Leggi mancine

E’ un Paese strano quello in cui si grida allo scandalo se una giunta di sinistra dichiara guerra ai lavavetri. Ci pensavo stamattina leggendo i giornali. E in particolare mi soffermavo sull’inconsistente concetto di sinistra (e, per contrappasso, di destra). “Potevi pensare a qualcosa di meglio”, direte voi. Vero è. Ma lasciatemi spiegare, così mi disinnesco.
Una giunta di sinistra deve lodare l’illegalità o far finta che certi fenomeni non esistano? Mi pare questa la domanda cruciale.
Nel nostro Paese, il rigore e la tolleranza zero sono sinonimi di destra. Altrove sono chiare linee politiche, anche di destra.
Nel nostro Paese, le fantasie più impopolari e il garantismo più ballerino sono sulle bandiere di una sinistra finto-buonista. Altrove sono semplici errori di grammatica politica, anche di sinistra.
Più che giudicare un provvedimento legislativo, una delibera, una circolare, dalla casacca partitica di chi firma, sarebbe utile leggere quel provvedimento, quella delibera, quella circolare e scegliere se applaudire o se fischiare, pur obbedendo.
Restiamo distanti dalle regole mentre ci attraggono i moralismi pelosi, le scaramucce da campanile, le strategie condominiali. Siamo campioni di equilibrismo logico, vogliamo sempre ragione e se non ne troviamo una disponibile ce la costruiamo. Anche abusivamente.
Se una giunta dichiara guerra ai lavavetri, voglio sapere come e perché è arrivata a tanto. Voglio sapere cosa accade giorno per giorno e se la situazione migliora. Voglio sapere chi vigila per evitare abusi e chi garantisce sulla effettiva applicazione della legge. Voglio illudermi di non lasciarmi influenzare se chi ha firmato l’ordinanza è mancino oppure no.

Il fucile di Bossi

Da raffinata creatura politica quale è, Umberto Bossi ha tratteggiato ieri, nel cuore della Padania, le sue idee in materia fiscale. Con la moderazione che lo ha reso celebre, ha invocato “i fucili contro le tasse”. Con la competenza storica che ne ha fatto un pensatore simbolo dei nostri tempi, ha bollato Cavour e Garibaldi come “stronzi”.
Chi ancora manifestava residue preoccupazioni sul suo stato di salute ha potuto tirare un peto di sollievo: il Senatur si è ormai ripreso alla grande, il suo celebre apparato genitale è tornato a illuminarlo in idee dirompenti. Resta soltanto la voce arrochita, meno potente di quella che ce lo fece amare quando parlò di marce armate su Roma, di proiettili contro i giudici monelli, o quando da ministro pensò di risolvere il problema dell’immigrazione clandestina con i cannoni.
Bentornato nel nobile agone politico, senatore Umberto Bossi, padano tra i padani, leader delle parole fuori dalle dentiere, fustigatore di fondoschiena sudisti. Vada sino in fondo, adesso. In fondo a destra.

Perdonatemi

La signora Ardant ha chiesto scusa per la sua corbelleria sulle Br e ha riscosso un perdono istantaneo, quasi liberatorio. In un paio di giorni, la celebre attrice ha collezionato migliaia tra articoli, commenti, servizi televisivi e radiofonici, post di blog. Tutto per un’accozzaglia di sputacchi deliranti, condensabili – per mio pudore – nell’elogio di Renato Curcio.
Ieri, con la benedizione del Tg1, ha sussurrato: “Mi sono sbagliata, pardon”. Applausi.
L’esercizio del perdono è prerogativa della gente di buona creanza, al di là delle questioni etiche, dei convincimenti religiosi, della struttura gastro-esofagea di ciascuno di noi. I tempi di questo esercizio mi sembrano fondamentali. Se uno porge l’altra guancia mentre sta ancora assaggiando il primo cazzotto, non mi sembra un buon cristiano, ma quantomeno uno stupido. Con Fanny Ardant ho registrato una specie di martirio alla rovescia, dove i più contriti erano coloro che non vedevano l’ora di assolvere, dichiarare ottimisticamente, spalmare di miele il pane rancido servito dalla signora in questione. Il governatore del Veneto Galan ha battuto tutti sul tempo, salvando dall’imbarazzo qualche trombone del Festival di Venezia (la Ardant è invitata) e addirittura elogiando l’attrice per avere usato “una parola che è la parte più democratica e civile del nostro Paese: perdonatemi”. E questa mi sembra davvero una solenne minchiata.
Perdonatemi.

