L’asino (verificato) che vola

Avvertenza prima della lettura: gli esempi, spero abbastanza generici, riportati nelle righe che seguono sono solo un appiglio per il ragionamento. Non ci si fermi ad analizzarli e a farne spunti di polemica, quel che contano sono i concetti che cerco di portare alla vostra attenzione. Insomma fate conto che ho cucinato per voi un bel piatto di pasta: non state a interrogarvi sui mestoli che ho usato, ma dedicatevi alla pietanza.

Lo scenario è noto. Ogni giorno, soprattutto per veicolo dei social e purtroppo anche dei giornali che dai social attingono in modo sempre più scriteriato, una pietrina diventa valanga a insaputa della montagna (e spesso anche della pietrina). I nuovi scandali fanno perno su un cambio di stato su FB o su una storia di Instagram. Persino una foto profilo cambiata, chessò, da gabbiano a beccaccia fa tremare i polsi a un’opinione pubblica polpastrellocentrica. Un’occhiata di troppo alla ragazza che passa davanti alla fermata del bus, ripresa su TikTok dà la stura all’indignazione collettiva di un popolo che, se solo lo conoscesse, metterebbe al rogo il Bufalo Bill di Francesco De Gregori che “giocava a ramino e fischiava alle donne”: ludopatia e catcalling in un colpo solo, l’ergastolo come minimo.
Un tale viene assolto perché non ci sono prove che abbia rivolto offese pubbliche a un altro e scoppia la rivoluzione perché la soluzione non è quella che ci si aspettava: per crocifiggere servono solo chiodi e legno, mica ci si può amminchiare con il garantismo.
Un ristorante o una pizzeria o una bettola con cucina denunciano a mezzo social l’odiosa reazione di un anonimo cliente verso un collaboratore che ha un colore della pelle diverso da quello del paese in cui si trova, e a nessuno viene in mente che, come tristemente dimostrato, l’intolleranza è una piaga di questo Paese anche perché ogni tanto qualcuno cerca di farla diventare business.

Se hai dubbi e, peggio, li manifesti sei fascista.
Sei li hai ma non li manifesti sei un gattopardiano del web.
Sei non li hai sei Matteo Salvini.

Il succo è che alla sovrabbondanza di denunce, di merce esposta in bacheche di cui non siamo manco proprietari ma che portano l’insegna e la responsabilità nostre, non corrisponde un’affezione alla verifica, al controllo di qualità. L’asino che vola non lo ha inventato Zuckerberg, tutt’al più gli ha dato un account verificato.

I primi responsabili siamo noi giornalisti.
I secondi responsabili siamo noi cittadini.

Dio, patria e ‘staminchia

La bocciatura per ispirazione governativa del giorno di chiusura per Ramadan della scuola di Pioltello è il più fulgido esempio di pericolosità sociale del pregiudizio.
Non sono un esperto, ma leggendo qualche giornale, mi sono fatto un’idea di questo tipo (se qualcuno di voi ha da correggermi sulle questioni tecniche lo faccia pure): il Consiglio d’Istituto aveva deciso di sospendere le lezioni il 10 aprile, giorno della fine del Ramadan, in virtù dei tre giorni discrezionali di vacanza che si aggiungono a quelli canonici stabiliti dall’Ufficio scolastico regionale; la scelta era stata votata all’unanimità dai docenti presenti e accolta all’unanimità dal Consiglio di istituto e soprattutto non era una cosa che si erano tirati fuori dal cilindro ma era frutto di una considerazione elementare dato che la  scuola “Iqbal Masih” ha un’utenza multiculturale con predominanza araba e pakistana e con una percentuale di bambini di religione islamica del 40 per cento.
Non ci vuole una scienza per capire che una scuola in cui bambini di varie etnie si confrontano, crescono insieme, imparano a evitare le cazzate di noi adulti che ancora stiamo attenti al colore della pelle o al dio invocato più o meno forzatamente prima dei pasti, dovrebbe essere salvaguardata, valorizzata, protetta: della serie un giorno si celebra il mio dio, un altro il tuo, un altro ancora studiamo insieme e un altro ancora facciamo vacanza insieme. Comunque insieme, perché il mio dio e il tuo sono, nel migliore dei casi, compagni di banco.
Invece accade che in Italia questa scuola diventa il bersaglio della peggiore visione antisociale e antistorica, quella che non guarda al futuro, cercando di aggrapparsi a un passato che è irrimediabilmente defunto. Loro chiamano tutto ciò tradizione, il resto del mondo, quello senziente, lo chiama immondizia.
Perché è immondizia culturale quella che non vede nelle diversità una vera occasione di crescita: anche sul fronte economico, il bastione dei nazionalisti che ci tritano i coglioni con fandonie tipo “gli immigrati ci rubano il lavoro”. Basta informarsi e leggere i rapporti statistici e i report di chi misura le cose con il metro della scienza che da anni confermano che senza gli immigrati regolari non avremmo crescita demografica, faremmo i conti con decine di miliardi in meno di contribuzione e saremmo condannati a essere un paese di pensionati che stanno a guardare cantieri stradali dove nessuno lavora.  

