Inferno e paradiso

“Il paradiso lo preferisco per il clima, l’inferno per la compagnia”. Una frase (di Oscar Wilde) che mi accompagna da decenni su cui c’è da discutere per secoli. Io ci provo, proviamo a provarne la fondatezza?

Cinque sportelli di felicità

In un raro momento di catalessi televisiva, per la precisione tra le 20,30 e le 20,45 di ieri, mi sono fatto artigliare dalla pubblicità. Uno spot su due (statistica casalinga) è di case automobilistiche. Ho scoperto che se ho un problema di psiche, di relazione, di sentimento, di contabilità, di famiglia, di lavoro, di salute, di vacanze, di umore, non devo far altro che acquistare una nuova auto. Bastano 450 comode rate, a tasso da esecuzione capitale, per una protesi sociale a cinque sportelli, sicura e rapida come un’arma avveniristica, solida come l’appendice sessuale di Rocco Siffredi (postumi della discussione di ieri, scusate), rassicurante come l’illusione della felicità.
Ho un’auto di cui pagherò le rate fino al 2011. Forse dovevo osare di più.

Elogio del sonno solitario


Roberto Torta, per quel che so, è un ingegnere originario dell’Ennese che lavora a Palermo per una multinazionale. So pochissimo di lui, in generale. Però mi fido perché ha opinioni controcorrente, non sempre condivisibili, ma comunque divertenti. Roberto Torta è una specie di illusione vivente, eppure mantiene un contatto con la realtà, la sua, che lo rende corpo, materia, più di molte altre persone che ostentano onestà, lungimiranza, candore, coerenza. Per me potrebbe essere Kaiser Soze (o Soza, o Sosa, o Sose, esistono varie versioni) e per questo, dal momento che “I soliti sospetti” è uno dei miei film preferiti, ha lo stesso fascino del diavolo che in un soffio svanisce.
Ora leggete e incazzatevi pure, se volete. Ma con lui, eh!

di Roberto Torta

Ci pensavo stamattina, mentre guardavo i giornali online. Avevo il pc sulle gambe e alla mia destra una pila di giornali, riviste e libri. E anche le calze. Ma quanto è bello dormire solo?
Ora… lo so che non è bello dirlo. E neanche gentile. Ma superata la soglia dei 40 anni, quando pensavo che tutte le certezze si fossero frantumate, ecco che ne sorge una nuova. Pulita.
Amo dormire da solo.
E non c’entra niente l’amore. Per carità. Quando abbraccio la mia donna, quando, dopo aver fatto l’amore, mi riempio del suo profumo, continuo a godere di momenti, che, devo dirlo, finiscono. Finiscono quando, magari, hai mangiato pesante e vorresti, con la pesantezza che solo l’uomo riesce ad esprimere, emanare quell’aria non troppo pulita che è lì dentro di invece vorrebbe librarsi tranquillamente. Di notte succede. E se all’inizio di te una donna ama anche quel rumore notturno, col passare degli anni nessuno ti sopporta. Poi c’è il risveglio. E’ inutile negarlo. Siamo dei mostri atterrati da un altro pianeta dove c’hanno riempito di pugni. Gonfi e con un alito che… sì insomma, sappiamo bene come siamo al mattino. Tutti, uomini e donne.
Ma….dormire solo. Godere dello spazio, del silenzio, sapere che nessuno al tuo fianco si muoverà. Svegliarsi e aprire il giornale. Svegliarsi e pensare senza nessuno che ti dice: “Che hai? Stai male? Vuoi che ti faccio un canarino? A cosa stai pensando?”
Quante discussioni nate di notte anche solo perché lei t’aveva toccato involontariamente…
Dormire abbracciati al cuscino senza suscitare gelosie. Alzarsi, fare la pipì anche tre volte di seguito senza alcuna vergogna. Dormire e svegliarsi da soli. Accendere il pc o leggere un libro senza alcun commento. Senza alcuna parola. In un letto grande. A due piazze (ma chi l’ha inventato il letto a due piazze? ). Sapere di russare e non per questo sentirsi un assassino. Avere un bell’incubo o un sogno dolce e non doverlo comunicare. Il sogno è solitudine.
Attenzione. Non vorrei essere scambiato per cinico o per cattivo. O se volete, fate pure. Ho dormito con tante donne e da molti anni ormai ho un’amabile convivente. Eppure questa certezza, questa beatitudine del dormire da solo credo sia un privilegio. Un regalo alla propria convivenza, perché tanto quando dormi non ci sei. Dormi e basta. E poi non sapere che qualcuno ti guarda mentre dormi che magari hai la bocca aperta, l’otturazione in bella mostra, la lingua impastata, parli e sa dio quel che dici.
Ebbene sì. Sono per la separazione dei sonni.

