Il signor Fernando

Sernadelo – Águeda
Águeda – Albergaria-a-Nova

Stamattina la tappa era abbastanza leggera quindi me la sono presa comoda. Ero ad Águeda, una cittadina poco nota lungo il Cammino portoghese che non ha monumenti indimenticabili ma che, ho scoperto, infonde la serenità delle piccole cose di buon gusto. Prima di affrontare la mia dose giornaliera di chilometri ho fatto un giro, seguendo la scia di ombrelli colorati che decorano alcune sue vie suggestive e mi sono informato. Ogni estate in questo posto si svolge uno dei più importanti festival artistici del Portogallo, l’AgitÁgeda. La punta di diamante delle manifestazioni è l’Umbrella Sky Project, un’idea che poi è stata copiata da molte città del mondo. 

Era presto per la mia tabella di marcia (parleremo dei miei orari anarchici perché so che è tema caldo tra chi fa la mia stessa esperienza) e ho deciso di investire il mio tempo nella maniera meno consueta per un camminatore seriale e compulsivo. Mi sono seduto su una panchina e ho lanciato un brano a caso della mia playlist “Passi felici” – la trovate sul mio account di Apple Music. Mentre ascoltavo questa canzone mi sono guardato intorno con l’inusuale filtro della semplicità: del resto ero lì, solo, con uno zaino che racchiudeva la mia vita, avevo tutto quello che serve (riserva d’acqua, pancia piena, scarpe ben allacciate, pensieri sguinzagliati). Sul lungofiume in cui mi trovavo c’erano decine di ragazzini, accompagnati da maestre o chessò impiegate comunali, che si divertivano e sudavano nel parco giochi lindo e perfettamente funzionante. Un papà con passeggino faceva giocare il suo cane con una palla, mostrando di amministrare con gioia i suoi affetti a due, quattro zampe/ruote. Intorno tutto abbastanza pulito, ma di un pulito, come dire?, non clamoroso. Che se ci pensate bene, per noi abituati al lerciume di ordinanza è impressionante. Perché è facile lasciarsi incantare dalla pulizia svizzera o altoatesina, per fare due esempi banali, ma trovare una efficienza discreta laddove magari una cicca o qualche bottiglia fa capolino – il mio caso portoghese – è di maggiore effetto. Perché ti fa capire che una città accettabilmente pulita, seppur coi suoi limiti e le sue eccezioni, ti libera dall’illusione della fantascienza.
Mi pare un concetto basilare che tira in ballo la responsabilità comune. Sino a quando non capiremo che le sorti di una comunità non sono soltanto nelle mani dei nostri amministratori, ma soprattutto nelle nostre, nel nostro senso civico, nella quota di responsabilità che dobbiamo brandire non appena varchiamo la soglia di casa, non avremo speranza alcuna.
Ok, fine del pippone. Ogni tanto mi faccio prendere da fremiti che interferiscono con una strisciante andropausa civile (non si può stare in trincea per sempre, le retroguardie in fondo possono essere posti in cui è bello svernare, e non sono in Cammino per caso…).

Comunque, a proposito di prendersela comoda. A fine cammino oggi, a dispetto delle good vibrations della partenza, approdai in una specie di hotel poco al di sotto del rango di topaia: ci ho messo cinque minuti per entrare nell’antro a me assegnato, scacciare una decina di mosche e insetti vari, individuare un pelo sul cuscino, incuriosirmi per una macchia sull’asciugamani (sarà bruciatura di sigaretta o residuo organico?), mandare affanculo il capo-topaia e chiamare un taxi.
“Dove andiamo?”, ha chiesto il signor Fernando, orgoglioso di portare un nome italiano.
“Vada a Nord che tra poco le dico”.
Nel giro di pochi chilometri (come scorrono veloci quando si è su ruote, minchia!) ho trovato al volo un fantastico hotel abbastanza distante dal Cammino: una grave violazione nella mia ortodossia dato che non mi allontano mai – tantopiù in taxi! – dal percorso. Trovato rimedio all’emergenza, trovato rimedio al rimedio dell’emergenza. In due modi.
Il primo. Domani mattina il signor Fernando mi viene a riprendere e mi riallinea all’itinerario.
Il secondo me lo sono dimenticato mentre entravo nella Jacuzzi.