C’è infine un aspetto non secondario. Diffondere benessere, spalmare attenzioni sul mondo che ci circonda è il migliore investimento per il futuro che una nazione possa fare per i suoi figli rivedendo il concetto propagandistico di “dio, patria e famiglia”, assimilabile a un (tristemente) più realistico “dio, patria e ‘staminchia”. Quando invece una via chiara, luminosa e attuale esiste.
Dio, un dio che comunque lo si chiami sia una guida di tolleranza e carità.
Patria, che sia di tutti quelli che la abitano, la vivono e la onorano con il lavoro e la cura per l’altro.
Famiglia, che sia quella in cui l’unico vincolo è l’amore, e il resto non conta perché il mondo cambia e chi non cambia sta fuori dal mondo.

Una scuola come quella di Pioltello che insegna ai suoi ragazzi che ci sono feste, celebrazioni, ricorrenze che fanno parte di varie culture e che per questo sono belle anche da osservare (la meraviglia negli occhi di un bambino è la scintilla dell’intelligenza), fa il suo mestiere nel migliore dei modi. Che è quello, come cantava Eugenio Finardi, di “insegnare a imparare”.

P.S.
Ora che siete arrivati sin qui prendetevi altri tre minuti e ascoltatevela, questa canzone che pare scritta oggi, ma è del 1977.

Quel no a Peppino Impastato

Nella storia dei ragazzi del liceo di Partinico che dicono no all’intitolazione a Peppino Impastato perché “troppo politicizzato” e/o “divisivo” ci sarebbe da andare a fondo che più non si può. Cioè bisognerebbe presentarsi a questi ragazzi, ascoltarli, impiantare una redazione in quella scuola, ora, subito. Spogliarsi di tutte le certezze giornalistiche prêt-à-porter e mettersi in dubbio, noi giornalisti, noi raccontatori di storie, noi orecchianti di vite che non sono le nostre. Perché in quel “troppo politicizzato” e/o “divisivo” c’è un sintomo importante: che sia malattia o evoluzione, ribellione o strumentalizzazione è tutto da scoprire.
In “1979” (scusate se ci torno ma è una ferita ancora aperta, come tutte le creature artistiche sono ferite felicemente sanguinanti) c’è un paragrafo dedicato a Impastato che definisco come bell’immagine trendy dell’antimafia, bella nel volto e nel messaggio (“la mafia è una montagna di merda” era uno slogan geniale, allora). Sino a ieri Impastato era un’icona intoccata in quello che un tempo si chiamava immaginario collettivo e che oggi potremmo chiamare mainstream.

Ora i ragazzi di Partinico lo hanno messo in dubbio. E avranno le loro ragioni se gli preferiscono l’ex sindaco Gigia Cannizzo o Rosario Livatino (che non sono concorrenti, ma semmai comprimari – ognuno col suo ampio merito – di Peppino).
La tentazione sbrigativa è quella di guardare alla giunta di centrodestra per trovare un appiglio di condizionamento. Ma è troppo facile. E le cose troppo facili sono per noi giornalisti una mano su una campanella: quando suona bisogna drizzare le antenne, almeno così dovrebbe essere.
Mi piace pensare che il Peppino Impastato politicizzato e divisivo sia in fondo il vero Peppino Impastato, perché dividere, far discutere e (ri)animare il cuore della politica è in fondo il vero ruolo dei leader. Un bell’esempio è colui il quale scuote gli animi nelle buone intenzioni che vanno oltre la messa cantata. Di santi e unti dal Signore siamo pieni fino all’orlo di una indecente sopportazione (in fondo siamo il Paese che celebra corrotti e riabilita criminali conclamati). E comunque per loro ci sono già chiese, opere pie, programmi tv. Insomma c’è spazio a sufficienza.
Una scuola intitolata a un ribelle, eroico e ironico, geniale e solitario, è secondo me il migliore omaggio alla rivoluzione nonviolenta contro i violenti di ogni epoca, di ogni censo, di ogni colore politico.
Questo, se avessi un giornale, direi a quei ragazzi.

