Senza fiducia

Spesso (troppo) ci dimentichiamo che le cose funzionano bene solo se sono fatte bene. E che per essere fatte bene hanno bisogno di professionisti. E che i professionisti sono tali perché esercitano una professione: una, non dieci tutte insieme. E che se a un professionista viene imposto di lavorare per dieci, nel migliore dei casi farà un decimo del suo vero lavoro (quello per cui ha studiato) e per i restanti nove decimi farà cose abbozzate, magari sbagliate, comunque cagate. E che le cagate non piovono mai dal cielo, ma sono sempre meritate nonostante il fatto che per progettarle ci vuole più applicazione (storta) di quella che occorre per fare le cose bene. Che le cose fatte bene hanno bisogno di professionisti, di tempo, di organici adeguati, di pazienza, di lungimiranza. E soprattutto di fiducia.

Senza fiducia nessuno ordinerebbe un ponte a un tale che lo disegna assieme al suo team sulla carta, nessuno finanzierebbe una ricerca su un nuovo vaccino, nessuno commissionerebbe un’opera teatrale, nessuno allenerebbe una squadra sportiva di giovanissimi, nessuno potrebbe dirigere un giornale, e così via.
Senza fiducia si costruisce il nulla. E le cose fatte bene sono esattamente l’opposto.  

P.S.
Questo post è stato scritto senza maltrattare nessun datore di lavoro, senza nessuna rivendicazione in codice, senza un’urgenza di cronaca. E’ stato scritto semplicemente perché all’autore di questo blog pareva giusto scriverlo.

La spesa gratis

Da (molti) anni c’è una tendenza molto social e molto trasversale a demolire i giornalisti e a ridicolizzare il loro lavoro. Chiunque, ma proprio chiunque, si sente legittimato a giudicare in pubblico una nostra scelta di argomento o una trattazione o un’opinione in modo preventivo. Mi è accaduto spesso quando nel passato annunciavo su Facebook un commento su “la Repubblica” del giorno dopo, di essere assalito da commenti molto aggressivi basati su un articolo che ancora nessuno, a parte me e il caporedattore o un collega incaricato, aveva letto.
Questo fenomeno va inquadrato in una più generale degenerazione del senso di allerta dinanzi all’attendibilità di una notizia. Che non è una cosa da addetti ai lavori, ma al contrario una sorta di diritto-dovere del lettore. Cioè chi legge non può sentirsi deresponsabilizzato su ciò che sceglie: se io leggo il Mein Kampf devo sapere chi lo ha scritto, quando e cosa ne è derivato. Così se mi documento sui canali social di Flavia Vento o di Red Ronnie devo sapere dinanzi a quale desco mi sto accomodando.
Detta in modo diverso, l’ignoranza del lettore ha dei limiti di colpevolezza sempre più ampi. Come quelli di chi per curare una malattia si rivolge al santone peruviano (mi perdonino i peruviani non santoni truffatori) o di chi compra i funghi dal raccoglitore improvvisato o di chi ancora chiede arte a chi non ha idee ma padrini.
Una delle obiezioni più frequenti quando per leggere una notizia online si deve pagare è: devo risparmiare (non vi dico quante persone mi scrivono privatamente per avere il pdf di questo o quell’articolo). Una delle obiezioni più frequenti a chi muove queste obiezioni più frequenti dovrebbe essere: quanti abbonamenti tv hai? Hai mai pensato di fare la spesa gratis? Il tuo smartphone di ultima generazione te lo hanno regalato?

La verità è che restare informati e coltivare un minimo di conoscenza costa. Costa in termini di attenzione da dedicare al lavoro altrui. Costa per l’umiltà di ammettere che “l’università della vita” non salva la vita. Costa perché ponderare è un’attività molto scomoda che richiede impegno. Costa perché nuotare contro il mainstream (e oggi sappiamo che il mainstream non abita più nei giornali) è faticoso. Insomma il risparmio economico è solo una scusa pigra, dagli effetti collaterali devastanti.

Segnatevelo per quando sarete inginocchiati davanti al mahatma Elon Musk e quando per cercare un’opposizione semiclandestina dovrete aggrapparvi alla giacca di Mark Zuckerberg: un mondo meno informato o peggio informato a cazzo di cane è un mondo che si consegna alla dittatura dell’ignoranza. Chi legge i giornali sa che i veri oligarchi, i giornali o se li comprano o li radono al suolo. E voi non leggendo rischiate di essere, nel migliore dei casi, servi sciocchi. Sciocchi e colpevoli.

