Cannoli, per festeggiare

Va bene, quella di Cuffaro è una condanna di primo grado. Va bene, c’è la presunzione di innocenza. Va bene, c’è in giro un qualunquismo da brividi. Va bene, la frase malcitata del Gattopardo viene tirata fuori sempre a sproposito. Va bene, ho guardato vari blog e ci ho trovato il solito “armiamoci e partite” sconfortante. Va bene, però basta adesso.
Facciamo una moratoria della lamentela a basso costo e aspettiamo fino alle prossime elezioni, come semplicemente suggeriva Giacomo Cacciatore ieri.
Dato che carta e penna costano poco, però, annotiamo qualcosa.
1) Tra un presidente assolto per mafia e un presidente assolto e basta c’è differenza (citazione dall’intervista di Elisabetta Margonari per il Tg3).
2) Il festeggiare con cannoli si addice, in Sicilia, a uno sposalizio o a un annuncio di lieto evento, non a una condanna a 5 anni con interdizione perpetua dai pubblici uffici.
3) La piazza, dalla Cina a Milano nel ’45, dal g8 di Genova a San Pietro in Roma, risolve poco se non altro perché le stime dei partecipanti le fa la questura e non un istituto di rilevamento scientifico.
4) La confusione del “facciamo qualcosa” cozza con l’indolenza del “chi la fa per primo?”.
5) La coscienza non è più un primo motore immobile, ma un elemento di una massima andreottiama: “…come una camicia, per mantenerla pulita basta non usarla”.

Da domani culi e tette.

Esserci o non esserci

Ho una fortuna. Un mio grande amico è anche mio collega di lavoro. E soprattutto è uno dei miei scrittori preferiti. Si chiama Giacomo Cacciatore e da oggi ha una rubrica, “L’attimino fuggente”, su questo blog. Buona lettura.

Il giorno dopo la sentenza di condanna al Governatore di Sicilia Salvatore Cuffaro (mi piace la parola governatore, quanto mai appropriata: mi ricorda gli scenari riarsi e gaglioffi della Monterey dei telefilm di Zorro, il tenente Garcia, il servo muto Bernardo) una zia per la quale nutro sconfinata stima mi ha invitato a partecipare alla manifestazione di protesta in piazza Politeama. Ci si doveva riunire, far numero e alzare una simbolica mano alla domanda: “chi ritiene indispensabile che il governatore si dimetta?”. Ci ho pensato su. Mi sono chiesto se fosse giusto manifestare. Lo era. Mi sono chiesto se fosse significativo. Lo era, certo. Mi sono persino domandato se la mia improvvisa titubanza fosse un sicilianissimo rigurgito di timor sacro verso il potere e la sua arroganza; un residuo enzimatico del mio essere “di qui”, un fiotto di vigliaccheria inconfessata – da ometto quale a volte mi capita di essere – e con cui, in fondo, chi vive in Sicilia deve fare i conti. Secoli di attenzione a non azzardare il passo più lungo della gamba, di voci fantasmatiche che fin dalla tenera infanzia ti invitano alla cautela – pena oscure ritorsioni, cadute in disgrazia e inevitabili sconfitte – non sono acqua fresca. L’inconscio collettivo non si smacchia facilmente. Ho preso la penna. Se devo essere ominicchio, preferisco esserlo a metà. E mentre scrivo queste righe, tiro all’improvviso un sospiro di sollievo. Sono stato severo con me stesso. L’enzima di ominicchitudine ha battuto in ritirata, chiedendo scusa per l’incomodo. Sono qui a scrivere perché ci credo di più. Sono qui a scrivere perché credo che uno slogan fuori tempo non possa cambiare la storia, né potrà mai farlo una sentenza a carico di un solo uomo, con tutta l’indignazione – o, a seconda dei casi, – l’esultanza che questa si porta dietro. Sono qui perché credo che la storia, a volte, è possibile cambiarla proprio scrivendo. Non sto parlando di romanzi, non in questo caso. Sto parlando di una “x” tracciata su una scheda che, debitamente ripiegata, pioverà dentro un’urna.
Mi arriva notizia che alla manifestazione c’era tantissima gente, il giorno dopo la sentenza di favoreggiamento (non aggravato) del governatore Salvatore Cuffaro. Ci vediamo in cabina, signori, alle prossime elezioni per il presidente della Regione. E cerchiamo di esserci davvero. È lì che si chiedono le dimissioni di qualcuno.