La fortuna di saper essere tristi

Tutti quanti abbiamo momenti difficili. E per non darvene uno a tradimento vi preavviso che questo post fa degnamente parte della categoria long form. Quindi leggete solo se avete tempo e voglia di mettere mano a un argomento che inesorabilmente ci riguarda tutti, ma altrettanto inesorabilmente è nascosto e/o mascherato da molti.
Premessa dello scrivente in nome e per conto dello stesso, a scanso di equivoci: parlare di difficoltà, di sentimenti urenti, di tristezza non significa necessariamente essere in difficoltà o avere le zampe impantanate nelle sabbie mobili della vita.
Si può, e si dovrebbe, discuterne senza remore, senza aver paura di disvelarsi o di schermarsi. Quindi io ci provo e mi tolgo subito il dente delle questioni personali: sono un Doc (da disturbo ossessivo compulsivo), ho avuto la fortuna di trovare una psicologa che mi ha illuminato e non disdegno di vivere appieno i miei momenti difficili. Inoltre, sbagliando, non condivido i miei problemi se non quando ho trovato una soluzione: non fatelo, è un atto di presunzione di cui aver vergogna.
Non sono mai stato un depresso, anzi la mia condizione vira esattamente verso l’opposto (e ciò non significa automaticamente che vada verso la felicità, eh).

Qualche anno fa la Pixar ambientò un cartone animato dentro il cervello di una ragazzina di undici anni. Ne venne fuori “Inside Out”, un’opera geniale e coraggiosa. Perché ci vuole genio per trasformare le emozioni umane nei personaggi di una storia. E ci vuole coraggio per rivendicare, tra queste emozioni, il ruolo fondamentale della tristezza, raffigurata come una bambina occhialuta, goffa e blu: blu, il colore dello spirito. Quante volte ci siamo sentiti inutilmente blu…
In pratica per buona parte del film la tristezza si accompagna alla gioia come un intralcio, una sabotatrice dell’ottimismo e della felicità. Ma alla fine la sua importanza viene riconosciuta.
Non è così nella vita vera, dove la tristezza è stata espulsa da qualsiasi discorso pubblico e privato. Trattata come un segnale di debolezza, una forma di sabotaggio.
Oggi come sempre il nostro sforzo quotidiano di giovani, vecchi, genitori, amici, figli, sopravviventi consiste nell’allontanare da chi ci è caro il fantasma della tristezza, quasi fosse una condanna a morte anziché un’occasione di crescita. È una questione culturale, frutto anche di una lunga epoca di imbonitori della politica che ci hanno sempre voluti pervasi da un entusiasmo ilare e beota. 
Per il pensiero comune e purtroppo dominante la tristezza è una iattura, è nemica dell’ottimismo nazionale, del negazionismo dei problemi, della sterilizzazione a uso social dei guai, insomma è un peso economico e sociale. In realtà basterebbe dare ascolto a un buon psicologo o a un’insegnante illuminata per rendersi conto che un essere umano incapace di accogliere la tristezza non è un essere umano, ma nel migliore dei casi un automa. Io la tristezza l’ho sempre vista come uno squarcio nel buio che ci permette di avere una visione delle nostre cose dall’interno, sotto una luce diversa, con una preziosa prospettiva. Talvolta mi sono rammaricato di non aver saputo essere triste abbastanza. Perché saper essere tristi significa essere consapevoli. E la consapevolezza è un buon grimaldello per le serrature dei momenti difficili.

Brevissima parentesi didascalica: ogni tanto serve, sennò discutiamo del sesso degli angeli. Oggi sappiamo che le emozioni fondamentali sono sette:
Gioia
Rabbia
Disgusto
Disprezzo
Tristezza
Sorpresa
Paura
Secondo gli psicologi servono a recapitarci dei messaggi. Come dei fedeli messaggeri, le nostre emozioni hanno uno spiccato senso del dovere: non accetterebbero mai l’idea di rinunciare alla loro missione. Quindi ogni volta che cerchiamo di intralciare la strada dei messaggeri, loro faranno in modo da trovarne una nuova: facendosi largo con ogni mezzo, scavando strade nuove, scavalcando muri e magari facendo qualche danno. Tutti abbiamo contezza di cosa significhi vivere una rabbia sempre più bruciante, oppure lasciare che una tristezza si tramuti, incontrollata, in un dolore sempre meno sopportabile.
Nel mio piccolo io adotto un metodo abbastanza semplice. Ogni volta che mi sto incasinando (e non immaginate quanto ciò accada spesso) cerco di riconoscere il messaggio, e soprattutto il messaggero, e di capire che minchia vuole.
Nei momenti difficili ad esempio ho decrittato che la tristezza incarna l’incontro tra il desiderio e i suoi limiti. E in particolare, spesso nel mio caso, non è l’esterno che in qualche modo delimita il desiderio, bensì è il limite stesso che è elemento costitutivo del desiderio. Quindi provare ad accettare la mia limitatezza aiuta in qualche modo a superare la tristezza. Ho detto provare, eh. Mica qui vendiamo le pozioni di Vanna Marchi.