Il menù di Pippo

Ho troppa stima per Pippo Baudo per tacere su alcuni nomi da lui inclusi nell’elenco dei big di Sanremo. Per la dodicesima volta ci sarà Toto Cutugno, per la decima Little Tony e Michele Zarrillo, per l’ottava volta Mietta. Passi per Little Tony, che quest’anno festeggia i cinquant’anni di onorata carriera e – aggiungo – di vita ibernata, ma davvero Cutugno, Zarrillo e Mietta sono big della musica italiana contemporanea? Non giudico la professionalità degli artisti in questione, credo però che vada rispettata anche la “professionalità” degli ascoltatori, che hanno gusti, orientamenti, orecchie e cervello che contano. E che dovrebbero pesare nella scelta del menù. Altrimenti il Festival sarà sempre la solita minestra preparata per palati che non conosciamo, per gente che non mangia ma che stranamente paga il conto. E paga, paga.

Perdono benefico

Leggo la summa di diversi studi scientifici secondo i quali il perdono fa bene alla salute. Addirittura arrivare ad augurarsi il bene di chi ci ha fatto soffrire avrebbe effetti miracolosi su pressione, depressione e sarebbe un vero toccasana per tutto l’organismo. Soprattutto per chi se l’è fatta franca scampando a una meritata vendetta.

Storie

Sto scrivendo una nuova storia. Ogni volta che mi cimento in un’impresa del genere ho una strana sensazione che attraversa i seguenti stadi.
Entusiasmo.
Vertigine.
Comunicatività.
Ritrosia.
Leggerezza.
Timore.
(sindrome di) Abbandono, bruttanatroccolite.
Depressione.
Ossessività compulsiva.
Ilarità.
Debolezza verso i vizi.
Attaccamento allo sport.
Senso di onnipotenza.
Debolezza.
Felicità.
Basta per farvi comprendere la potenza delle storie? Eppure il raccontare è un’emozione inferiore rispetto al leggere. Allora perché di storie non ce ne narriamo più? In una favola, in un racconto, in un’avventura impaginata c’è un tumulto di sentimenti e sensazioni unico, in alcuni casi indimenticabile.
Sarò scontato, ma vi chiedo una cosa.
Stasera togliete il televisore dalla vostra stanza da letto. Troverete il tempo per leggere di paesi lontani ed eroi vicini, per apprendere di vite dimenticate e per indossare eroici panni altrui. Riderete o vi commuoverete in complicità col vostro cuscino. Amerete il vostro partner con uno spunto in più, oppure finalmente lo odierete come merita. Troverete luccichii che non vi immaginavate e, una volta tanto, per sognare non vi toccherà necessariamente dormire.
C’è un mondo meraviglioso da sfogliare, senza la De Filippi o (dio mi perdoni) Michele Santoro.
Un mondo di vera finzione. Il più vero.

Palermo, la mia città

Sono palermitano, nato e cresciuto a Palermo (con una lontanissima parentesi padovana) da genitori palermitani. Ho un legame forte con la mia città, non l’ho lasciata e non la lascio nonostante al nord abbia più di un interesse (lavorativo, culturale, persino sportivo…). Sono palermitano, ma non considero Palermo il fulcro del mio mondo né un crogiuolo di debolezze da esaltare. Va bene la salvaguardia dell’identità, ma farne una bandiera – specie se i colori non sono altro che chiazze di unto e spruzzi di ignoranza –, quello no.
C’è, da qualche anno, una tendenza all’esaltazione del palermitanismo, del palermitanesimo, della palermitanitudine, intesi come sublimazione dei luoghi comuni, che non mi piace affatto. Parliamoci chiaro: l’elogio della panella (tipico cibo palermitano), la glorificazione del vicolo come specchio della realtà, l’amalgama di rutti e peti, l’uso del dialetto come slang di moda, mi hanno rotto le scatole. Eppure io mangio le panelle, adoro certi vicoli, parlo in dialetto e… tralascio il resto.
Palermo, come qualunque altra città con una fortissima identità storica, culturale e sociale, non può essere solo il suo passato (peraltro non troppo glorioso). E’ anche altro: cambiamento, multirazzialità, innovazione, trasversalità, contaminazione. Eppure sfoglio libri (che si vendono!) pieni di cumpà, comu si’?, chiddici?, bbuoano, e si affrettano verso una conclusione più che scontata. Leggo blog con opinionisti che fanno del pani ca mieusa un tema da sviluppare a puntate. Assisto a trasmissioni televisive che, pur di fare l’elogio di un provincialismo retrò e popolare, schierano ospiti che non conoscono i congiuntivi, ma che si professano sacerdoti della saggezza antica, quella del vicolo naturalmente.
A Palermo, la mia città, non c’è discorso più impopolare di questo. Puoi schierarti con la destra o con la sinistra, puoi pagare il pizzo o no, puoi rimpiangere la vecchia antimafia o celebrare il nuovo corso. Se tocchi la panella, i suoi profeti, il cumpà comu si’ o l’elogio del rutto, sei bell’e ammazzato. Con proiettili di crocché.