11 – continua

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Figli di una saponetta minore (di Marsiglia)

Coimbra – Sernadelo

Da Rabaçal il Cammino portoghese risente di una certa urbanizzazione, il che inevitabilmente mette a dura prova la resistenza psicologica forgiata nelle lande deserte. Ma è il prezzo da pagare per arrivare alla Senda Litoral cioè a quei quasi duecento chilometri lungo l’oceano che sono (almeno per me) la grande attrattiva di questo Cammino. A proposito di chilometri, sinora ne ho percorsi 275 quindi sono a oltre un terzo del percorso. Ma sappiamo che la distanza è solo uno dei fattori da considerare, ben più importante è il dislivello, o la temperatura che negli ultimi giorni è un problema: ad esempio stamattina ho deciso di sacrificare un po’ della mia scorta d’acqua per rinfrescare la nuca infuocata e non è decisione da prendere alla leggera quando il sole picchia e non c’è fonte a portata di gambe. Comunque al di là dell’ordinaria amministrazione, come lo è il caldo d’estate per chi, invece di starsene in panciolle su una spiaggia, scarpina per mulattiere che manco i muli cagano di striscio, l’unico problema fisico è al momento quello dello sfregamento degli spallacci dello zaino che mi dà fastidio alle spalle (alla faccia della vaselina). 

Vabbè, sin qui la cronaca.

Andiamo al noto settore cazzi miei che tanto vi entusiasma. Perché, va detto, noi raccontatori e\o giornalisti ci illudiamo di imbastire storie di fantasia, oppure ci illudiamo di catturarvi con le nostre cronache fedeli ai fatti (rigorosamente separati dalle opinioni), ma alla fine quel che fa groove è l’inciampo nel tinello, il capello sul cuscino, la cena sbagliata. Non ci vuole arte divinatoria né grande visione strategica: basta leggere i commenti.
Quindi il sapone di Marsiglia
Con la dotazione di abbigliamento che mi ritrovo, la mia stessa esistenza in vita odorosamente civile e sociale dipende da un pezzo di sapone col quale ogni giorno lavo le mie cose. Ogni santo giorno, che sia stanco o sfinito, la prima cosa che faccio appena conquistata la sicurezza della tappa (cioè una stanza da letto con bagno annesso, anzi viceversa) è fare il bucato. Calzini, maglietta, mutande, bandana. Se tempo e spazio lo consentono, i pantaloncini (che sono pesanti e seccanti da trattare). 
E qui scatta il piano strategico.
Siccome il vero problema è l’asciugatura devo identificare un ambiente idoneo per raggiungere il miglior risultato nel minor tempo. Minchia, avete mai considerato che un paio di calzini da running asciuga più difficilmente di una maglietta? E che la strizzatura è una disciplina tra lo yoga e l’origami? 
Quindi cerco di creare il microclima ideale isolando la biancheria in bagno in modo che l’aria condizionata della quale mi drogo non infici la stagionatura degli indumenti (perché già dopo una settimana le magliette non si asciugano, stagionano tipo forma di Grana). Risultato 40 gradi in bagno, 20 in stanza da letto, roba che i meteorologi potrebbero studiare per capire gli squilibri ambientali in Italia e nel mondo. 

10 – continua

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Una Macarena alle spalle

RabaçalCoimbra

A Coimbra sono finito in uno di quei mega hotel “tuttocompreso” dove pascolano migliaia di turisti tra piscina, buffet, giochi aperitivo, macarene che arrivano a tradimento come una coltellata alle spalle, bambini urlanti, genitori depressi, salvagenti a forma di cigno e panze a forma di tamburo.
Ci sta. Dopo giorni di disagio surreale, quindi comunque romanzeschi, il ritorno a un briciolo di normalità ci sta. E la normalità è anche il gioco aperitivo. Il pericolo in questi casi è costituito da uno dei virus più insidiosi del nostro secolo, quello dell’entusiasmo immotivato.
Si tratta di quel sentimento che scocca come la macarena (coltellata): quando meno te lo aspetti. Tipo, uno grida “viva la pastaaa!” e tutti appresso “viva la pastaaa!”. Un altro prega a voce alta (sta accadendo adesso) e molti altri si accodano tipo coro : “We are the world”. E’ un po’ l’aria che si respira in molti luoghi di lavoro dove uno, spesso il meno qualificato, spaccia una cazzata, che gli è venuta così in virtù del suo mestiere di “abbastanza cretino”, per un’idea, e tutti intorno (anche i meno cretini e spesso quelli che non lo sono affatto) applaudono: bravissimo! Non è sindrome di Fantozzi, quella era arte pura. Questa è ordinarietà fatta regola. E l’entusiasmo immotivato è il motore di gran parte della vita sociale che conosciamo. Coi risultati che conosciamo.
Se ci pensate è il segreto glorioso del gioco aperitivo, l’unica attività in cui ci si finge cretini con l’orgoglio di esserlo davvero.

