Fatti miei, fatti vostri (e grazie)

Contrariamente a quanto fatto in passato, quest’anno ho deciso di elencare gli articoli più letti di questo blog. E l’ho fatto perché dicono molto di me e soprattutto di voi. Come potete vedere, tra i temi che vi hanno interessato molti appartengono al settore “cazzi miei” e ciò non può che consolarmi: se la narrazione prende il sopravvento sulla cronaca vuol dire che la sete di suggestioni, di fantasia è forte, e che i cervelli vanno a buon regime.
Per questo nei miei sogni vorrei ringraziare uno per uno le migliaia di lettori che, da sedici anni, mi seguono con curiosità e alcuni – addirittura – con affetto. Ovviamente ciò è impossibile, ma l’ho detto e non per caso: chissà che un giorno non si possa organizzare qualcosa…

Comunque ecco la classifica e siccome i miei titoli non sempre sono esplicativi metto anche un brevissimo riassunto per rinfrescare la memoria di chi ha già letto e titillare quella di chi magari quel post se lo è perso. Del resto qui è tutto gratis e un clic in più non vi costa nulla.

1 Colleghi e guardati su una lettera ritrovata e su quello che accadde in un importante giornale siciliano.

2 La politica, l’informazione e la merda sulla violenza verbale di un politico rozzo e sguaiato, ergo premiato dell’elettorato.

3 Siamo merde su una donna che un giorno si denuda al balcone e butta giù pezzi della sua vita.

4 Poi sono successe due cose su un toccante incrocio di destini durante il cammino sulla Via Francigena.

5 Per via di due culi su una storia che inizia duemila anni fa e arriva ai giorni nostri (podcast).

6 La magistrata Cuffaro sulla forza e la determinazione di chi non conosce la parola “arrendersi”.

7 Materia Prima sulla storia dimenticata (ma stracitata a casaccio) di Libero Grassi (podcast).

8 Sedici su quando arriva il momento in cui devi cambiare tutto anche a rischio di perdere tutto.

9 Katia (e non è una donna) sul file di un romanzo nato per rimanere nascosto in un file.

10 Il tempo e il lusso dei sogni su “Cenere” l’opera inchiesta scritta per il Teatro Massimo di Palermo e sulla fatica di raccontare oggi.

Altruismo, ovvero egoismo

Per cercare di spiegare la mia idea del Natale devo richiamare la vostra attenzione sull’altruismo efficace, che è una teoria (con un certo seguito) elaborata intorno al 2009 da quello che allora era uno studente di filosofia a Oxford, William MacAskill. L’altruismo efficace si basa sull’idea di usare metodi scientifici per determinare il miglior modo di fare del bene e sostiene che a livello etico e politico il lontano futuro dovrebbe essere considerato importante quanto il presente. La teoria, negli ultimi tempi, è stata promossa da alcune tra le persone più facoltose del pianeta, tra cui Elon Musk.
La principale critica, mossa in prevalenza da quella che un tempo chiamavamo sinistra e oggi chiamiamo tipo “boh progressista” è che l’altruismo efficace è vantaggioso per i ricchi, secondo i quali ad esempio non dovremmo tassare i loro patrimoni in continua espansione anche se le disuguaglianze assediano il mondo e cresce sempre più il numero di chi non riesce ad avere un pasto garantito al giorno.
In pratica i promulgatori dell’altruismo efficace sostengono che i ricchi devono conservare le loro fortune, possibilmente intoccate, in modo da poterne donare una parte a organizzazioni benefiche e da poter produrre nuovi posti di lavoro.

Il motivo delle righe che avete appena letto sta nel fatto che questo 2022 è stato per me un anno complicato proprio sul fronte del rapporto con gli altri. Dopo la pandemia non mi sono dato alla pazza gioia, sono rimasto abbastanza raccolto tra le mie cose, ma mi sono anche interrogato su come potevo far godere chi è meno fortunato di almeno un minimo della luce nella quale, in solitaria, mi ero ritrovato.
Ho intensificato i miei progetti di beneficenza, ho cercato di aprirmi ai giovani per dar loro nuove occasioni creative, ho sposato un paio di linee guida che qui riassumo brevemente.
1) Dare a chi non ha (e io non sono ricco!), sempre e quanto più possibile.
2) Uscire dalla logica dell’aiuto saggio e lungimirante. Si vive anche di cose provvisorie e superflue e non è detto che a un affamato faccia più piacere un tozzo di pane rispetto a un bicchiere di vino.