Un favoreggiamento così così

Cuffaro, condannato a 5 anni ma non per mafia, resta al suo posto e manifesta soddisfazione. Se non fosse troppo lungo – i giornali non sono lenzuoli – potrebbe essere il titolo ideale per riassumere la vicenda che ieri è sfociata nella sentenza di Palermo. In questo titolo infatti c’è la notizia, c’è la puzza della questione morale, c’è il riflesso di un rapporto catastrofico tra politica e giustizia, c’è il grottesco. E, diciamolo, c’è anche quel tanto di pirandellismo che ci ricorda chi siamo, da dove veniamo e dove, si spera, non andremo a finire.
Il governatore della Sicilia, peso massimo dell’Udc, si è visto infliggere 5 anni di reclusione e l’interdizione perpetua dai pubblici uffici (pena sospesa) per aver favorito personalmente una fuga di notizie a favore di un indagato per mafia. Un favoreggiamento niente male. Appare chiaro che favorire una persona qualunque è una cosa, favorire un presunto boss è un’altra. E’ probabilmente sulla scia di questo ragionamento che i giudici, pur non riconoscendo l’“utilità” del governatore nei confronti di Cosa nostra, hanno usato la mano pesante. Resta da capire come si può argomentare giuridicamente che l’adoperarsi per un mafioso non rappresenti un atto estendibile a tutta la sua consorteria criminale.
L’unica cosa che, inequivocabilmente, la sentenza ha sancito è che c’era una rete di talpe alla procura di Palermo. Non erano talpe da poco e non si scambiavano informazioni sulla migliore pasta con le sarde della città.
Il commosso trionfalismo con cui Salvatore Cuffaro ha accolto la sentenza mi ha irritato, perché è una furbaggine di politicaccia vecchia. Equivale a dire “gol!”, quando il pallone è dentro la propria rete: gli spettatori non sono scemi, e quelli paganti possono incazzarsi.
Il fiume di reazioni soddisfatte alla sentenza ha fatto il resto. Casini, Cesa (Cesa, ve lo ricordate? Proprio lui), Berlusconi… Una politica civile avrebbe manifestato, con libertà, il proprio affetto, la propria vicinanza, la propria stima a un imputato condannato (seppur a una pena inferiore a quella richiesta dall’accusa) e si sarebbe astenuta dal peana. Proprio per l’assoluta mancanza di argomenti: il lieto evento da celebrare, il soggetto da encomiare, la vittoria da festeggiare.
Su queste basi non stupisce la fragile architettura logico-poltronistica che Cuffaro ha messo su per non dimettersi. Siccome aveva detto che se ne andava solo in caso di condanna per favoreggiamento di tipo mafioso, non se ne va. Come dire: si può rubare in tutti i supermarket, tranne che in uno.

Un nuovo inizio

Con questo articolo Roberto Torta inaugura la sua rubrica settimanale (o chissà) su questo blog: Torta in faccia. Che dio me la mandi buona.

di Roberto Torta

Lucia ha 38 anni, è insegnante, non è mai stata sposata. Ieri sera, a cena, parlava di una nuova sua fiamma: Giovanni, assicuratore. Diceva quanto è bello e quanto le fa bene avere un nuovo inizio. “Perché – spiegava – iniziare una storia, uno sport, un’attività, è una vera e propria ginnastica per il cervello”.