Io la macarena non l’ho ballata, ma ci ho sorriso su (sorriso, non riso). Perché l’entusiasmo immotivato ha una storia che va presa con le pinze, dal momento che non siamo tutti Elkann o De Gregorio: i lumpen hanno diritto al loro spazio vitale, che spesso invade quello degli altri è vero, ma non è usando lo sdegno che ci si differenzia. In molti casi è molto utile osservare, brandire la fantasia, giocare (giocare sempre), galleggiare. Scrutare il Carosello che ti gira intorno e pensare che se non ci fosse, tu non saresti quello che sei: non è questione di sentirsi migliori (mai), ma di rivendicarsi diversi. Perché magari sei uno che il gioco aperitivo l’ha fatto molte volte in gioventù, anche nel ruolo di chi lo governa (!!!). Uno che non disdegna vacanze “normali”, ma che fin quando le forze glielo consentiranno imboccherà un sentiero scosceso. Uno che ci ha provato a imbastire una vita familiare almeno in senso numerico (1+1=?) ma poi ha smesso perché in certi casi la matematica non è solo opinione ma magari è un sentimento.
Insomma oggi volevo parlarvi di tutt’altro, as usual, ma finii per rimestare nei cazzi miei. 
Domani, se sopravvivo al caldo e ai saliscendi, magari mi rifaccio. Ho un pezzo di sapone di Marsiglia di cui vorrei dirvi… 

9 – continua

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A dieci euro di distanza

Tomar – Alvaiàzere
Alvaiàzere – Rabaçal

Scrivo da un paesino di cui non conosco il nome. Mi ci ha portato un tassista pressoché ottantenne, che parla solo portoghese e che sospetto sia anche un po’ sordo. La sordità l’ho presunta dai dialoghi per telefono in viva voce con amici o parenti o colleghi che urlavano per ottenere risposta mentre lui infilava una curva dopo l’altra. Quando mi è venuto a prendere nell’eremo che mi ospita stasera, gli ho spiegato a gesti che volevo mangiare e lui sorridendo ha ingranato la marcia. Sempre sorridendo mi ha depositato in un ristorante a 10 euro di distanza, nel quale sto scrivendo queste note tra i fumi di carne arrostita e quelli dell’alcol dato che il vino locale più leggero ha come gradazione 14,5.

Ieri avevo cenato in un loculo di Alvaiàzere gestito dal tale che era anche il tenutario della stamberga che mi ospitava. Anche lì i fumi della carne mi avevano stordito. Ecco perché avevo deciso la sorte di una delle tre magliette “da sera”, cioè quelle non “da camminata”: avrei dovuto lavarla perché indossandola mi sentivo uno stinco di maiale, ma avevo scelto la soluzione che mi dava più serenità, buttarla. 
La notte era stata complicata dato che il tenutario aveva deciso di far parcheggiare un camion frigo proprio sotto la mia stanza, in corrispondenza di una presa di corrente per alimentare l’impianto di refrigerazione. Risultato: un ronzio vibrante basso implacabile che si attacca direttamente al sistema nervoso, tipo presa usb. Per otto ore consecutive.
Per la prima colazione, il tenutario, che non fornisce questi inutili servizi, mi aveva liquidato nel suo portoghese più svogliato con una frase tipo “cento metri e trovi un bar”. Il bar ovviamente era chiuso e Alvaiàzere non è Londra quindi se trovi un bar chiuso e sei a piedi alle 8 di mattina, e ti aspettano 32 chilometri, e hai dormito col camion come comodino, cominci ad allarmarti. Se il buongiorno si vede dal mattino, che il mattino abbia almeno modo di esserci, e che cazzo!
La fortuna mi è venuta incontro sotto forma di signora a passeggio col cane che vedendomi rincoglionito, smarrito, coi passi stentati, faccia rinsecchita tipo salma di tre giorni, ha deliberatamente scelto di darmi aiuto. Un atto di carità. C’è un altro bar a un chilometro di distanza, mi ha rivelato come un quarto segreto di Fatima (che tra l’altro è qua dietro).