Così ho coltivato l’altruismo efficace dal mio punto di vista cioè dal presente, senza curarmi della prospettiva. Far godere ora e adesso chi non ha la nostra fortuna.
Tutto è andato bene sino a quando non mi sono misurato con la crudezza della realtà, perché quando facciamo volontariato e/o beneficenza in qualche modo tentiamo di immergerci in un mondo parallelo. Un mondo in cui ci laviamo delle nostre insulsaggini, in cui cerchiamo un’assoluzione tardiva per qualcosa, in cui inseguiamo la rivincita nei confronti di un senso di colpa, in cui siamo noi ma non siamo noi, siamo quelli che volevamo essere e che non abbiamo avuto il fegato di diventare.
L’altruismo è la forma più sublime di egoismo poiché ci dà l’opportunità di fingerci migliori.

Ma poi accade l’impensabile più scontato, l’imprevisto più annunciato.
Che la persona alla quale hai voluto regalare il tuo aiuto, ovviamente in modo anonimo, cessi di vivere. A tradimento, almeno per te che ti eri illuso di essere finalmente utile per qualcosa e qualcuno che vada oltre il tuo orizzonte perbene e ovattato.
E ti disperi perché ti dici che l’altruismo è benedetto da dio, è forza, è ragione, è yoga dell’anima, è convenienza sociale, è purga dei cattivi pensieri, è il tuo futuro.
Non può finire così, ti dici. Non mi togliete la soddisfazione di fingermi migliore.

Ecco, a questo penso per Natale. Il mio altruismo efficace è tutto rivolto a una persona che non ho mai conosciuto, ma alla quale ho affidato tutte le mie possibilità di riscatto. Una persona che ora non c’è più e che non saprà mai quante cose superflue sarei stato felice di elargire, quanta vita le avrei rubato (a dispetto dei paradossi della medicina e della scienza più inoppugnabile).
Le cose cambiano, ancor di più per queste feste giacché come si dice non c’è nulla di più triste in questo mondo che svegliarsi la mattina di Natale e non essere un bambino.

P.S.
Quando ho scritto questo post non ero sicuro di volerlo pubblicare. Se lo state leggendo vuol dire che il direttore del mio “ufficio sensi di colpa” ha schiacciato il tasto invio per i fatti suoi. E in questi casi comanda lui.
Buon Natale.

Accuratezza

Sono ipersensibile alle cose fatte senza cura, ma è un problema molto personale perché – è giusto dichiararlo subito – la mia non è una visione virtuosa per così dire pura, bensì un modo di sentire, di registrare, di operare legato alla compulsività che deriva dal mio DOC (di cui vi ho detto svariate volte, tipo qui e qui). Insomma la mia spasmodica ricerca dell’accuratezza è in gran parte frutto di una condizione psicologica che il più delle volte è compatita, raramente capita.
Comunque non è di bruttoanatroccolite che voglio parlarvi ma di felice compiutezza.
Erroneamente crediamo che l’accuratezza riguardi solo il sistema lavorativo, e al limite quello sentimentale mentre non è così: abbraccia tutti i campi della nostra vita. Soprattutto c’è un equivoco che va tolto di mezzo in modo definitivo: che l’accuratezza sia una garanzia di qualità, di positività. Sappiamo bene che ci sono cose sbagliate fatte benissimo e cose giuste fatte malissimo. E che l’impegno nel compiere un atto non ha nulla a che vedere con l’etica dell’atto stesso (del resto siete in un blog che ha persino un podcast intitolato “Le cazzate sono una cosa seria”). Quindi cosa è esattamente l’accuratezza e quanto pesa nella nostra vita?
Nella vostra non so, posso dire della mia.
Per me è un enzima, una sorta di catalizzatore che accelera reazioni. Non a caso la sciatteria che ci circonda ha come primo risultato l’immobilismo, il sacrificio di qualunque intenzione sull’altare del quieto vivere, il preservare spesso interessato dello status quo. Infatti l’accuratezza tutto è tranne che una forza conservatrice. Persino nelle sue deviazioni più trasversali (che in alcuni casi non sono malaccio, almeno da indagare), tende a rifinire sino all’estremo, a purificare dalle imperfezioni: quindi comunque a innovare, dato che raffinare è sempre un atto che guarda al futuro.
Ha una controindicazione, l’accuratezza. Costa.
Costa in termini energetici, economici, psicologici, sociali. Nulla di accurato è gratis (e non parlo ovviamente solo di moneta). Infatti un prodotto, inteso non solo come un manufatto, nel quale c’è cura si riconosce nella brodaglia delle intenzioni incolte.
La stragrande mole di eventi, reazioni, relazioni che mi/ci circonda gira attorno al perno sbilenco della sciatteria, della scarsa affezione, della famosa massima siciliana per cui “il cane non è mio” (cioè non sono fatti che in fondo mi riguardano). Persino una cosa brutta fatta con accuratezza sta su un livello diverso rispetto a una cosa brutta fatta male: avrei molti esempi, ma preferisco che ognuno di voi si raffiguri il suo.
L’accuratezza è un antidoto, un vaccino, che ha le sue controindicazioni (tipo i costi appunto). Ma che ci preserva dalla dittatura del qualunque, dalla nube endemica dell’indifferenza (che talvolta soffoca più dell’odio), dall’egoismo fatto sistema, dalle sveltine delle scorciatoie.
Ripeto, non è garanzia di probità, ma di pacificazione con se stessi.