E siamo alla parte più creativa del ragionamento: il rapporto tra tristezza e malinconia.
Victor Hugo scriveva della malinconia che è “la gioia di sentirsi tristi”. Non piace, ma è vero. A me non piace per niente, ma è innegabile che la malinconia genera creatività: non scriverei queste righe adesso se non fossi alimentato da una preziosissima malinconia, pur nella invidiabile serenità di casa mia.
Charles Baudelaire parlava di spleen: quel piccolo miracolo che si realizza quando la malinconia si traduce in una fertile produzione artistica e la sofferenza si trasforma in creatività.
Ecco, credo che solo se non viene scacciata subito, la malinconia può liberare questa energia ispiratrice. Poi c’è sempre un efficace termometro dell’umore facile da usare, ma questa ve la dico in un orecchio: quando siete felici vi piace la musica, quando siete triste capite i testi. Sssst!

Per finire vi riferisco di un’altra domanda che mi pongo quando il mio cervello rasenta il surriscaldamento: possibile che siamo prevalentemente chimica?
Qualche studio psichiatrico di cui ho letto (e di cui non trovo il link, mannaggia, ma fidatevi perché questa cosa l’avevo messa nei miei appunti di cassettista) è arrivato alla conclusione che un po’ di tristezza è utile alla nostra salute, mentre qualche altro, corroborato dalla nuda cronaca, ci dice che il mal d’amore può davvero uccidere.
Molti di noi conoscono il disagio o addirittura il dramma della depressione, pochi (io vorrei ardentemente essere tra questi) sanno leggere tra le righe del libro che scriviamo, giorno dopo giorno, con i nostri entusiasmi, le nostre incazzature, le nostre passioni e le relative delusioni. Siamo chimica, ci ricordano gli scienziati, siamo il frutto di un complicatissimo dosaggio istantaneo di ormoni, neurotrasmettitori, enzimi e chissà cos’altro. Dietro un sorriso c’è uno schizzo infinitesimale di serotonina. In una porta sbattuta c’è una mano dell’adrenalina. La visione biochimica delle emozioni mi ha consolato in qualche momento difficile, eppure mi ostino a valutare il calore di un abbraccio o l’incanto di un tramonto come qualcosa di estraneo ai composti del carbonio. Che la tristezza sia una tappa ineludibile nel lungo cammino verso la felicità ce lo insegnano i grandi artisti. Dietro un’opera memorabile c’è quasi sempre uno stato di insoddisfazione: uno scoppio propulsivo verso il meglio che si cerca e che non si trova. E – arrendiamoci – è questa tensione che ci regala il bello che non teme il tempo.

Soundtrack creata appositamente dalla mia amica Sarah

Schettino e il naufragio dell’informazione

Il caso della gaffe di Televideo su “Io capitano” associato alla storia di Schettino e del naufragio della Concordia rimanda a due considerazioni, che vi porgo in modo spero agile (perché il discorso potrebbe essere complesso).

La prima riguarda il disagio dei giornalisti come categoria in un Paese (verrebbe da dire in un mondo, ma restiamo circoscritti) che legge sempre meno e che, soprattutto, è sempre meno interessato alla qualità della lettura. E lettori pessimi si accontentano di giornali pessimi. Lo dimostra il fatto che esistono ottimi prodotti editoriali che nessuno compra, perché si preferisce la spazzatura gratuita dei social o di bassa lega.
Le redazioni sono svuotate per motivi economici, il lavoro che veniva fatto da dieci persone è oggi fatto da due, il che alimenta l’offerta di informazione scadente. In più ci si mette l’uso folle dell’intelligenza artificiale, che pare aver un ruolo nell’incidente di Televideo.

La seconda considerazione è figlia della prima. Nei giornali che vogliono essere troppo nuovi le decisioni editoriali sono guidate da statistiche che, analizzando ciò che genera più traffico, decretano la morte dell’idea originale, del guizzo, della bracciata controcorrente. In un loop paradossale (di cui stiamo già pagando le conseguenze) gli algoritmi non riflettono solo le tendenze, ma addirittura le creano incrementando la popolarità di temi già popolari e determinando una polarizzazione dei lettori che non riflette gli equilibri reali. Insomma – come scrissi qui qualche tempo fa – se a nessuno viene mai spiegato che la musica elettronica o l’architettura postmoderna sono argomenti importanti, è molto difficile che qualcuno li tratti come tali.
La verità è una sola: il ruolo del giornale come arbitro si sta perdendo. Se i dati dicono che gli argomenti provinciali sono i più rilevanti, anche il giornale diventerà provinciale. Morale storta: cercando di essere più grandi, si rischia di diventare più piccoli.
Il bello, o meglio il brutto, è che colpevolmente quasi nessuno nelle aziende editoriali italiane (e non) è mai stato colpito dall’idea che bisogna cambiare radicalmente il modo di lavorare, di scegliere le notizie, persino di reclutare giornalisti. Ma questo è un problema di conoscenza e di coraggio. E il coraggio viene dopo.