I proiettili di Fanny Ardant

Ci deve essere una forte componente di masochismo in Fanny Ardant, l’attrice francese che ha tracimato su un settimanale dichiarazioni tipo: «Ho sempre considerato il fenomeno Brigate rosse molto coinvolgente e passionale »; «Per me Renato Curcio è un eroe».
Fatte salve la sua capacità di intendere e di volere e un certo vezzo (geriatrico) di apparire gioiosamente sopra le righe, ci resta solo da discutere sulla volontà autolesionista della signora. Per non scivolare dal crinale che divide i giudizi sommari dalla volgarità, proviamo a schematizzare.
1) Lodare una banda di assassini fa male alla memoria, quindi a ciascuno di noi. Persino a lei.
2) Indicare il periodo degli Anni di piombo come un’epoca di vera democrazia (“un’epoca in cui si sceglieva un campo, c’era chi prendeva fuoco e decideva che poteva ammazzare e farsi ammazzare”) equivale a dire che i proiettili sono in realtà idee e che le pistole sono cervelli. La mente della signora comunque è stata caricata a salve.
3) Siamo un Paese di vittime, innocenti, ignote, povere e dimenticate, al pari di una nazione sudamericana. Quando si parla di morti, dalle nostre parti, si parla di qualcosa che non può essere pesata e che non è circoscrivibile in alcun elenco. Alzarsi una mattina col deliberato intento di inventarsi una lista dove buoni e cattivi si confondono significa esporre la schiena alla frusta della ragione.
4) Quel sentimento tutto francese di leggere la storia degli altri con sanguigna passione non può in alcun modo rappresentare un’attenuante per l’Ardant. Gli eroi, anche negativi, sono tali se lasciano un segno. Gli orfani e le vedove non sono segni, ma ferite orribili. Anche se la signora preferisce includerli nella categoria degli effetti collaterali.
Masochismo, non altro. L’attrice francese, che ben conosce l’Italia per lavoro e sentimento, ha scelto di farsi male volontariamente. Per pubblicità, misticismo della cazzata, poesia del black-out ideologico. Chissà se ha goduto.

Dall’altro tutti gli altri

Silvio Berlusconi ha registrato, per mano della sua ultima creatura bionica Michela Brambilla, il Partito della Libertà. Lo ha fatto (fare) per tutelarsi, per evitare che “qualcuno si impadronisse di questo nome”.
Il fatto che il leader dal ciondolo prezioso (quello che porta al collo) si preoccupi tanto del brevetto di un simbolo così originale la dice lunga sulla sua concezione politica. Chi altri potrebbe sventolare una bandiera così universale come quella che porta i colori e i significati del Par-ti-to-del-la-li-ber-tà? Solo lui, unico guardiano del tempio della democrazia, incarnazione del giudice sommo che malsopporta i giudici ordinari. Il PdL è il baluardo contro tutti gli illiberali comunisti, i cultori dell’odio legislativo, gli industrialucoli che pagano tutte le tasse, le serpi omosessuali, i fanatici della legge uguale per tutti. La Brambilla è la figura ideale per promuovere la storica transizione che sommergerà in un oceano di cocktail quella del misero Partito Democratico: una donna milanesissima, algidamente carina, telegenica, dall’eloquio basilare ma confortevole, orgogliosamente elegante, magra quanto basta per farne un simbolo che non sia il bastone della bandiera.
Con il PdL si naviga dritti verso un bipolarismo blindato: da un lato chi ha comprato il brevetto della libertà (un tempo erano le libertà tutte, oggi forse qualcuna resterà di pubblica fruizione), dall’altro tutti gli altri.

Colazione tipica

Prima colazione in un piccolo albergo siciliano. Un posto tipico, tra ulivi e antiche pietre. Cornetto lombardo, yogurt trentino, marmellata piemontese, zucchero emiliano, caffé friulano, acqua laziale, latte di provenienza incerta, kiwi cileno, succo d’arancia francese.
Se nel nome della globalizzazione devo ingurgitare prodotti industriali provenienti da luoghi distanti migliaia di chilometri, mi professo reazionario, negazionista, euroscettico, talebano e quant’altro.
Il discorso è complesso e prometto che, insieme, ci torneremo su.
Intanto vorrei lanciare due campagne: una per l’archeologia dei sapori, l’altra per la decapitazione della parola multinazionale.