Ossimori si nasce

La morte Sinisa Mihajlovic mi ha davvero colpito – tipo occhi lucidi da rincoglionito – perchè è l’evento annunciato più inaspettato, perché è il finale del film che ti stronca, perché tu dici che non può essere vero sapendo che era perfettamente possibile ma anche perfettamente impossibile. Mihajlovic è la morte di ciò che mi ha salvato in anni difficili e ancora oggi mi tiene vivo: l’ossimoro. Perché, se ci pensate, chi vive vite mediamente non qualunque si affida all’ossimoro (figura retorica consistente nell’accostare, nella medesima locuzione, parole che esprimono concetti contrari, CIT). Noi ammiratori di Mihajlovic, anche senza sapere nulla di calcio, del suo calcio, siamo attratti da chi ci racconta una storia e al contempo ci strapazza con un giudizio tranchant. Siamo portatori sani di passioni, e ammorba(n)ti di debolezze creative. Siamo piede e testa, sudore e sangue (e che globuli bianchi!), idee e cieli plumbei. Viviamo nel buio illuminato, godiamo di un’infinita provvisorietà e ci illudiamo che una malattia in fondo sia un appuntamento per una festa di guarigione in più.
Questo era Sinisa Mihajlovic per me e per quelli come me dei quali non gliene fotteva niente delle sue punizioni a 160 km all’ora, ma che si commuovevano quando lo vedevano, in piena pandemia, in un popolare programma di quiz a perculare conduttore e concorrenti come se fosse la famosa lumaca di Pirandello che sulla padella sfrigola e pare che ride. E invece muore.

Ossimori si nasce, e per fortuna degnamente si esce di scena.

Peggiorare, per fortuna

Piccolo ripasso (della serie il web utile). Le sensazioni gustative pure, basate sui cinque sapori fondamentali (acido, amaro, dolce, salato, umami), segnalano la digeribilità e il valore nutritivo o tossico degli alimenti. Fin dalla nascita il neonato umano mostra di gradire alcuni sapori e di essere disgustato da altri. Il sapore dolce, che indica la presenza di carboidrati apportatori di calorie, è piacevole per tutti i mammiferi, incluso l’uomo, con l’eccezione dei carnivori (in tal senso io sono equiparato a un tossicodipendente). Il sapore salato, spiegano gli scienziati, può risultare sgradevole nella primissima infanzia, ma con la crescita “esso viene ricercato, specialmente se vi è carenza di sodio, elemento essenziale per la vita”. L’aumento della preferenza per cibi salati, che si verifica quando il bilancio del sodio è negativo, non è osservabile nel neonato poiché richiede un periodo di maturazione, indipendente da un apprendimento specifico.