Ora, nel ristorante della località sconosciuta, approfittando della cortina di fumo che si è diradata, perché stanno ricaricando le teglie, mi accorgo che c’è pure una festa di compleanno di qualcuno che fa 49 anni (così testimoniano i palloncini gonfiati a mia insaputa nella nebbia). Bevo un altro bicchiere di questo “tinto” ammazzacristiani e confido nella fortuna (sulla madonna di Fatima meglio di no, che l’ho evitata nel mio Cammino e magari la cosa rappresenta una pregiudiziale): ho concordato col tassista che a una certa ora mi avrebbe dovuto prelevare da questo posto nel nulla per riportarmi al mio posto nel nulla, un mulino riadattato ad abitazione in un non luogo che persino Google Map si rifiuta di indicare. “Concordato” è una mia licenza descrittiva. Io ho mimato “qui”, “dopo”, “alle 9”, “poi dormire”. Lui ha sorriso e se n’è andato. Secondo me crede che gli ho dato la buonanotte.

P.S.
E’ appena arrivato il festeggiato, il neo quarantanovenne, ed è scoppiato un “tanti auguri a te” in portoghese che credo sia meno sbrigativo del nostro. Si capisce che era una sorpresa. Lui si è commosso scoprendo che tutto il ristorante era lì per lui. L’unico estraneo ero io.

P.P.S.
La foto è quella del posto nel nulla nel quale trascorro la notte. Perché anche il nulla ha il suo fascino.

8 – continua

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Attenzione, caduta alibi

Golegã – Tomar

Se è vero che della prima impressione non ci si fida è anche vero che, se fosse inchiostro, la prima impressione sarebbe indelebile. Ci pensavo scarpinando in questi giorni di estrema e beata solitudine (tra ieri e oggi ho incrociato solo due persone e per meno di cinque minuti, il tempo di allungare il passo e blindarmi nella mia teca di passi e respiri). 
Essendo un diffidente per natura e non riuscendo a liberarmi dalla trappola dei pregiudizi, tratto con molta attenzione la prima impressione. Anche per il suo carattere di unicità: se è prima ci sarà un motivo.
Il bello dei Cammini in solitaria è che ci si può concedere la più anarchica delle libertà, quella di pensare come e quanto cazzo ti pare. Tipo, quando sei incasinato in città, magari al lavoro ti prende una fregola psicologica o ti viene in mente una cosa che vorresti disossare, esaminare sino al dna, smontare e rimontare. Ma dici: ok, appena ho tempo ci penso. E invece non ci pensi, e sai che neanche se scaverai il tempo nella roccia avrai voglia di affrontare realmente quella cosa.

Nel Cammino cadono gli alibi. E vi assicuro che non è una seduta di analisi o una sessione di compiti per le vacanze, ma una sensazione di libertà che non ti assolve, non ti premia, ma ti dà quel minimo di fiducia nella tua fallacia. Ti dice che se agli errori non sempre si può riparare, almeno si può metterli a frutto e cercare di farli diventare occasioni (togliendo l’iniziativa ai Baci Perugina). Che il pensiero leggero con selfie vista aperitivo non funziona come antidoto a pensieri che non sei riuscito a dipanare manco con l’aperitivo. Che non sempre la prima impressione è il trailer del film che ci apprestiamo a vedere, ma che comunque il trailer va visto (e soprattutto va realizzato bene).
Insomma negli ennesimi 30 chilometri ventosi tra Golega e Tomar ho messo in fila alcune prime impressioni basilari sul Portogallo e i portoghesi. Le scrivo in poche righe perché era il concetto che mi premeva raccontare non il succo delle elucubrazioni. Che però elenco per dar prova che ho fatto i compiti per le vacanze.