1979, musica a gentile richiesta

Ci sono cose importanti che stanno a margine.  Soprattutto nei ragionamenti, negli incastri della socialità vera, nel semplice rapporto tra una domanda e una risposta.

Così, dopo “1979”, la principale domanda che mi è stata rivolta (dopo “ma come ti è venuta ‘sta cosa?” o tipo “chi te lo fa fare?”) è stata: dove possiamo trovare la playlist dello spettacolo? E, elemento di gran soddisfazione, la maggior parte di quelli che me lo hanno chiesto sono giovani (mai visti tanti giovani a un mio spettacolo, uuuh!).

È l’inaspettata conferma di quel che dico della musica proprio nei primi minuti di “1979”:

“…Serve perché per raccontare bisogna essere liberi e per ascoltare bisogna essere pronti a mettere a frutto la libertà che qualcuno ci porge. Soprattutto lasciarsi tentare dalla realtà che non è sempre triste e nefasta”.

Quindi, come si diceva una volta “a gentile richiesta”, eccovi in rigoroso ordine di apparizione, l’elenco delle canzoni dello spettacolo. Mentre qui trovate i link per la playlist su Apple Music e su Spotify

That’s the Way of the World – Earth, Wind & Fire

Fatti più in là – Sorelle Bandiera

Love to Love You Baby – Donna Summer

My Sharona – The Knack

Bad Girls – Donna Summer

Higway to Hell – AC/DC

Le Freak – Chic

Boogie Wonderland –  Earth, Wind & Fire, The Emotions

Y.M.C.A – Village People

Ma come fanno i marinai – Lucio Dalla e Francesco De Gregori

Too Much Heaven – Bee Gees

Je so’ pazzo – Pino Daniele

Another Brick In The Wall, pt. 2 – Pink Floyd

Don’t Stop ‘til You Get Enough – Michael Jackson

London Calling – The Clash

Message in a Bottle – The Police

Buona Domenica – Antonello Venditti

Last Train to London – Electric Light Orchestra

I Will Survive – Gloria Gaynor

I Can’t Tell You Why – Eagles

All My Love – Led Zeppelin

The Logical Song – Supertramp

Goodbye Stranger – Supertramp

Take the Long Way Home – Supertramp

Breakfast in America – Supertramp

Viva l’Italia – Francesco De Gregori

Come Keith Jarret

Ieri.
In una sera d’estate di quasi trentasei anni fa Keith Jarrett aveva cominciato a suonare (male) al Teatro di Verdura di Palermo quando uno spettatore lo fischiò. Il famoso pianista mollò tutto e minacciò di far saltare l’esibizione. Lo spettatore fu identificato e additato come un molestatore di arte pubblica. Mentre rischiava di essere ammanettato disse: “Amo troppo Jarret per sentirlo suonare così male”. Difesi pubblicamente quello spettatore, lui e il suo diritto di protesta. Perché non c’è contratto di consenso tra un artista e il pubblico pagante e perché, secondo me, nel merito aveva ragione.

Oggi.
Rientravo a piedi da una serata tra amici (fantastici, perché tutti loro rincasano allegramente a piedi come me e alla fine l’unico inquinamento prodotto da una simile adunata è quello acustico, per certe risate al di sopra di un’eventuale ordinanza). Lungo il tragitto ho incontrato un posto di blocco della polizia, in una zona dove spesso si posizionano le pattuglie per controlli.
Qualcosa ha attirato la mia attenzione. Ed era qualcosa di recondito.
La pattuglia aveva fermato una ragazza.

Reset.
Quante volte ho visto ragazze fermate a un posto di blocco?

Mi sono fermato, nel buio del marciapiede tipo maniaco dei giardinetti, senza l’impermeabile che cela nudità però.
E ho capito cosa c’era di recondito in questa mia esperienza.
Negli anni ho visto troppe ragazze e signore fermate ai posti di blocco. Infatti solo ieri sera, nel giro di pochi minuti, un’altra auto è stata fermata. E chi c’era alla guida?
Ora, io capisco che ci sono i controlli a campione, ma ‘sto campione lo vogliamo verificare, benedetto dio?