La repulsione per cibi fortemente acidi è un’ovvia difesa contro il potere corrosivo che gli acidi possono esercitare sui tessuti biologici, e parlo a nome della grande famiglia dei followers dell’ernia iatale. A dire il vero suscitano un’avversione innata anche varie sostanze di sapore amaro, probabilmente a causa della loro scarsa digeribilità o tossicità. Molti veleni vegetali hanno un sapore amaro, Agatha Christie docet, ed è verosimile che “fra i progenitori prevalentemente frugivori (cioè che si nutrivano di frutta o semi) dell’uomo moderno sia avvenuta una selezione naturale a favore degli individui geneticamente predisposti a evitare cibi amari”. La reazione riflessa e innata di rigetto nel confronto di sapori amari consiste “nell’apertura della bocca, nella protrusione della lingua e nell’espulsione del contenuto della cavità orale, o anche nel vomito”. La notizia meravigliosa è che questa reazione, che è già osservabile nel neonato umano, nell’adulto può essere inibita nel caso di sapori amari come quelli del caffè, della birra, degli aperitivi, di alcuni deliziosi superalcolici e dei cioccolati amari, che con l’esperienza possono diventare gradevoli. Molto gradevoli.

Tutto questo ripassino per ribadire che non solo siamo ciò che siamo stati, ma che per fortuna possiamo migliorare: peggiorando.

Sedici

Arriva un momento in cui può capitare di aver bisogno di cambiare. Di cambiare tutto.
A me accadde sedici anni fa, nel modo più tranciante. A un certo punto mi resi conto che non ero più soddisfatto di quello che facevo, non mi divertivo più e anzi, a dire il vero, mi rompevo abbastanza le scatole per ogni giorno che il Signore mandava in terra. Decisi così la mia personale rivoluzione, una rivoluzione nella quale – va detto – fui molto fortunato giacché partivo, lancia in resta, con molte possibilità di fallire e addirittura di farmi male.
Nel giro di pochi mesi mollai un posto da viceredattore capo al Giornale di Sicilia (un posto di quelli ritenuti allora sicuri, ben retribuito), chiusi porte e portoni di ogni genere e finii a gambe all’aria. Vi dico solo che per una settimana dormii in auto, dato che non avevo più neanche una casa in cui stare.
Non sono mai stato ricco, provengo da una famiglia borghese ma di certo non ricca, quindi la situazione era abbastanza complicata. Fu così che una sera decisi di andare a casa dei miei genitori, fino a quel momento all’oscuro di tutto, e di metterli al corrente dei miei casini. Mi ero preparato al peggio, i miei mi avevano sempre ritenuto (almeno sino a quel momento) una testa calda ed ero pronto se non allo scontro, a sorbirmi una ramanzina.
Invece andò diversamente. E credo che lì, quella sera, tutto cambiò davvero.

Non appena cominciai a raccontare degli sfaceli che deliberatamente avevo scelto come estemporanea filosofia di vita (perché accade che le migliori scelte siano quelle che a prima vista sembrano le peggiori, ma lo veniamo a sapere sempre troppo tardi) mio padre aprì una bottiglia di vino mentre mia madre si mise ai fornelli. Eravamo tutti e tre in cucina ed il loro modo di ascoltare fu un misto di attenzione e cura; volevano fare con semplicità quello che sino ad allora non gli era riuscito facile, prevalentemente per colpa mia, cioè darmi una sensazione di sicurezza.
Fu così che in una sera feci il più importante giro di boa della mia vita.
Decisi di farmi una casa tutta mia, niente più affitti, convivenze in proprietà altrui, falso godimento della provvisorietà. Volevo mettere radici in un mondo in cui vivere soddisfatto. Imparai mestieri nuovi, grazie sempre alla scrittura: scoprii che c’erano pochi ghostwriter in Italia e riuscii in pochi mesi a trovare lavoro in un paio di importanti gruppi editoriali; scrissi da perfetto fantasma di tutto per tutti, dalle radio alla carta stampata; condussi una rivoluzione web in un paio di periodici nazionali; scrissi qualche libro e così via.
Ma soprattutto affrontai la prova delle prove: vivere a casa dei miei genitori, con i miei genitori, per sei mesi. In pratica a 43 anni mi ritrovai ragazzino, alle prese con riti che avevo dimenticato, con antiche usanze domestiche (tipo che si pranza e si cena sempre a una certa ora). Dovetti riprendere confidenza con la cura culinaria di mia madre che, pensandomi sempre denutrito nonostante la testimonianza inoppugnabile del girovita, alle 8 di mattina assieme al caffè serviva il menù della cena per il quale si era messa ai fornelli già alle 5 (perché certe cose se non le cucini all’alba non sono buone…). Imparai a condividere i cazzi miei con mio padre, il quale con amorevole candore riteneva naturale sedersi accanto a me quando ero al computer e commentare tutto, ma proprio tutto, ciò che scrivevo mentre lo scrivevo: soprattutto le cose più personali (la curiosità spudorata deve essere un tratto genetico). Insomma ero un figlio ritrovato e mio padre, affamato di storie, esercitava legittimamente il meraviglioso diritto all’invadenza affettiva.