I portoghesi sono ex potenti che hanno mantenuto la dignità e la consapevolezza di una nazione che è tesoro di cultura diffusa, condivisa. Credo che siano un caso pressoché unico.
Non gradiscono che gli si parli spagnolo. Meglio l’inglese o addirittura l’italiano.
Hanno l’orgoglio di non mettere mai in tavola sale e pepe perché ritengono che il loro modo di condire i cibi sia quello giusto, l’unico.
Fanno un vino ottimo a prezzi onesti. Noi siciliani abbiamo solo da imparare sul rapporto qualità-prezzo. E non solo sul vino. 

7 – continua

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Vaselina e pannocchie

Santarém – Golegã

Ho sempre diffidato delle scorciatoie. Però stamattina, nel rincoglionimento tra caldo e fatica, per una volta ci ho fatto un pensierino. La mappa mi suggeriva un itinerario che mi avrebbe fatto risparmiare un chilometro. Sì lo so, dite: e che sarà mai un chilometro? Se lo dite è perché siete sdraiati al sole o spalmati su un letto fresco, perché se foste al posto mio, coi chilometri che pesano sulle mie spalle più delle tasse che ho da rateizzare nei prossimi mesi, direste: minchia, un chilometro!
Il problema è che mi trovavo immerso in una sterminata piantagione di mais e che già sul sentiero tracciato mi muovevo tipo Jack Nicholson nel labirinto di Shining. Solo che invece del ghiaccio c’era il granoturco. Insomma la notizia non è che ho mancato clamorosamente il sentierino da furbo, ma che per cercarlo ci ho messo un altro chilometro, tra avanti, indietro, prova quel viottolo, aggira quella parete di pannocchie, entra nel fango, esci dal fango (il granturco ha bisogno di acqua, minchia!), cerca qualcuno che ti dia un parere, constata che non c’è anima viva nel giro di dieci chilometri (se il mais soffrisse di solitudine ci sarebbero tutti gli estremi per una carestia). Ovviamente la scorciatoia non si trovò mai.

Di occasioni mancate è fatta la vita, lo sappiamo. Ma negli anni ho imparato che è fatta soprattutto di luoghi cannati. Una volta, nel Cammino del Nord, mancai in toto un paese nel quale dovevo dormire. Non lo trovai mai e l’argomento diventò negli anni una specie di meme con la mia agente di viaggio, quella alla quale affido tutte le mie fisime verso aprile quando scelgo un posto in cui andare a spargere le mie gocce di sudore.
E a proposito di sudore, tenendo la barra della narrazione a dritta per evitare dettagli maleodoranti, mi incarico dell’elogio di una cosa che è solitamente relegata alle mere questioni farmaceutiche o a quelle più pungenti dell’ironia.
La Vaselina.
I miei Cammini (e non solo i miei) sono basati su tre certezze (tipo le tasse, la morte e il silenzio di Badalamenti): le scarpe, lo zaino e la Vaselina. Di scarpe e zaino vi ho detto. Di Vaselina vi confesso che ho qualche remora a parlarne. Perché nessuno ha gioia a oliarsi se non è un bodybuilder o una melanzana, ma forte è la tentazione di spiegarne i vantaggi. Evitare lo sfregamento è, del resto, anche una buona regola di vita sociale.
Il problema semmai è poi lavarla via tutta quella Vaselina, che attira polvere, inguaina la pelle, entra nei vestiti e ti rende un animale sguisciante che cerca solo il suo destino: che sia farina e olio bollente o scrub e bagnoschiuma è un dettaglio ininfluente nella infinita narrazione dei pori dell’universo.

