poteva scappare, osservavamo il sindacalista vagare inutilmente per lo stanzone. Era un gran cuoco di notizie perché conosceva il valore del tempo, e il tempo è fondamentale nella cucina di una redazione: senza non si controlla, non si vaglia, non si spiega. I giornali di quell’epoca erano luoghi in cui la fretta era ammessa solo al momento di consegnare il lavoro alla tipografia, alla fine della giornata. Un’insalata di dovere e cazzeggio. Come la vita vera.

Eravamo quattro amici al Gds

Uno dei pregi dell’età che avanza è che la memoria comincia a somministrarti ogni giorno, a tradimento, qualche storia passata che, per similitudine o contrappasso, ha un aggancio col presente. Ed è sempre un misto di nostalgia e di orgoglio, nostalgia per quel che è stato, orgoglio per quel che sei stato. Comunque una sensazione piacevole, costruttiva perché ti spinge a guardare avanti con rinnovato vigore.
Ieri, ad esempio, parlando con un caro collega mi è venuta in mente non una storia precisa, ma una concatenazione di flash che sono il film di un lungo momento umano e professionale.
Siamo intorno alla metà degli anni Novanta, al Giornale di Sicilia di Palermo. Siamo in quattro – io, Francesco Foresta, Armando Vaccarella e Giovanni Rizzuto – e siamo (diventati) il motore del giornale. Siamo molto diversi tra noi, viviamo assieme fisicamente una decina di ore al giorno, a volte di più. Io sono quello più rissoso, Giovanni è il più trasversale (infatti è con lui che mi scontro sempre), Armando è il più spassoso e il sommo maestro di affettuoso cinismo, Francesco è la mente politica del gruppo poiché, strategicamente, è già dove gli altri devono ancora arrivare. I flash che mi vengono in mente riproducono quattro situazioni diverse e distanti che – se volete – potete leggere come un unico film.

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A margine

francesco e gery

Se fosse ancora con noi, Francesco Foresta racconterebbe di quella volta in cui il buon Armando Vaccarella finse al telefono di essere la segretaria di De Mita pur di riuscire a parlare con Sergio Mattarella.
Ma siccome non ci sono più né Francesco né Armanduccio, la storia la chiudo nello scrigno dei miei ricordi felici e non ve la racconto. Così non rischio di ridere sino alle lacrime e di dover far finta di continuare a ridere per giustificare gli occhi lucidi.

La storia di Armando

Ieri è morto a Palermo Armando Vaccarella, un anziano giornalista che è stato punto di riferimento per un paio di generazioni di giornalisti. Sul web ci siamo ritrovati in molti a ricordarlo, colleghi, ex compagni di scrivania, amici, ex amici. E il bello è che almeno per una volta abbiamo raccontato tutti la stessa storia. Quella reale, di Armando, l’uomo che ci forgiò col suo rigore scanzonato.