Contro il fascismo del dolore

Tutti quanti, prima o poi, ci dobbiamo confrontare col senso di mancanza. Ed è un errore gravissimo ritenere che la propria voragine, quella dalla quale crediamo di non poter riemergere, sia più profonda di quelle degli altri. Soffriamo tutti, ognuno in modo diverso per cose diverse e al contempo con lo stesso diritto. Abbiamo vertigini di dolore tutte nostre e non abbiamo il diritto di imporle. Soprattutto non dobbiamo mai sovrapporle a quelle degli altri.

Sono due anni che mio padre se n’è andato e so, per certo, che il senso di mancanza è qualcosa di non recensibile. Però so anche che il miglior modo per celebrare qualcuno che non c’è più – prima o poi è un’incombenza che tocca tutti – è non infliggere il proprio dolore al mondo.
Quindi per prudenza, almeno per un giorno, oggi nella mia giornata ordinaria non mi lamenterò dei casini personali, leggerò i giornali con un distacco artificiale, lavorerò senza curarmi dei problemi acuminati che possono stare dietro l’angolo, cucinerò cantando e brinderò a una felicità prossima ventura (c’è sempre qualcosa in agguato e chissà mai che non sia qualcosa di lieto, e che cazzo).

Scrivevo qualche giorno fa che bisogna avere il coraggio di cambiare le nostre preghiere laiche. Di celebrare i nostri morti (ammazzati o no) in un modo nuovo, di sterilizzare le ferite riducendo al minimo il rischio che si riaprano, anche involontariamente. E scrivevo a proposito dei morti di mafia: “Meno intitolazioni, più narrazioni. Meno stucchi, più informazione. Meno contrapposizioni, più testa bassa e pedalare”.
Ecco, credo che questo proposito valga non solo per i morti (illustri) di morte violenta.
Dobbiamo imparare a seppellire i nostri defunti. Raccontandoli più che rimpiangendoli. Diluendoli in una risata più che imponendoli a ogni cena, tra il primo e il secondo lasciati a metà. Lasciandoci guidare dalla loro stella anziché brancolare nel buio della loro assenza.
Io mio padre l’ho raccontato in mille modi (orgogliosamente e senza farne una bandiera), e altrettanti sono quelli che ho taciuto perché una vita fa romanzo solo se riassunta e scremata.  Oggi mi piace pensare che lui non stia lassù a vegliarmi, tipo santino, ma che se ne fotta di quel mondo terreno nel quale se l’è goduta, dando e ricevendo con divertita equanimità. E soprattutto che si sbracci per convincere tutti i suoi beati colleghi di sorte a farci desistere dal rimpianto social piagnucolante e diciamo anche un po’ ridicolo.
La dignità dei nostri cari, quando non ci sono più, è nelle nostre mani. Più ci mancano, più serve ritegno. Il ritegno è l’unica promessa di fedeltà che possiamo fare a una persona che non c’è più.

L’arte di (lasciar) correre

Mi capita spesso di rivivere eventi vissuti come se li osservassi dall’esterno. Prima di leggere un interessante articolo di Jacob Stern su The Atlantic mi sentivo un po’ a disagio perché credevo che fosse colpa di un mio impulso a revisionare continuamente, a cercare di diluire le mie responsabilità, a esternalizzare i miei complessi di colpa. Invece, con sommo sollievo, apprendo che questo fenomeno non è solo associato a vari disturbi mentali (oddio, ci manca solo questo!), ma è abbastanza diffuso tra le persone, diciamo, sane.
Liquido subito la parte ecumenica del ragionamento, quella larvatamente scientifica.
Come scrive Stern “la distinzione tra ricordi in prima e terza persona risale almeno a Sigmund Freud” e oggi sappiamo, da recenti ricerche, che “più un ricordo è lontano, più è probabile che lo si rievochi in terza persona”.
Solo che a me capita spesso di vedermi in azione, magari in un’azione non ordinaria (tipo visitare un luogo strano, cucinare un piatto mai provato, incontrare una persona che mai mi sarei sognato di incontrare) e sganciare la soggettiva dai miei occhi.

E qui inizia l’abbondante e inarrestabile fase del dopo.

Come accade a tutti, la mia vita è fatta di scelte. E le scelte sono scommesse.
Traducendo: nonostante uno si ostini a caricare di importanza (etica, sociale, religiosa, affettiva) scelte e consigli, le conseguenze sono sempre sgonfie di questo plusvalore poiché la quota di influenza ambientale è talmente alta da renderle per molti versi indipendenti dalle nostre reali intenzioni.
È qui che entra in gioco l’arte di (lasciar) correre, intesa come invito a mollare ormeggi e ad abbandonarsi al flusso del presente senza sbattersi per contrastarlo.
Uno psicologo te la racconterebbe così: “Lasciar correre significa rinunciare alla coercizione, alla resistenza, alla lotta, in cambio di qualcosa di più forte e completo, la conseguenza immediata del lasciare le cose come stanno, senza farsi condizionare da propensioni o repulsioni, dall’intrinseca viscosità di desideri, simpatie, antipatie”.
Io invece la traduco così: “Lasciar correre significa vedere un torto all’orizzonte ed evitare di buttarcisi a capofitto, rinunciare alle pulsioni di giustiziere per affidare ad altri, più in alto e chissà dove, il compito di tirare le somme, vivere di quiete zen, e dotarsi di un ampio repertorio di guance da porgere sin quando ci saranno mani cariche di schiaffi”.
Non è una cosa semplice da archiviare come fatta.
Molto spesso il “lasciar correre” è il rifugio del “chi me lo ha fatto fare”. Ma è anche vero che, soprattutto dalle mie parti, far finta di niente è il succo di una cultura che, lasciando correre, ha macinato morti, umiliazioni e distruzione.