Scoprire un nuovo odore, un nuovo timbro di voce, nuove inflessioni dialettali, nuovi modi di baciare, di guardare le cose, occhi a cui non siamo abituati: tutto questo stimola la nostra fantasia.
La discussione è stata ampia e articolata. Mia moglie, intelligente ma gelosa come un Otello, diceva che iniziare sempre significa non avere un punto fermo e credo che Lucia non verrà più a casa mia.
Mio cognato aveva la bava alla bocca solo al pensiero di poter stare lontano da sua moglie.
Altri amici, noti e assertori della teoria “basta che respirano”, con accanto le loro compagne si esibivano in salti mortali di dichiarazioni su quanto sia importante avere una relazione stabile. Io li guardavo allibiti e notavo gli occhi scintillanti di queste compagne, proprietarie di così tante corna che solo Dio sa (oltre me e almeno un centinaio di persone).
Lucia insisteva e passando dal personale al generale diceva: “Quando conosci una persona nuova, ti viene voglia di farti la ceretta anche all’inguine, vai dal parrucchiere più spesso, cerchi di essere originale e di condividere i suoi interessi. Diventi gradevole fuori ma anche dentro. Poi, certo, la delusione può essere dietro l’angolo, ma in quel caso si può rimanere semplicemente amici o non frequentarsi più. La vita dev’essere una serie continua di inizi”.
Tutti aspettavano il mio parere e, lo confesso, ho detto una cosa di cui mi vergogno spudoratamente: “Io inizio ad amare mia moglie ogni mattina”.
Ma l’ho fatto solo perché non mi va di iniziare le pratiche per il divorzio.
P.S. E’ inutile che mi chiedete il numero di Lucia, tanto non ve lo darò mai.

Mastella e oltre

Sul caso Mastella ci sono almeno due chiavi di lettura.
Primo, la procura ha ragione. In tal caso la politica sta facendo irruzione (ancora una volta pesantemente) in un ambito che non le compete e sta interferendo con un potere che deve restare indipendente.
Secondo, la procura non ha ragione. Il sistema politico sta reagendo alla scossa destabilizzatrice che proviene da una ristretta componente di un apparato dello Stato.
Dovremo aspettare per capire quale delle ipotesi è quella fondata. Personalmente, spero che l’inchiesta dei magistrati di Torre del Greco sia solida a tal punto da giustificare un simile terremoto.
C’è però una terza via, che non esclude le precedenti, ma che potrebbe essere corollario, e al tempo stesso spiegazione, di ciò che accade da anni nel nostro Paese.
Il sistema (termine scongelato dal vocabolario degli anni Settanta) è sbagliato. Tutto.
Che sistema è, infatti, quello in cui:
I politici vogliono giudicare al posto dei giudici.
I giudici vogliono governare al posto dei politici.
Un papa si tira indietro davanti alle prime protestucole di quattro professori e di un manipolo di universitari.
La pubblica opinione è nelle mani di un comico che fa ancora ridere.
Il timone dell’Italia è nelle mani di una banda di comici che non sanno di essere comici.
Il disfattismo è il partito politico di maggioranza.
YouTube è l’unico misuratore attendibile di consenso.
Il telefono cellulare serve a tutto fuorché a comunicare.
I referendum sono strumenti il cui unico vantaggio è regalare qualche giorno di vacanza in più agli studenti.
Ridateci Antelope Kobbler.

Ancora su Sofri

Vi chiedo scusa, ma almeno per un giorno devo tornare sul caso Sofri. Alcune e-mail e post ricevuti mi impongono una precisazione.
Partiamo da un principio. Messi di fronte, Luigi Calabresi e Adriano Sofri non hanno lo stesso peso, non possono averlo: perché il primo è terra, il secondo è carne.
Per quanto riguarda Sofri, il mio amico Davide Camarrone mi rimprovera di piegare il mio giudizio alla “formalità di una condanna” molto controversa. Ho già detto che la vicenda è complicatissima, e ne ho piena contezza. Però credo che banalmente ci si debba piegare, a un certo punto, a una verità giudiziaria: altrimenti si va incontro alla destabilizzazione dei ruoli.
E’ un mio problema. E mi spiego: se io non riconoscessi la colpevolezza di Sofri – che è scritta in una sentenza che può apparire a molti detestabile – negherei l’esistenza di un giudizio terreno. E ciò si ripercuoterebbe in ogni ambito in cui sono chiamato a rispettare una regola. Perché non riconoscerei più una fine, un punto di arrivo. Sofri per la legge italiana è colpevole, pur essendo un intellettuale, pur professando la sua innocenza, pur affrontando la pena con dignità. Se lo Stato, l’istituzione somma, deciderà di alleggerire il suo fardello mi inchinerò alla decisione.
Il commissario Luigi Calabresi è stato scagionato post mortem da ogni responsabilità per la tragica fine dell’anarchico Pinelli: si è accertato che lui non era neanche in quella sua stanza quando quel povero ragazzo volò dalla finestra. Si continua – anche sui muri delle città, nei cortei, nelle discussioni da sedicenti post-sessantottini – a sommare i cognomi: Calabresi + Pinelli= giustificata vendetta.
Certi editoriali di Lotta Continua sono stati, come metafora di una violenza senza nessuna ragione storica, una vergogna di questo paese. Il revisionismo degli anni Settanta – e mi scuso per il linguaggio – è un grappolo di emorroidi in un deretano sfondato di menzogne travestite da rivoluzioni.
E’ possibile che Sofri sia una vittima innocente di un sonno della giustizia che partorisce mostri.
E’ certo che il commissario Calabresi e gli altri che hanno fatto la sua stessa fine (professori universitari, giornalisti, operai, sindacalisti, carabinieri, poliziotti…) sono vittime innocenti del sonno di una ragione malata.