6 – continua

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Equilibrati ed equilibristi

Azambuja – Santarém

Non mi ha mai acceso l’idea di inseguire un equilibrio. Credo anzi che le migliori idee, le migliori invenzioni nascano dal disequilibrio, più precisamente dal flusso tra due pesi, unità diversi. E’ un concetto tipicamente fisico, se volete. Ma ha una sua rispettabile opinabilità. Conosco molte persone che si sentono a disagio fuori dalla loro bolla che tendono a mantenere integra e lontana da possibili disequilibri.
Inutile ribadire (o forse no) che non parliamo di squilibri che hanno a che fare con la salute mentale, con la nostra idea di giustizia e con le corrette dinamiche sociali.
Ma è utile dire – visto che questo è il mio diario – che l’unica occasione in cui sovverto questa visione dell’equilibrio è quando mi imbarco in Cammini o spedizioni faticose. In quei frangenti l’equilibrio lo cerco, lo bramo, lo sogno nel vero senso della parola (qualche notte fa senza vergogna mi sono svegliato pensando a una tappa impegnativa e a come affrontarla al meglio).

Prendiamo la fatica. La fatica è di tutti, non solo degli sportivi o dei forsennati. La fatica è il miglior arnese con cui fare le cose, quindi non fate spallucce se siete divanisti con laurea ad honorem in sollevamento telecomando. Da ex maratoneta ho sempre pensato a come dominarla, la fatica, a come superare il limite. Anche in montagna da giovane, giocando con l’effetto dell’altitudine, mi sono drogato di emozioni che erano fiammate, strappi di adrenalina. 
Poi da camminatore tutto è cambiato. La fatica non si domina più, ma si previene. Si gioca di tattica, si tengono bassi i battiti perché l’unico modo per raggiungere il risultato è cimentarsi in piccole somme. Questo più questo più quell’altro, a poco a poco, mi condurrà all’obiettivo. Senza giochi di artificio, senza picchi ostentati. La prevenzione della fatica è la più importante palestra di equilibrio che abbia mai frequentato. E metteteci tutte le metafore di cui siete capaci, ognuno si merita quella che riesce a partorire.
E ancora il vento. Il vento in Portogallo per quelli come me è una delizia senza croce. Ci si muove con 30 gradi con un vento fisso (al momento, ma anche no) di 25-30 km all’ora. Vento da Nord, quindi contrario al mio cammino. Il che comporta un sottile esercizio di equilibrio psicologico tra godimento per l’effetto refrigerante e sofferenza per la disidratazione, poiché col vento il sudore evapora prima con quel che ne consegue. 

Oggi, gambe stanche e spalle doloranti, mi piace pensare che l’unico equilibrio che vale la pena di cercare, quando non si è più giovani e non si è ancora decrepiti, è quello tra i propri desideri e il proprio orgoglio. 
E intanto mettere un passo davanti all’altro. 

P.S.
Comunque domani vi parlo di Vaselina… 

5 – continua

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Il bagno più piccolo del mondo

Vila Franca de Xira – Azambuja

Faccio parte di quelli che pensano che i viaggi sono anche disagi. Non che me li vada a cercare, i disagi, ma è vero che ne tollero una certa quantità se essi sono in qualche modo parte di un contesto inevitabilmente bello e interessante. Del resto un camminatore che macina centinaia e centinaia di chilometri con lo zaino in spalla non è proprio il turista da resort maldiviano. Per dire, io alle Maldive ci sono stato, mi sono grattato la panza sotto il sole, bello bellissimo: poi basta però.
E’ una questione di soffi vitali, come nella musica o nell’abbigliamento. Ci sono periodi (di cui magari poi ti vergogni) in cui ti strozzi di hard rock, ti inguaini in jeans stretti o magari larghissimi (io ebbi il periodo “arancione” di cui credo di avervi parlato) e poi un giorno ti svegli tardo new wave, minimal black, nudista part time e tatuato pure nell’orecchio medio.
Insomma viaggi e disagi possono convivere a patto che ci sia una partitura che governi l’armonia della vacanza: rinuncio a una comodità se quella rinuncia è funzionale rispetto a una mia soddisfazione. E le soddisfazioni vanno coltivate con cura perversa altrimenti sono godimenti qualunque, sbadigli a cinque stelle, paranoie extralusso, rassegnazione da bordo piscina di resort esclusivo che accetta solo clienti con conto alle Cayman, ma di genealogia sumerica e per giunta mancini da almeno sette generazioni.
La buonanima di mio padre questa cosa proprio non la mandava giù e, come vi raccontai quando feci il Cammino del Nord, mi chiamava affettuosamente “il cretino”: proprio perché non capiva come un cristiano che lavora duro per undici mesi all’anno potesse decidere di fare le sue vacanze a scarpinare da solo invece di fare altro, e in quell’ “altro” c’era tutta la sua curiosità di giramondo comodista e buongustaio.