Questo blog

Rapido bilancio di un anno. Sorvolo sulle mie questioni personali, parliamo di voi. Il 2007 coincide con il primo anno di vita di questo blog, che non fa grandi numeri, ma nel suo piccolo…
Ci siamo ritrovati su queste pagine in quasi diecimila utenti unici, per un totale di 28.000 visite. Ogni giorno avete dedicato in media tre minuti del vostro tempo a leggere i miei deliri (e quelli di altri complici). In 4.300 avete visitato il blog più di 200 volte. La maggior parte di voi si collega da Milano, segue Roma, Palermo è terza. Quelli che rimangono più a lungo sono di Catanzaro (con oltre cinque minuti di permanenza media), i più rapidi quelli di Catania (poco meno di un minuto e mezzo). Gli amici di Svizzera, Francia, Gran Bretagna e Spagna hanno prodotto 3.000 visite e hanno mostrato una sorprendente fedeltà. I post più letti, per uno scherzetto di google di cui abbiamo parlato, sono i culi dei vip e le mutande dei vip. Segue il mestiere di giornalista che ha ispirato una piccola campagna (la mafia ha rotto i coglioni) per la quale ringrazio i blogger citati nello spazio qui a destra.
Vi risparmio altri numeri perché già mi fuma il cervello. Però alcune righe vorrei aggiungerle.
Sono un chiacchierone, ma anche un timido: questo mezzo mi ha insegnato a condividere esperienze e opinioni, mooolto personali e se volete bizzarre, senza il vincolo terrorizzante del giudizio. Se anche mi avete scritto contestandomi o attaccando il mio punto di vista, sappiate che mi avete regalato un’emozione positiva. Quella che deriva dal confronto puro delle idee, dal quale, per indecifrabili addizioni (o sottrazioni) del destino, mi ero un po’ estraniato.
Che sia un saluto, una filippica, una proposta, un gioco o una battuta, il vostro post è sempre, dico sempre, un trillo di vita. Reale anche se virtuale.
Grazie.

La cera di Icaro

Giacomo Cacciatore conclude la serie di interventi sull’eroismo moderno, innescata da un post sull’assassinio di Benazir Bhutto. Le vostre riflessioni, acute, controcorrente e soprattutto mai dolciastre, mi sono sembrate ottime per accompagnare la fine di quest’anno. Vi ringrazio di cuore. Buon 2008!

A fronte della “fenomenologia dell’eroe” discussa in queste pagine, ho l’impressione che si sia dimenticato un aspetto curioso. Quello degli effetti collaterali dell’esistenza dell’eroe. Effetti che coinvolgono chi guarda Icaro dal basso. Coloro che ammirano il suo volo ma, rabbrividendo all’idea di sfiorare il sole, si accontentano di raccogliere le gocce della cera sciolta che piove dalle sue ali. Non entro nel merito della vocazione al martirio degli eroi. Sono convinto che siano rari i casi in cui un uomo – pure se dotato di qualità eccezionali – possa anche lontanamente accettare (o addirittura concepire) l’idea della propria morte con sguardo ispirato, sorriso luminoso e mani salde sul timone del proprio destino. Gente molto più eroica di me – sul piano del pensiero – ha ipotizzato che un individuo del genere pagherebbe con la nevrosi, o addirittura con la psicosi. Se è vero che gli eroi (quelli metaforici, creati ed elaborati dal mito, e quelli che, incolpevoli, da uomini realmente esistiti sono diventati materia di mito) carezzano in qualche misura l’inconscio collettivo, le corde di uno strumento invisibile che, come per magia, risuona nelle menti e nei cuori della gente, superando persino i limiti geografici e temporali, è altrettanto vero che corrono un rischio notevole. Duplice. Da un lato, quello di identificarsi – in vita – con lo stesso strumento immane che hanno involontariamente toccato (da qui i profeti, i maestri di pensiero e, nell’accezione più inquietante, i dittatori). Dall’altro – spesso in morte – quello di ritrovarsi defraudati del genuino significato delle loro gesta, proprio da parte di chi degli eroi ha necessità per dare un senso alla propria vita. Sono questi gli individui che, raccogliendo quelle quattro gocce della cera di Icaro, le pasticciano a loro immagine e somiglianza, spacciandole per carne propria, dilatandole perché appaiano protuberanze verosimili, ali posticce che però mai serviranno al volo. Nascono così gli esegeti per mestiere. I biografi con lo sguardo fiammeggiante. I compositori di peana circensi. I raccontatori senza racconti. Gli agiografi che reclamano a gran voce e difendono a unghiate la loro vicinanza al mito, il giorno o l’istante in cui, soli tra mille altri, gli hanno stretto la mano e, ignorati dal mito stesso, ne hanno doppiato i passi. I professionisti dell’arti-mafia (qui il refuso è voluto) che spettacolarizzano il sussurro e la lacrima solo per dar spettacolo di se stessi. Insomma, gli pseudo-icaro che si appropriano di luminose vite altrui per plasmare ali gigantesche. Con delle gocce di cera che non basterebbero a sigillare la confessione della loro pochezza.