Insomma l’arte di (lasciar) correre è uno di quegli argomenti che si misurano con un’addizione di esperienze. Non basta la mia, non basta la tua, ce ne vogliono molte, incrociate. Possibilmente con un concerto di visioni in terza persona. Per questo andrebbero incrementati per decreto il dibattito, lo scontro ideologico, la crasi di culture. Invece è tutto un appiattirsi di consuetudini. Di atteggiamenti preconfezionati che vorrebbero farsi cultura, ma sono ozio, sonnecchiamento della ragione. Nel mio mondo perfetto ci si accapiglia di continuo per un progetto, si discute allo sfinimento per costruire una nuova città delle idee, si cercano gli opposti e anziché separarli si mettono a confronto. Ma è il mio mondo visto in terza persona, con tutte le cautele del caso.
Per storia personale ho approfondito l’arte di correre. Quanto a quella parola tra parentesi mi sto attrezzando, ma non sono certo di riuscire.

Eretici

Hanno la forza di mettere in discussione il sistema senza negarlo, usano le verità rivelate per tirare fuori verità nascoste, hanno il coraggio di fare rivoluzioni di saggezza e bellezza.
Sono un prete (Cosimo Scordato), un prete mancato (Biagio Conte), e un mangiapreti (Antonio Presti).
Tre moderni eretici. In questo podcast vi racconto le loro storie.

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L’anfetamina dei giornali

C’è un tema molto importante che riguarda l’innovazione nel mondo dell’editoria e nello specifico il rapporto tra lettore e contenuti online. Lo ha tirato fuori il direttore di Repubblica Maurizio Molinari in un’intervista su Prima Comunicazione che ha causato uno sciopero dei giornalisti del quotidiano.  
Dice Molinari parlando della riorganizzazione del lavoro che dovrebbe scattare già all’inizio del 2023:

“E’ prevista una continua indicizzazione dei contenuti, per intervenire rapidamente e costruire un’offerta informativa in linea con le preferenze dei lettori. Il nostro obiettivo è di intervenire in tempo reale, più volte al giorno, utilizzando i dati che raccogliamo sui nostri siti, sulle app, sui motori di ricerca e sui social. Se usi bene in tempo reale il seo, il giornale diventa responsive, dinamico”.

L’apparato digitale, insomma, monitora l’interesse dei lettori e propone contenuti in base alle loro scelte. È un metodo tipico del marketing digitale e soprattutto degli algoritmi dei social network.
In Italia già, ad esempio, il Corriere della Sera offre ai suoi abbonati una sezione chiamata “Le tue notizie” introdotta da questa frase:

“Ti diamo il benvenuto nella nuova sezione del Corriere che mostra le news che incontrano i tuoi interessi. Più navighi, più l’intelligenza artificiale di Corriere imparerà quali sono i temi più rilevanti, per proporre le notizie più affini a te”.

Riassumendo, i giornali online tendono ad assecondare il lettore nelle sue scelte: se quello chiede più cronaca nera gli si dà più cronaca nera, se chiede più tette gli si danno più tette, se chiede più politica estera gli si dà più politica estera. E non solo, l’indicizzazione dei contenuti è talmente raffinata che persino le categorie di cui sopra possono essere ulteriormente scremate: cronaca nera della provincia di Palermo, Bagheria esclusa; tette piccole e non medie né grandi; politica estera con risvolti rosa e sudamericani.
A parte la banalità degli esempi, c’è qualcosa che non vi torna?
Pensateci.
Sì, proprio quella cosa lì.

L’omologazione.