Tutta ‘sta manfrina per spiegarvi la foto che vedete sopra. Sono ad Azambuja, ridente cittadina (ina ina) a me nota per essere la terza tappa del Cammino portoghese. E sono qui solo per raccontarvi dell’esistenza del bagno più piccolo del mondo a me conosciuto.
Il lavandino, lo vedete, è poco più grande della mia mano. Quando ci si lava i denti il dilemma è tra ingoiare il dentifricio (menta sana in corpore sano) o sputarlo direttamente per terra. Sciacquarsi la faccia equivale a lavarsi i piedi (per fortuna la gravità rende alquanto impossibile il viceversa). Non dico del wc, per l’uso del quale non è contemplata la posizione eretta: o ci si incastra contorcendosi tipo gangbang di Rocco Siffredi o la si fa direttamente contro la finestra, che ovviamente è minuscola e difficile da centrare nel momento del bisogno, quindi resta il muro che è anch’esso piccolo quindi alla fine te la fai sui piedi (preferibilmente prima di lavarti la faccia). Ma è nella doccia che il vero combattente di viaggi&disagi, l’alfiere del turismo alternativo o, a seconda dei punti di vista, il cretino dà sfoggio della sua seducente perseveranza.
Non sono uno troppo voluminoso, però nel mio metro e settantotto per ottanta chili ho bisogno di un minimo spazio per il più elementare dei gesti: insaponarsi. E insaponarsi durante un Cammino è un investimento sul futuro dato che la quantità di sporcizia che si abbarbica alle carni in quei maledetti chilometri vorrà i suoi mesi per essere smaltita completamente: Bellolampo al confronto è una puzzetta al cinema.
Ve lo dico. La vergogna di muoversi con difficoltà sotto la doccia è l’ultima spiaggia per chi ha un minimo di autostima. Oggi, tra contorsioni e sbucciature di gomiti, credo di averla superata, quella benedetta spiaggia.
Alla luce di tutto ciò i 34 chilometri sotto il sole di domani (di cui venti senza fonti di acqua) sono una partita di bocce in un atollo tropicale dopo il gioco aperitivo.
Vi ho voluto bene.

4 – continua

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In passerella (e la moda non c’entra)

Alpriate – Vila Franca De Xira

In due giorni ho capito due cose (una cosa al giorno, non male!). La prima è che i portoghesi sono i maestri delle passerelle, le installano dovunque: nelle riserve, in riva a fiumi e mare, persino in mezzo alle aree industriali abbandonate. La seconda è che arrostiscono sempre e comunque, con qualunque temperatura, dappertutto. Per farvi capire, come noi friggiamo loro arrostiscono.  
Cugina evoluta della passerella, nella accezione portoghese, è la pista ciclabile. Che qui non ha la valenza sociale che ha dalle nostre parti: ciclabile, uguale inutili biciclette, spazio prezioso tolto alle auto; esempio da tirare in ballo nelle discussioni oziose, le ciclabili di via Libertà a Palermo (istituite dall’ex sindaco Cammarata) che si schiantavano contro alberi, edicole e trincee di eterni lavori in corso. E non ha neanche l’intransigenza che ha in paesi tipo Svezia e Danimarca dove se rallenti o ti fermi per prendere fiato rischi un tamponamento e una cazziata (infinitamente meglio il tamponamento). 

In Portogallo la ciclabile e la passerella sono il liberi tutti dalle paranoie. Vai come vuoi, al passo che vuoi, nessuno ti caga di striscio, ci si muove ognuno coi cazzi suoi senza un questuante di pensieri altrui, un’ostruzione abusiva, un’invasione di campo fisica o allegorica.
Oggi mi sono sciroppato chilometri di passerelle e ciclabili lungo questo infinito fiume Tejo, che noi chiamiamo Tago manco fosse un biscotto, e non ho mai avuto un’interferenza. Sapete quando siete immersi nei vostri pensieri, con la musica giusta nelle orecchie, vicini al famoso momento perfetto? Ecco, questo Cammino che è lungo ma non strappacarni vi dà la scenografia adeguata.
Mai invadente, un sottofondo che si fa sinfonia da solo.