Non sono uno che sbava per certi estremismi moderni, per cui se non chiami avvocata un avvocato donna ti devono venire a prendere i carabinieri (anzi le carabiniere). Sono uno che se pensa alla schwa nella lingua italiana gli passa la fame di scrivere (che non è detto che sia un male per l’umanità, ma per me sicuramente lo è). Sono anche uno al quale piace la magia della contrapposizione maschio femmina, con le sue derivazioni maschio maschio, femmina femmina o quel che è, ognuno per i suoi gusti. Perché è fecondità mentale, curiosità, gioia, vita.
Però quest’immagine serenamente tollerata di posti di blocco pieni di femmine presunte sospette controllate da maschi presunti integerrimi, mi insospettisce.
Anzi, da cittadino dico che non mi piace affatto.

Sarebbe bene dare una sbirciatina a campione negli elenchi delle persone controllate ogni sera nelle nostre città, sempre che questi passaggi di “favorisca i documenti” siano documentati. Perché le nostre forze dell’ordine sono garanti, da me ammirate, di forza gentile, e di ordine indiscusso anche se talvolta la mia fede vacilla. Fugare un sospetto quando si parla di cose così delicate è un sollievo o un miraggio, a seconda del gradi di ottimismo. Comunque fa bene a quell’anima comune e desueta che un tempo chiamavamo società.
Insomma come allora al Teatro di Verdura, oggi scrivo da fan e difendo chi fischia se sul palco si stecca.
Amo troppo le nostre forze dell’ordine per vederle cadere in fallo.
Le amo come Keith Jarrett.

Angeli, demoni e manganelli

Nel caso delle manganellate agli studenti di Pisa e Firenze (ma anche negli altri, perché i manganelli rompono ossa in ogni tempo) oltre agli errori innegabili di chi ha picchiato ragazzi inermi, di chi ha stabilito le regole di ingaggio, di chi ha comandato la carica, di chi la difende e di chi la ispira, ci sono alcuni passaggi chiave per capire che se persino Mattarella si è incazzato la situazione è davvero grave.
Il problema infatti non è il singolo evento, che non è singolo, ma l’ambito. Che poi influenza i modi.

L’ermeneutica del diritto a manifestare ve la liquido in poche righe, giacché il tema è talmente inscalfibile e ampiamente spalmato sulle cronache da stimarlo come assodato (almeno tra noi). È giusto tutelare il diritto di dissenso, ma è anche giusto attenersi alle regole che garantiscono questo diritto: ergo se manifesto per la foca mancina non devo rompere le vetrine dei fochisti destrorsi, non devo uscire dal tracciato concordato con chi tutela l’ordine pubblico, e magari non devo inventare che la foca mancina è vegetariana quando invece quattro pescioni se li mangia.

Il mondo in cui si muovono i giovani oggi è molto diverso da quello in cui ci muovevamo noi, quando comunque le violenze dei poliziotti esistevano già da tempo (i cortei operai degli anni Cinquanta e Sessanta non erano passeggiate turistiche). Oggi i ragazzi vagano in una rarefazione sociale polarizzata in modo grottesco. Pensate alla vecchia distinzione tra destra e sinistra e guardate come appare oggi desueta.
I ragazzi di questi cortei non sono in bilico tra fascismo e comunismo, ma tra guerra e pace, tra il divanismo e l’attivismo, tra l’informazione e le fake news, tra professori illuminati e professori cialtroni, tra chi li gasa di videoclip e chi li rincoglionisce di stories, tra esserci e selfarsi, tra ragione e microchip, tra verità e passaparola.
Di fronte hanno uno Stato che è sempre meno sensibile alle oscillazioni del sentire comune, sempre più blindato nella sua intransigenza gretta e retrograda.
È fin troppo scontato che quando queste due entità vengono a contatto, detonano.
Anche perché dall’altro lato, in quello che un tempo era il palazzo del potere e che oggi è il potere del palazzo, vige l’egemonia della cazzata al servizio della prepotenza e dell’incultura.
Dire, come è stato detto, che si sta sempre e comunque dalla parte delle forze dell’ordine perché rischiano la vita per pochi euro al mese equivale a difendere chiunque guadagni poco e rischi molto a prescindere dalle minchiate che combina: insomma un operaio che sbaglia con la ruspa e abbatte una palazzina pretende che si stia con lui sempre e comunque. Per non dire dell’incommentabile Salvini che si tira fuori dal cilindro frasi decontestualizzate come questa.

Dopo le inaudite violenze del G8 di Genova si cambiarono le regole per evitare al massimo il contatto tra manifestanti e forze dell’ordine proprio per arginare gli abusi e per limitare la violenza di impeto. Oggi la sensazione è che l’impeto sia instillato da chi crede che la violenza sia l’unico modo di guidare una Nazione. È un concetto che ha avuto una sua evoluzione nel ventennio Berlusconiano dove però lì il pifferaio magico faceva ampio uso di fascinazione: insomma c’era della delicatezza nella brutalità dei temi e delle azioni.
Oggi no.