Questa storia ha un paio di passaggi che, ancora oggi, mi sembrano irreali: sapete, quei ricordi che col tempo diventano un film e vivono per decenni in un limbo tra fantasia e realtà…
Una mattina, la prima in cui mi svegliai in quella casa nella rinnovata veste di figliol prodigo, rimarrà memorabile negli annali della mia famiglia.
Mi alzai ed ero solo poiché i miei avevano programmato una gita fuori porta. Poco male, mi dissi, così mi ambiento senza rompere le scatole a nessuno (ovviamente i miei sensi di colpa erano alle stelle). Feci colazione con vista sul mare, poi stancamente fumai la prima sigaretta. Dopo andai a lavarmi i denti nel bagno dei miei. Mentre agivo di spazzolino sentivo qualcosa di strano, ma pensai che era colpa di quella sigaretta prematura (solitamente non fumavo mai di mattina, ma in quei giorni ero incasinato, preoccupato, scazzato e fumavo il fumabile sempre e dappertutto). Quando mi accorsi che l’impasto tra i denti aveva assunto una preoccupante consistenza oleosa decisi di inforcare gli occhiali e presi il tubetto.
Crema per i piedi.
Così imparai la prima regola del manuale del figliol prodigo più figliol che prodigo: casa che vai stranezze che trovi e più non dimandar.
I miei genitori nella loro categorizzazione delle cose tenevano in buon conto quella dei tubetti, a prescindere da ciò che essi contenevano. Quindi la crema per i piedi stava insieme al dentifricio, e non ho mai avuto l’opportunità – perché da allora misi attenzione (e occhiali) prima di compiere un’azione in cui c’era da spremere un contenitore – di verificare altre coesistenze balzane: chissà, con un po’ di impegno un giorno avrei spalmato della maionese per contrastare le occhiaie o avrei usato del Lasonil per lucidare le scarpe. Comunque ci misi un’ora per sciacquarmi la bocca e cinque sigarette per riacquistare lucidità. Poi, data la bella giornata, decisi di mettermi al sole.
Sparai musica a palla dalla radio dell’auto parcheggiata vicino, e chiusi gli occhi.
Uno spruzzo in volto.
La sensazione di qualcosa che viene giù dal cielo.
“Cazzo, piove!”
Apro un occhio ma il sole è abbagliante.
Altra roba addosso. Frammenti umidi, sempre di più.
Non era pioggia. Ma… sardine.
Sì, sardine. O comunque pesciolini che venivano giù dal cielo.
In un paio di minuti dovetti fuggire perché ero tempestato da una pioggia di animali (io, vegetariano!).
Ci misi un bel po’ a razionalizzare come accade quando ci si trova dinanzi a un evento che si annuncia figlio (indegno) del paranormale.
Alzai gli occhi e vidi una battaglia di gabbiani che si disputavano qualcosa proprio sopra la mia sedia a sdraio. Capite bene che il passaggio dal “tubetto selvaggio” al “piovono pesci” fu traumatico. E soprattutto indelebile.