Il tempo dei Mele

In questi giorni di vacanza ho letto pochissimi giornali, per legittima difesa. Mi è però rimasta impressa una notizia: il perdono della moglie di Cosimo Mele e la reazione di plauso unanime delle parlamentari tutte. Dal momento che la vicenda è stantia, mi sembra utile spendere qualche riga per inquadrare bene i personaggi: Cosimo Mele è l’onorevole dell’Udc (ora diluitosi nel gruppo misto) che si intratteneva con due ragazze prezzolate mentre tirava cocaina; la moglie del suddetto, mentre il suo consorte se la spassava tra cosce aperte e malcelate rimembranze di case chiuse, si prendeva la briga di partorire una pargoletta; le parlamentari interpellate dai giornali fanno parte di schieramenti di destra e di sinistra, quindi il loro pensiero riassume – per logica- quello dell’arco costituzionale, con e senza calzoni.
La signora Mele ha detto di perdonare la “scappatella” del marito in nome della figlia appena nata. Il fiocco rosa l’ha spinta a chiudere un occhio, anzi a tapparseli entrambi, pur di salvaguardare l’unità familiare. I cronisti dipingono la signora come una donna “dai tratti delicati”, “riservata e giovane”. Di certo deve essere forte, al limite dell’incoscienza. Un personaggio fuori dal reale, da quel mondo comune in cui suo marito scopa, sniffa, paga, vota leggi bacchettone, scopa ancora, paga, ri-sniffa, prende stipendi (come si vede) immeritati e per giunta si spazientisce quando i fotografi lo inseguono una volta che è stato smascherato. Lo stesso mondo in cui albergano le parlamentari che lodano il “senso della famiglia” e la “logica cristiana del perdono” e nel contempo auspicano pubblicamente torture e contrappassi medioevali per il cornificatore.
Parliamoci chiaro, fuori da ogni reflusso di buonismo becero: qui c’è un uomo, maschio, potente, ricco e spocchioso che, mentre sua moglie è in ospedale con le doglie, pensa bene che la cosa più idonea da fare sia trombarsi due ragazze a pagamento e tirarsi qualche pista di cocaina.
La signora Mele appare quindi come l’ideale via di mezzo tra un’extraterrestre e una santa. La sua testa vola molto in alto. Tra le nuvole.

Ripos(in)o

Qualche giorno di vacanza non si nega a nessuno. Poi si torna: ad agosto questo esercizio resta aperto.

La terza via

I mezzi d’informazione riferiscono che le testimonianze contro don Pierino Gemini, accusato di abusi sessuali su ospiti della sua comunità, sono molte e concordanti. Sulla vicenda si scontrano due teorie. La prima, che all’occasione proviene da esponenti del centrodestra, è innocentista e addirittura mette in campo l’idea di un attentato ideologico a un eroe del nostro Paese. La seconda, che all’occasione promana dalla sinistra estrema, fa finta di non guardare in faccia nessuno (“Non facciamo che siccome c’è un prete di mezzo finisce tutto a tarallucci e vino?”), ma in realtà trasuda senso di vendetta contro i pretacci di successo. Manca una terza via, almeno io non l’ho vista, quella di un cauto realismo.
E’ innegabile che quando un’indagine investe una persona nota, la luce dei riflettori rischia di essere più forte di quella della verità. In questi casi però ci si potrebbe astenere dall’ovvio. Riferire di “confidare nell’operato della magistratura” equivale a dire che si ha fiducia nel lavoro del proprio salumiere. Un magistrato, come un salumiere, opera – cioè agisce – secondo tecniche stabilite, non c’è bisogno di attribuirgli personalmente un riconoscimento perché l’effetto rischia di avere una valenza opposta. Così come ostentare una serenità di ferro quando si finisce sotto inchiesta può togliere una veste di umanità e scoprirne un’altra di calcolata freddezza. Meglio dire che si è sconvolti, amareggiati, incazzati: è normale, succede a tutti, famosi e signorinessuno.
La terza via prevede un ordine dettato da una sola regola: il silenzio che rispetta tutti.

Mi fido di chi

Sono un diffidente, però un po’ mi fido. Ecco un elenco.

Mi fido di chi non traveste la curiosità.
Di chi non si offende se non rispondi al telefono.
Di chi sorride dei propri difetti.
Di chi si annoia con serenità, ma sta sempre a inseguire nuovi progetti.
Di chi usa la rabbia come sedativo.
Di chi legge tra le righe senza pretendere di leggere quello che vuole leggere.
Di chi non corre per partecipare, ma per vincere.
Di chi riconosce i meriti altrui, senza sottovalutarsi.
Di chi piange di nascosto e ride apertamente.
Di chi ha cancellato la frase: “Nessuno mi\ti conosce come mi\ti conosco io”.
Di chi sa sbagliare da solo.
Di chi ha cura per i dettagli.
Di chi chiede scusa con la stessa semplicità con la quale accetta le scuse.
Di chi sa ascoltare.
Di chi mente con sincerità.
Di chi ti rende pan per focaccia.
Di chi onora il passato.
Di chi ha la forza di rispettare i più deboli.
Di chi non confonde bontà con buonismo.
Di chi ti manda a quel paese quando te lo meriti.
Di chi diffida degli elenchi come questo.