Non sono un urbanista né un esperto di politiche sociali. Ma sono in grado di capire che un territorio è davvero ben gestito quando non deborda nell’effettismo. Quando è la sua ordinarietà civile e orografica ad accompagnare il turista nel suo essere libero di assemblare e assimilare scenari, idiomi, odori, senza che prevalga un senso civico imposto: la festa comandata, l’evento stagionale (che prelude al buio), la masculiata senza preavviso ovvero il coitus interruptus di una pseudo-politica culturale.
Per tutto questo non serve una bacchetta magica, servono curiosità e costanza. 
I portoghesi sono più indolenti di noi, se ne fottono più di noi (poi, per carità, ti fanno l’insalata con le patatine fritte). Però dimostrano di avere rispetto del loro territorio e soprattuto di chi lo attraversa. E per un popolo che fu di conquistatori non è poco. 

3 – continua

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Il dolore e il piacere

Lisbona – Alpriate

Vi ho già spiegato perché nei Cammini le misure non contano. Ma è un concetto talmente importante che ve lo ripropongo con un paio di esempi che hanno a che fare col Cammino portoghese. Oggi la mia prima tappa era ufficialmente di 22 chilometri e mezzo: la misurazione ufficiale si basa perlopiù sulle distanze tra gli albergue, cioè tra gli ostelli dei pellegrini (che io non frequento). Siccome alloggio in B&B o hotel, non perché sia ricco ma perché detesto la coltura intensiva di ascelle sudate e calzini fetenti, le mie misurazioni sono diverse, spesso molto diverse. Oggi, per dirne una, il luogo in cui mi trovo è a tre chilometri dalla via che devo seguire, ergo tra oggi e domani dovrò percorrere sei chilometri in più.
Ed eccoci al secondo esempio.
Quanto pesano sei chilometri? Un camminatore mediamente allenato e senza zaino può muoversi in pianura alla velocità di 5, 5 chilometri e mezzo all’ora. Che con lo zaino diventano automaticamente 4, 4 e mezzo. Se non ci si mette una salita. E poi dipende se la salita è sotto il sole. Insomma i chilometri, come dicevo, non si contano, ma si pesano. Quei sei chilometri richiederanno almeno un’ora e mezza in più di cammino. E parliamo solo della prima tappa.
Ok, prometto di non rompervi più le scatole con questi onanismi numerici ma, scusate la metafora – ho già una fame pazzesca e qui siamo un’ora indietro –  è importante capire come funziona la lievitazione prima di parlare di pane. 

Fare da soli.
Anche il semplice allinearsi dei passi su una trazzera ,o la ricerca pacatamente disperata di una fonte d’acqua quando sei già in fase miraggio, rimanda a una modalità che ci appartiene sempre meno. E che proprio per questo andrebbe recuperata con orgoglio.
Fare da soli.
Seguire una mappa cartacea senza geolocalizzazione. Scrutare il cielo senza consultare la app meteo (oggi una persona mi ha scritto “che tempo fa lì?” E io ho risposto con la schermata del cellulare che lei stessa avrebbe potuto consultare da casa sua). Ascoltare il proprio corpo che macina passi, sussulta, innegabilmente soffre, ma ascoltare al contempo anche la propria mente che ride, felice e incosciente. Ci dimentichiamo di godere delle cose che spesso fanno male e bene al tempo stesso, ed è un peccato: fare da soli diluisce il dolore nel piacere e non è masochismo che, al contrario è dipendenza estrema dall’altro. 
Fare da soli qui nel sentiero sterrato lungo il rio Trancão è annusare l’aria stagnante e dolciastra e non catalogarla frettolosamente come maleodorante: contestualizzare è una regola del sapere,  decontestualizzare può esserlo del piacere, ma questa è un’altra storia. 

Insomma Lisbona è alle spalle (nella foto lo è davvero) e ora lo posso dire, non è vero che è una città malinconica. La malinconia non ha a che fare coi luoghi geografici, ma con gli esseri umani che li popolano. Il Fado no, quello è davvero strappa-attributi. Ma non mi pare il caso di aprire un dibattito. 

2 – continua.

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