Diciamolo con chiarezza. Nessuna persona di buona creanza può tollerare che si inneggi ad Hamas, una banda di terroristi crudeli, o che si bruci il manichino che raffigura la premier. Siamo al famoso vegetarianesimo della foca mancina di cui sopra: bisogna aver cura di manifestare per una verità, non per una menzogna, anche se si è minorenni. Ed è bene che ovunque si spieghi, senza risparmiarsi, che Hamas è una cosa, il regime di Netanyahu è un’altra, la Palestina un’altra, Israele un’altra ancora.
Leggo appelli di insegnanti in difesa della libertà e della tolleranza. Il problema è che una buona parte rischiano di essere catene di Sant’Antonio al collo incipriato dei social.
La realtà è cruda e inequivoca.
Serve cultura. Serve informazione. Servono libri e dipinti. Servono cantori e scienziati, filosofi e storici. E servono menti da nutrire.

Il mondo migliore lo ha costruito l’arte ed è quello senza polarizzazioni, ma con sfumature, chiaroscuri, infinite scale di grigi. È dall’arte che abbiamo imparato la saggezza di un paradosso cruciale contro tutti gli squadrismi, i totalitarismi, i fascismi: esistono angeli all’inferno e diavoli in paradiso.

1979

C’è un anno nella storia recente che è il baricentro della musica, della cronaca, della politica. Ma anche dei misteri, della tecnologia e del costume. È un anno in cui il mondo cammina con tutta la sua umanità verso un assetto che sarebbe stato quello della fine della guerra fredda e dell’inizio di nuove ere sempre più convulse. In Sicilia la mafia spara e uccide, tra gli altri, un giornalista che ha capito prima degli altri che purtroppo i corleonesi non sono solo gli abitanti di Corleone. Stati Uniti e Cina fanno accordi che stabiliscono una priorità per entrambi in funzione antisovietica, e l’Unione sovietica, sentendosi circondata, pensa bene di invadere l’Afghanistan.
In Italia nasce RaiTre in quota Partito comunista. Le vetrine dei negozi di dischi sono per i Pink Floyd, per Michal Jackson, per i Police, i Clash, gli Ac/Dc, per Bob Marley e i Supertramp. Dalla e De Gregori attraversano l’Italia con un tour dai numeri mai visti prima. Il Supersantos, un pallone che andava a vento, cede il passo al Tango, un pallone più pesante che più semplicemente va a calci. Molte cose accadono in quell’anno illudendoci che i sogni, se proprio non si avverano, spingono il destino un po’ più in là.
E poi nasce Giuseppe, che è figlio di Giovanna e di Pasquale, e fratello di Vincenzo e di Antonella. Giuseppe vivrà quell’anno con l’incoscienza felice di un neonato, un’incoscienza che manterrà per sempre.
Questa è la storia dell’anno 1979. Una storia di canzoni e sangue, di congiure e discoteche, di menzogne e rivelazioni. Ma soprattutto è la storia del piccolo Giuseppe. Che non invecchierà mai.

Dopo l’esperienza di quattro opere inchiesta (“Le parole rubate”, “I traditori”, “Cenere” e “L’altro”) per il Teatro Massimo di Palermo e l’opera di teatro civile “Invertiti” su Pier Paolo Pasolini per Taormina Arte, Gery Palazzotto – con le musiche di Fabio Lannino – sperimenta una nuova forma di narrazione. Stavolta il racconto è un intreccio stretto di parole e note, che non conosce mediazioni. Una forma di confessione pubblica senza finzione scenica, dove ognuno è quello che è.
Un narratore.
Un musicista.
Una cantante.
Un dee-jay.

1979L’anno in cui sognammo di essere quelli che non saremmo mai stati
Real Teatro Santa Cecilia di Palermo – 7 marzo 2024

Scritto e raccontato da Gery Palazzotto
Musicato da Fabio Lannino con Laura Sfilio
Remixato da Mario Caminita

Colpi di spugna e colpi di teatro

Le sentenze, anche quelle della Suprema Corte, si devono rispettare ma si possono criticare”. La frase, con sicurezza lapidaria, la scrive il magistrato Nino Di Matteo nel suo ultimo libro che ha un titolo spoiler, “Il colpo di spugna. Trattativa Stato-mafia: il processo che non si doveva fare”. Se mai si cercassero frasi dipinte su un personaggio, o in questo caso sull’autore (che comunque è anche personaggio), che meglio ne rispecchiano le caratteristiche, di migliori e più calzanti non se potrebbero trovare.
Quindi le sentenze si possono criticare, persino quelle della Cassazione, ce lo dice Di Matteo, tutto a posto. Postilla: magari sono criticabili solo quando non rispecchiano le nostre aspettative fermo restando la nostra facoltà, negli altri casi, di impugnare la spada in difesa della magistratura e soprattutto del suo verbo fatto sentenza.