Serendipità

L’altro giorno, leggendo l’e-mail di un’amica, mi sono imbattuto in una parola di cui mi ero dimenticato: serendipità.
Come qualsiasi dizionario ed enciclopedia vi ricorderanno, questo neologismo, originato dal più noto serendipity (anglosassone), indica lo scoprire qualcosa mentre se ne cerca un’altra. Ma, si badi bene, il concetto è ben diverso da quello di culo (inteso come fortuna). La serendipità è una strada con infinite traverse e solo la capacità e il valore di chi la percorre potranno rendere giusta la traversa “sbagliata”. E’ anche, secondo una celebre metafora, “cercare un ago nel pagliaio e trovarci la figlia del contadino”. E’ l’idea che arriva alle spalle. E’ l’America scoperta al posto delle Indie. Con quel che ne consegue.
Nonostante la mia diffidenza paranoica, credo molto nella serendipità anche per conoscere meglio chi mi circonda. Si sa spesso di più quando meno si cerca con accanimento. Il fatalismo impigrisce, la serendipità arricchisce tutti.

P.S.

Vi giuro che ieri sera ho mangiato leggero e ho bevuto praticamente nulla.

Dietrofront su Sofri

Due giorni fa ho scritto in favore di Adriano Sofri.
Poi ho visto Sofri in tv.
E, nel contempo, ho letto “Spingendo la notte più in là” di Mario Calabresi: tutto in un pomeriggio, grazie a un prezioso suggerimento.
Mi sono preso un giorno per pensare, per digerire certe frasi, per commuovermi – lo confesso – e per cambiare radicalmente idea.
Il libro di Calabresi è un’altra visione del mondo, il lato buio della luna. E’ una rassegna di immagini senza intervallo. E’ una visione parziale, ma dolorosamente attendibile, di un sistema di privazioni vitali inaudito. La concatenazione dei fatti supera ogni barriera ideologica, si fa misura di quell’inganno chiamato uguaglianza, umanità, solidarietà. Se è giusto credere nelle sentenze di una giustizia terrena che amministra le nostre sorti, è giusto farlo per il commissario Calabresi come per Sofri. Uno assolto, l’altro condannato. Punto.
Andatevi a leggere le storie e le sentenze, ne parliamo quando volete.
L’intervista di Sofri è stata un conglomerato di umanità non confessate e tremendamente paludate. Sofri ha parlato di: vita, morte, futuro, generazioni, periferia della spazzatura, ombre, trionfo del buio sulla luce. Ha corretto il Papa e persino Fabio Fazio che lo ospitava. Ha sibillinamente attestato che “noi umani combiniamo guai quando abbiamo buonissime intenzioni e pretendiamo di tradurle in pratica”. Che – sempre noi umani – “quando compiamo un’azione non sappiamo dove va a finire”. Ha fatto un elogio dei galeotti, come se fossero la migliore parte del Paese. Ha più volte parlato di Gesù, lui che sembra illuminato. Ha detto, rimbalzando da una provocazione (autogestita) all’altra, che “diventare direttori di giornali non è una cosa straordinaria”.
Ordinare un omicidio?
Trovarsi a convivere su un pianeta con vittime di un’ideologia assassina di cui si è stati artefici?
Scrivere nero su bianco che – è testo di “Lotta continua”- Calabresi “dovrà rispondere di tutto. Gli siamo alle costole, ormai, è inutile che si dibatta come un bufalo inferocito… Il proletariato ha emesso la sua sentenza: Calabresi è responsabile dell’assassinio di Pinelli e dovrà pagarla cara…”?
Sono scelte tutelate dall’articolo 21 della Costituzione?
C’è una moratoria culturale che fugge alle leggi degli umani ordinari?
Ci sono sentimenti che lauree e specializzazioni aboliscono ontologicamente?
Nessuno ha chiesto a Sofri, né lui si è guardato bene di spendere una parola a proposito, del crimine di cui è accusato e per cui è condannato in sede definitiva, seppur dopo un iter giudiziario travagliato.
Ritenevo Adriano Sofri un intellettuale puro, me lo sono ritrovato davanti come un furbetto che impartisce lezioni sulla vita e sul senso che ne avanza, scremate convenienze e consigli per gli acquisti (il libro per Sellerio).
Scusate, ma la morale, odiosa per quanto sia, mi viene facile adesso: se devo scegliere un maestro, non me lo prendo pregiudicato per omicidio.