Tutto ciò accadde nel primo giorno della mia emancipazione da una vita insoddisfacente. E, ne sono certo, ci fu una “mano de Dios” per darmi una lezione: della serie impara a vivere, non ti meravigliare troppo per ciò di non sai e non rompere il cazzo con ciò che credi di sapere.
Da lì la convivenza coi miei fu una discesa. Mi abituai a discutere di pasta coi broccoli arriminati e di peperoni ripieni appena sveglio, e a rispondere a mio padre che all’una di notte, allarmato perché non ero ancora rientrato a casa (a 43 anni!), mi telefonava e affettuosamente si diceva preoccupato: “Tranquillo pa’, sto bene. Tra poco torno”, biascicavo da un pub la cui unica attrattiva era la birra era che costava poco.
La cosa che ho imparato da quell’esperienza – che qui ho riassunto togliendo il 90 per cento degli aneddoti (alcuni dei quali mi riservo di raccontarvi) – è che non è mai troppo tardi per tornare sui nostri passi, che i pregiudizi non sono giudizi anticipati ma cazzate definitive.

Soprattutto mi preme dirvi perché vi ho raccontato questa storia.

Sedici anni fa, in quel ciclone di follie, mi inventavo una casa virtuale mentre costruivo una casa reale.
Esattamente sedici anni fa nasceva questo blog. Con una consapevolezza: che avrei vissuto giorni da radice e giorni da foglia in un’esistenza, virtuale e reale, che è sia albero che vento.
Per ora, buon vento.

La magistrata Cuffaro

C’è una ragazza che ha studiato, che ha fatto un mestiere difficile: superare esami, concorsi, vincere dottorati senza santi in Paradiso. E anzi nel suo personale Paradiso era più facile che le tagliasse la strada qualche demonio. Ha nuotato controcorrente e lo ha fatto come è giusto in silenzio, risparmiando il fiato. Neanche quando l’hanno fischiata a mezzo social lei si è distratta. Aveva qualcosa di infinitamente più importante da fare: studiare, macinare prove, risparmiare il fiato. La sua è stata una corsa a ostacoli poiché la vita è semplice per chi si dà per vinto e complicatissima per chi si dà sempre nuovi obiettivi.

Questa ragazza oggi ha un mestiere per il quale ha lottato più dei suoi coetanei. Il suo handicap era il più complicato da superare dato che aveva a che fare con gli affetti più intimi e col conflitto che questi, ogni tanto, possono generare con la ragione, col sentire comune, con gli  umanissimi momenti di sconforto. Solo chi ha provato le asperità della vita, quelle vere, sa che ci sono ultimi anche tra i primi, che ci può essere povertà anche nella ricchezza e solitudine nella folla. Siamo tutti molto bravi a distribuire patenti, un po’ meno a meritarle.
Oggi questa ragazza è magistrato.
Che sia la figlia di Totò Cuffaro, di un uomo che ha sbagliato gravemente, non la rende una professionista migliore. Ma rende migliore un contesto in cui caparbietà, impegno e spirito di sacrificio ogni tanto contano.

Scopro le carte

Qualche giorno fa ho scritto sui miei ispiratori, persone e personaggi che in qualche modo mi hanno influenzato nella professione, nelle passioni, nello sport e in generale nella visione delle cose del mondo.
Non è una classifica, né una walk of fame. Non ci sono etica e rimbalzi sociali a condizionarmi. Non è una lista di buoni, di geni, di perfetti, di modelli: alcuni di loro lo sono innegabilmente, altri sono persone qualunque che hanno “funzionato” magari solo con me, a loro insaputa. Non è nemmeno una resa dei conti. Perché sono grato a ognuno di loro e se mai ci fosse da pagare un conto, dovrei essere io a mettere la mano al portafoglio.
Insomma completiamola, quest’opera. E spieghiamo. Spiegare non è mai superfluo. Magari provateci anche voi: a una certa età mettere nero su bianco le cose importanti fa sempre bene.

Donald Fagen è la mia musica con e senza gli Steely Dan, la mia vita si divide tra prima e dopo The Nightfly. (Lo sto ascoltando mentre scrivo queste righe)

Stephen King è il maestro anzi il Re. Non ho mai letto un suo libro distrattamente, neanche quelli che mi sono piaciuti meno.

Gino Vannelli è la colonna sonora delle mie imprese sciistiche. Ancora oggi quando ascolto Brother to Brother sento odore di sciolina nell’aria.