Falcone e Borsellino, per esempio…

E’ noto che chi si espone, rendendo la sua immagine pubblica, vada incontro come ad una suddivisione della sua vita in piccoli pezzi, che andranno ognuno ad una persona diversa, inesorabilmente. Nella condivisione di quella persona, ognuno si costruisce il suo personaggio personale (e scusate il gioco di parole) a partire da quel piccolo pezzetto, e molto spesso il risultato finale non è molto fedele all’originale.
Quando il personaggio pubblico sfida un gigante, da novello Davide, allora l’aura che lo circonda, che riusciamo a percepire anche solo nominandolo, diventa qualcosa di magnifico, di incredibile.
La fama può dare sicuramente alla testa, e questo non è un mistero, ma non dimentichiamoci che parliamo di gente come Martin Luther King, John Kennedy e Bob Kennedy, Abrham Lincoln, e tanti altri… persino John Lennon. La loro consapevolezza, quella di possedere una vita più breve degli altri a causa del loro destino, è chiara. Forse alcuni di loro hanno deciso di perseverare nonostante il pericolo della fine, perchè lasciati trascinare dalla marea, o forse lo hanno fatto perchè ci si aspettava questo da loro. E’ difficile affrontare un tema simile, ma sono profondamente convinto che la verità non sta nell’egocentrismo, quanto nello spirito di sacrificio supremo.
Quando si è consci di essere gli artefici di qualcosa di grandioso, di essere il fulcro di un grande cambiamento sociale e culturale, oppure di rappresentare il liberatore dell’oppressione della gente, è facile lasciarsi trascinare. Ci si rende conto che si è raggiunto un punto di non ritorno, oltre il quale lasciar perdere non può più avere senso. Il passo da uomo a icona è più breve del pensiero stesso dell’esitazione, e porta inevitabilmente ad un punto in cui ormai il ripensamento non è più contemplabile.
Molti hanno scelto quella via, non ultima la Bhutto, e altre donne coraggiose come lei, e molti ne hanno patito con sofferenze e con la morte. Essi sono tuttavia consapevoli di due cose: si stanno sacrificando per un bene superiore, per quanto ingiusto sia, e il sacrificio non ammette riconsiderazioni, pena la perdita profonda del suo significato e della potenza del suo messaggio per i popoli; essi ormai sono segnati nel loro destino, non resta altro che lavorare finchè qualcuno, da qualche parte, non avrà deciso che non potranno più farlo.
Per me, per le mie origini, così come dovrebbe essere per ogni italiano che si rispetti, il sacrificio ha il volto di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino, due uomini incommensurabilmente grandi, che certamente pensarono spesso alla fine, alla morte, ma che furono guidati da uno spirito troppo grande per essere compreso. Il nemico invisibile che combattevano, infido e spietato, li ha fermati mentre ancora si muovevano, instancabili, consci di non avere scampo forse, ma di dover comunque continuare, di dover “fare in fretta”, come disse Borsellino dopo la morte dell’amico Falcone.
Proprio di Borsellino sono le parole che più mi fecero capire ciò che significa spirito di sacrificio. Esse racchiudono tutta l’essenza di ciò che voglio comunicare:”è bello morire per ciò in cui si crede; chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola.”