La parola di Sofri

Stasera su Raitre, a scanso di sorprese, Adriano Sofri, condannato a 22 anni per l’omicidio del commissario Calabresi, sarà ospite di Fabio Fazio. Come saprete, c’è una lunga scia di polemiche. Non è la prima volta che Sofri viene intervistato, ma stavolta ha ottenuto il permesso del giudice per lasciare i domiciliari e andare nello studio televisivo, e per la prima volta parlerà in diretta.
Sofri è accusato di un reato gravissimo, ma è anche al centro di una controversa ricostruzione giudiziaria. Alcuni di voi conoscono il mio morboso attaccamento alle regole, al rispetto delle norme. Il discorso potrebbe chiudersi qui. Però, in questo caso, credo che ci sia da fare qualche considerazione.
Adriano Sofri è, al di là della sua fedina penale, un intellettuale che si è guadagnato la fiducia letteraria del Paese. Ha scritto, da detenuto, pagine di grande valore. E la vita ci insegna che, nella storia, il valore sta nei concetti non nelle mani che li plasmano.
Va da Fazio a presentare il suo ultimo libro e non sarà tappandogli la bocca che si restituirà giustizia alla famiglia Calabresi. Anche perché Sofri, in questi anni, si è distinto come artefice di una cultura pacata e senza rabberciamenti. Non è Vallanzasca. Le sue opere possono piacere o non piacere. Ha il diritto di parlarne fin quando non approfitta del mezzo che gli viene concesso. La sua pena non è sospesa per i minuti della trasmissione. Anzi – credo – che gli peserà ancor di più.
Non c’è verso che valga la libertà se non nasce libero.

Vecchiaia

Leggo un bel libro che mi ha regalato un amico, “Intervista sul cinema a Federico Fellini”, e mi soffermo su un passo, proprio all’inizio, che prende spunto da una citazione di Simone de Beauvoir: “La vecchiaia ti afferra all’improvviso”.
Dice Fellini: “E’ verissimo. Fino all’altro ieri ero sempre il più giovane del gruppo, in qualunque comitiva, in qualunque tavolata. Come diavolo è potuto accadere che nel giro di poche ore, un giorno, diciamo anche una settimana, io sia diventato improvvisamente il più vecchio?”
Non sono vecchio, ma ricordo benissimo quando mi sono sentito invecchiato. E’ accaduto in una mattina d’inverno di tre anni fa. Mi sono svegliato, ho fatto le solite cose e mi sono reso conto che non ero più giovane. Non mi chiedete dettagli, non saprei darveli. Non c’entrano le rughe, gli acciacchi, i capelli che se ne vanno. E’ un respiro interiore, lo senti. Percepisci gli eventi in modo diverso, hai reazioni nuove, sei più cauto quando dovresti osare e più scatenato quando ci vorrebbe maggiore cautela. Usi la rassegnazione come oppiaceo e ti droghi di cose da fare. E gioisci quando il panettiere, che ha la metà dei tuoi anni, ti dà del tu.