Phil Collins, perché non è ancora morto.

Sheila E., la vidi in concerto con Prince (di cui sotto) e capii che grazia e potenza e bellezza stavano tutte lì, davanti ai miei occhi stralunati.

Manolo l’ho frequentato da ex arrampicatore, da giornalista e poi da amico.

Toni Valeruz mi fece venire la più insana delle idee della mia vita: buttarmi con gli sci da una pietraia di Monte Pellegrino. Per fortuna ci ripensai, altrimenti non sarei qui. O ci sarei a rate.

Prince è stato il mio alfabeto musicale.

Clare H. Torry perché è la voce più bella della canzone più bella.

Nick Hornby scrive con la fluidità e la serena spensieratezza che vorrei avere io e che nessuno ha, a parte lui.

Ernest Shackleton è il mio eroe della più grande avventura cinematografica che non è mai stata un film.

Moana Pozzi, perché l’ho conosciuta e non dimenticherò mai che l’intelligenza è sexy.

Salvo Licata è stato il mio maestro di giornalismo e, diciamolo, di vita.

Wassily Kandinsky, perché i suoi colori visti all’Hermitage di San Pietroburgo li ho ancora negli occhi.

Italo Calvino, le “Lezioni Americane” è il libro che mi ha cambiato la vita. E che mi ha costretto a fare conferenze sui libri che cambiano la vita…

Claudio Magris, ovvero il Sommo Magris.

Roger “Verbal” Kint (attenzione spoiler!) è Keyser Söze, il protagonista del più bel giallo-thriller di tutti i tempi.

Oriana Fallaci, perché non essere d’accordo con lei era insostituibile spunto di arricchimento.

Graham Vick, un grande regista teatrale, uno dei giganti che ti metteva a tuo agio con idee di una genialità sconvolgente e che non ti guardava mai dall’alto in basso. Una volta con lui realizzammo un fotoromanzo…

Pat Metheny, la chitarra e il chitarrismo quando volevo essere un chitarrista.

Donna Summer, il primo turbamento sensuale per un sussurro che veniva fuori da un vinile.

Filippo Carollo, l’amico che mi manca ormai quasi da trent’anni. Un amico che non sono riuscito a salvare.

Peppino Sottile, il giornalista che mi ha dato fiducia nonostante la sua intransigente ferocia. Ancora oggi quando ci sentiamo cito a memoria le sue cazziate.

Guido e Maurizio De Angelis. Il primo 33 giri che ho consumato sino a piallarlo. Un The Best delle loro colonne sonore: da “Piedone lo sbirro” a “Altrimenti ci arrabbiamo”, da “Per grazia ricevuta” a “Orzowei”.

Niccolò Ammaniti perché “Ti prendo e ti porto via” è il mio romanzo d’amore.

Maria Cefalù è stata una regista della Rai siciliana che per prima mi ha affidato un programma radiofonico – avevo vent’anni – ed ebbe il coraggio di anticipare a mio padre che no, non sarei stato un medico.

Stanley Kubrick perché non conosco un regista che ha attraversato generi e scritture così diverse come ha fatto lui.

Olivia Newton John per la sua grazia eterna. Di grazia siamo affamati, ma non ce lo confessiamo.

P.S. La foto è di trent’anni fa – Val Thorens, 3.500 metri di quota, 26 gradi sotto zero – e ha dentro gran parte di ciò che ho scritto in queste righe. Basta guardarla con un pizzico di compassione ;)

Riassunto delle serie tv precedenti

Riassunto delle serie tv precedenti.
Partiamo dalla più recente. “1899” nata dai creatori di “Dark” è un guazzabuglio di generi: fantascienza, mystery, horror, storico e quello che volete. Da qualunque parti la si guardi è una serie talmente complicata (e a mio parere astrusa) da stordire coi suoi effetti e le sue continue virate. Insomma un continuo succedersi di punti interrogativi che alla fine oscurano la vista. Se avete di meglio da guardare, andate oltre.

“Babylon Berlin”, al contrario, è un prodotto di altissimo livello, molto raffinato, con un reticolo di storie magicamente intrecciato e soprattutto con un garbo geniale che fa della sua musica qualcosa di unico: in un paio di occasioni sono tornato indietro per rivedere e riascoltare…

Segnalo “Wanna” su Netflix, errori e orrori di Wanna Marchi, figlia e clan. Come prodotto italiano è ben girato. Notevole il montaggio.