Nino Di Matteo è un coraggioso magistrato da anni nel mirino delle cosche mafiose. Ma nei suoi confronti si è sviluppato un paradosso tutto italiano. Quello del dibattito abortito per timore reverenziale. I pochi che si azzardano a criticarlo o a cercare di porre domande sul suo umano operato – sul resto vige l’impalpabilità di una sorta di divinità – vengono marchiati a fuoco che manco i vitelli di Yellowstone (la serie): solo che lì è senso di proprietà, qui è senso di infamia.
Insomma Di Matteo può dire quello che vuole perché è coraggioso (che è vero) e sotto scorta (che è vero). E chi osa non essere d’accordo con lui non è uno che dissente normalmente come accade col restante della popolazione mondiale (che è vero), ma uno che delegittima.
Ci ha provato più volte, in un’aula di giustizia, l’avvocato della famiglia Borsellino, Fabio Trizzino, a cercare di mettere in fila le responsabilità di Di Matteo nella gestione del pentito farlocco Scarantino. Il magistrato, insieme con tutti i suoi colleghi di allora, non è stato ritenuto responsabile dell’indecente depistaggio della strage di via D’Amelio. Anzi, lui e tutti gli altri, hanno riscosso promozioni e si sono mossi agevolmente nel sotto vuoto spinto del clima di distrazione collettiva che ha caratterizzato le indagini sull’eccidio e sulla sistematica deviazione dell’inchiesta.

Disse Trizzino: “Il Pm Di Matteo nel 2009 fece una dichiarazione sul collaboratore di giustizia Spatuzza (colui il quale svelo l’impostura di Scarantino, nda) senza alcuna competenza. L’elemento incredibile è che Di Matteo, quell’anno, da pm di Palermo, non aveva alcuna competenza per entrare nei processi Borsellino uno e Borsellino bis, a meno che non temesse qualcosa che potesse compromettere la sua carriera professionale. Bisogna avere il coraggio di dirle queste cose”.

Purtroppo il coraggio non basta. Perché ancora oggi, a distanza di 32 anni dalle stragi, pare che a nessuno importi nulla di quelle menzogne. Menzogne di Stato.
Il cortocircuito non è solo giudiziario, ma mediatico e sociale. La stessa libertà con cui un magistrato critica una sentenza di Cassazione non ha la stessa eco dell’indignazione dei cittadini che reputano scandaloso che nessun magistrato – anzi nessuno in assoluto – abbia mai pagato per lo scempio della verità sulla strage di via D’Amelio. Avete mai visto una manifestazione, un flash mob per stigmatizzare espressamente quel che combinarono la procura di Tinebra e i poliziotti di La Barbera?

Il massimalismo antimafia di cui l’antimafia sta morendo per asfissia ci ha insegnato che, ad esempio, lo stesso movimento delle “Agende Rosse” che ha contestato pubblicamente il sindaco di Palermo Roberto Lagalla per l’appoggio di Cuffaro e Dell’Utri nel corso della campagna elettorale, non ha avuto nulla da dire sulle accuse di Trizzino a Di Matteo. Anche qui non uno slogan, non un corteo sullo specifico: eppure l’agenda rossa da cui prende il nome quel gruppo di cittadini (sul cui impegno tanto di cappello) è proprio al centro del cratere lasciato dal depistaggio in cui i magistrati della procura di Caltanissetta hanno brillato quantomeno per inadeguatezza.
Al contrario, dalle Agende Rosse solidarietà sempre e comunque – che ci sta perché comunque Di Matteo non è che viva spensierato a Disneyland, oddio sindrome da timore reverenziale in agguato –  e addirittura una proposta di cittadinanza onoraria, lassù al Nord.
Il massimalismo è una scelta poco conveniente, perché a forza di spingere sull’acceleratore ci si dimentica dell’utilità dei freni. È lecito contestare chiunque, dicevamo, ma è lecito anche chiedere una lettura uniforme dei fatti.
Se uno manifesta per la scomparsa dell’Agenda Rossa di Paolo Borsellino e poi si dimentica di chi per anni si è fatto intortare di minchiate dal “pentito” meno attendibile dell’universo mondo, qualche problema c’è.
E dobbiamo smetterla di considerare che il problema è chi dice che c’è un problema.