In questo modo avremo offerte giornalistiche sempre più omologate e omologanti con la nostra bolla di interessi, sapremo sempre di più di ciò che già in qualche modo conosciamo, e sempre più difficilmente ci imbatteremo in novità.
Molte aziende editoriali – penso al New Yorker negli Usa ma anche al Post in Italia – attuano procedure diverse, opposte direi. Scavano nelle pieghe di ciò che probabilmente non si sa, cercano di stupire il lettore, gli regalano punti di vista inaspettati, gli raccontano storie di mondi a lui lontani, e non solo geograficamente.
In poche parole: cercano di demolire le echo rooms dei social network e di bucare le bolle informative nelle quali si sono andati a cacciare.
Il giornale responsive, cioè a misura del lettore, non è la soluzione alla crisi mondiale dell’editoria, ma al contrario la sua droga. Un’anfetamina che fa finta di combattere la malattia del sistema bombardandolo con gli stessi virus che lo fiaccano. E illudendolo con nuovi sintomi, confusi e sparsi.
Lunga vita ai giornali in cui il seo non scalza le scelte di un caposervizio di esperienza, l’estro di un titolista, il coraggio di un direttore.

Fiabe da narrar

Non me lo aspettavo, ma ho ricevuto molti messaggi per il podcast su Libero Grassi, un podcast nato incidentalmente per via di una congerie di incolpevoli mediocrità (era un testo che doveva essere altro e che per fortuna altro non è stato). Mi ha sorpreso la dovizia di particolari con cui le persone mi hanno scritto personalmente, argomentando la loro sfiducia nel presente, appigliandosi al dono della memoria, ripromettendosi di fare qualcosa per il futuro.
E ringrazio tutti: lo sto facendo personalmente e privatamente perché credo che sia dovere di chi scrive, scrivere anche senza il dovere di farlo.  

Il punto è un altro.

C’è una fame forte e crescente di storie. Che è una fame letteraria, artistica e sociale. Ogni volta che mi capita di raccontare in pubblico vengo travolto da questa esigenza (quando lo faccio qui è normale avere feedback ma spesso è solo illusione, c’è gente che mette like senza manco leggere due righe): e capisco che non è una cosa che riguarda nello specifico me come narratore, ma è una necessità generalizzata.
Quando il mondo si complica, la narrazione soccorre. E non è semplificazione, ma rassicurazione.

I migliori momenti della mia vita sono stati quelli in cui qualcuno mi prendeva da parte e attaccava: “C’era una volta…”. Perché il “c’era una volta” è la scialuppa del naufrago nel mare dell’insonnia, l’abbraccio dell’orfano degli affetti più immediati, la consolazione dell’esausto, il riscatto dell’umiliato, ma anche la gioia del primo della classe, la celebrazione del vincitore, l’occhio lungo del creativo.
Non c’è mai un momento sbagliato per raccontare una storia, figuriamoci ascoltarla.

Le persone peggiori che ho incontrato – e che incontro – vivono solo della loro narrazione, concentrate sulla bidimensionalità di una vita che sembra appassionante ma che invece è un film scialbo di una pellicola vecchia e noiosa.
Le persone migliori invece stanno lì tra la loro strada e quella di chiunque la incroci per raccogliere testimonianze, per incuriosirsi, per raggranellare il tempo che serve a inseguire la migliore storia della loro vita: quella che ancora non hanno ascoltato.

Le “fiabe da narrar” sono un modo di dare fiducia e al contempo di riscuoterla.

Materia Prima

Strana storia quella in cui c’è un delitto, c’è il movente, ci sono i colpevoli, c’è il tempo che ha provato a lasciar sedimentare la rabbia (anche se la rabbia non sedimenta mai, al limite si cementifica, cresce in verticale come un pilone di autostrada) eppure non c’è la fine. Una storia senza fine non è una storia, è una bici senza ruote, un coltello senza lama, una minestra senza ingredienti.
In questo podcast si ripercorre la vicenda dimenticata di Libero Grassi, l’imprenditore coraggioso che osò ribellarsi al racket delle estorsioni a Palermo e che per questo fu ucciso in uno dei più annunciati delitti di mafia. Ma soprattutto si ricostruisce il contesto in cui quell’omicidio nacque: tra imprenditori apertamente collusi, giornali ipergarantisti, antimafiosi incauti e giudici soli.
Soli come lui.
Cadaveri ambulanti come lui. Buon ascolto.

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Pagine al vento

Le persone che seguono i tg, i giornali, non ne vogliono più sapere delle notizie. Lo dice uno studio molto serio, su scala mondiale. Tra le cause, da un lato c’è una convergenza sociale ed economica: i social, le bolle di disinformazione, i dilettanti allo sbaraglio, l’università della vita. Dall’altro, il fatto che noi giornalisti facciamo giornali fatti per noi, per una sorta di autoerotismo nel quale ci sono le notizie che ci piacciono e quelle che non ci piacciono.
Il podcast con un paio di storie personali.

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Gery Palazzotto
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Per via di due culi

Vi racconto una storia che parla di culi. Proprio così, di culi e di futuro. Tranquilli, niente di scabroso. È una storia che inizia oltre duemila anni fa e che arriva intonsa sino ai giorni nostri.

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Gery Palazzotto
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Per via di due culi
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