Di “Better Call Saul” vi ho detto.

Su Raiplay una perla: “Tortora, storia di un’ingiustizia”. Una breve (fin troppo) trattazione del caso più eclatante di cialtronismo giudiziario italiano. Una rara accozzaglia di pm, giudici, pentiti e giornalisti lestofanti inchioda un giornalista e uomo di forte impatto televisivo a un’accusa palesemente falsa. Alla fine nessuno di loro pagherà (come accade spesso, vedi depistaggio Borsellino) e il povero Tortora ne uscirà devastato nell’immagine e nel fisico. Bella e toccante la testimonianza dell’avvocato Della Valle, un gigante di umanità in mezzo a nani del diritto con varie inclinazioni criminali.
Da vedere e far vedere nonostante l’improponibile app di Raiplay.

Infine ammetto di esser stato catturato da “The Blacklist” che è, per intenderci, un “24” all’ennesima potenza. In più Raymond Red Reddington non è Jack Bauer poiché ha più di due espressioni e, soprattutto, è credibile nella sua incosciente risolutezza. L’attore che gli dà vita, James Spader, è nella mia classifica nella top fine dei personaggi più incisivi e “contagiosi” visti in una serie tv.
Insomma, se avete bisogno di svuotare il cervello, o di diluire lo stress, o semplicemente di divertirvi col male assoluto che per magia diventa gioco ammaliante (senza faticose perversioni), questa serie può esservi utile.

La quarta stagione di “Stranger Things”, a parte alcune lentezze narrative in cui i personaggi cercano un approfondimento soggettivo che non meritano perché sono essi stessi figli di un divenire corale, l’ho trovata geniale (come le altre). In questa serie la materia più grossolana – mostri, terrore, fine del mondo, splatter senza confini – è maneggiata con una grazia e un mestiere ammirevoli. Del resto solo una mente geniale (anzi, in questo caso, due) poteva immaginare che per salvare il mondo ci si potesse aggrappare a una canzone non indimenticabile di 37 anni fa. E che i giochi, a disco fermo, potessero riprendere con chissà quale ripescaggio musicale (a questo proposito andatevi a rivedere il finale della terza stagione con un “Neverending story” memorabile per chi ama leggere, ascoltare, scrivere, sognare, stupirsi).

P.S.
L’immagine di questo post è dedicata a quella che per me è la serie più bella e determinante in assoluto.

Grandi Ispiratori

C’è una lista immaginaria di Grandi Ispiratori che, negli anni, mi sono ripromesso di compilare e che per pigrizia non ho mai iniziato a scrivere.
Lo faccio adesso con la consapevolezza che è comunque una lista parziale, dato che spero di non morire al clic di invio di questo post (anche se non sottovaluto l’influsso di certi miei detrattori…).
I Grandi Ispiratori sono scrittori, artisti, sportivi, esploratori, liberi pensatori, persone qualunque che hanno condizionato il mio modo di pensare, di scrivere, di agire. Sono quelli le cui gesta in qualche modo hanno un riflesso nel mio vivere quotidiano: il mio giudizio è assolutamente soggettivo, cioé non è legato a un’etica o a un riverbero sociale del personaggio in questione. Per questo ci troverete dentro nomi di ogni genere e assortimento.
È la mia lista e un giorno, forse non lontano, vi svelerò i dettagli che mi legano a ciascuno di loro (alcuni dei quali sorprendono ancora persino me).

Donald Fagen
Stephen King
Gino Vannelli
Phil Collins
Sheila E.
Manolo
Toni Valeruz
Prince
Clare H. Torry
Nick Hornby
Ernest Shackleton
Moana Pozzi
Salvo Licata
Wassily Kandinsky
Italo Calvino
Claudio Magris
Roger “Verbal” Kint
Oriana Fallaci
Graham Vick
Pat Metheny
Donna Summer
Filippo Carollo
Peppino Sottile
Guido e Maurizio De Angelis
Niccolò Ammaniti
Maria Cefalù
Stanley Kubrick
Olivia Newton John