Maschere

Il carnevale l’ho sempre odiato, a parte una volta in cui organizzai una mega festa in maschera a Palermo (in realtà non la organizzai, feci l’istrione in cambio di una quota dei profitti) e guadagnai un mazzo di soldi col quale mi comprai una moto. Per il resto, delle carnevalate con annesse maschere e finzioni ricordo un orribile costume che mi venne imposto da bambino: frac, cappello alto (ancora oggi non so come si chiama), pantaloni a tubo e bastone. Io pensavo di essere travestito da vecchio e invece appresi con orrore che il mio era un costume da lord inglese. Non lo dimenticherò mai: lord inglese. Che minchia voleva dire lord inglese?

I miei amici avevano Zorro, Superman, Strega (c’era una strega di dieci anni che mi toglieva il sonno), cowboy. Mio fratello era vestito da indiano: col copricapo di piume (ancora oggi non so come si chiama), un paio di stracci colorati addosso, quattro strisce in faccia e faceva la sua figura.
Io ero lord inglese. Che nella mente di un bambino significa una persona poco pulita che sta oltremanica (oltremanica è un concetto che ho metabolizzato molto dopo, ma ora serve per sdrammatizzare).
Tutti gli zombie, gli sceriffi, le principesse, le fate (c’erano fatine truccate che ancora oggi ricordo con imbarazzante turbamento) mi chiedevano “da cosa sei vestito”? E nell’attesa disperata di trovare una risposta – i vestiti di carnevale duravano anni, mica si smaltivano in tempi ragionevoli – mi inventai una risposta che era anche una soluzione. Riuscii a farmi regalare un bastone diverso da quello da vecchio che mi era stato assegnato: era un bastone che svelava un’anima da spada, ovviamente finta, di plastica.
Quindi aggiornai la narrazione: chi poteva portarsi appresso un arnese del genere? Non certo un fantomatico lord inglese, ma…
… un agente segreto!
Fu così che trasformai un handicap in un’occasione.
Ero travestito da agente segreto!
Un vestito insulso – devo avere qualche foto se non si è autodistrutta – per miracolo diventò un travestimento del travestimento.
Ero uno 007 con licenza di sopravvivere in mezzo a costumi più divertenti, finzioni vere.
Solo molto tempo dopo avrei imparato che i carnevali passano, ma certe maschere restano.

Money Money Money

I deputati dell’Assemblea regionale siciliana hanno aumentato il loro stipendio di quasi 11 mila euro lordi all’anno, circa 890 euro al mese. Un adeguamento legato all’adeguamento al costo della vita secondo l’indice Istat.
Il mio compenso, e quello della maggior parte dei precari (io precario sono), dei lavoratori a partita iva, dei liberi professionisti che denunciano tutto quel che guadagnano, è fermo da secoli. Anzi, per via degli slalom della vita, oggi prendo in proporzione meno di vent’anni fa. Ma tiro avanti con serenità non perché sia ricco o campi d’aria, ma perché questo mi offre il mercato: e io sono uno fortunato, che fa un lavoro creativo e che ringrazia Dio per ogni giorno che manda in terra.

Breve panoramica per capire di cosa stiamo parlando.
Secondo i dati Ocse 2022, tra il 1991 e il 2021 il livello medio degli stipendi in Italia è cresciuto dello 0,36 per cento, mentre nello stesso periodo in Germania e in Francia l’aumento è stato pari al 33 per cento. Alcuni paesi dell’Unione europea hanno registrato aumenti anche maggiori: gli stipendi in svedesi sono cresciuti del 72 per cento e quelli irlandesi dell’ 82 per cento.
A ciò va aggiunto l’ulteriore differenza, all’interno del nostro Paese, tra chi lavora al Nord e chi lavora al Sud, nonostante qui entrino in gioco altri parametri come il costo della vita.

Questioni economiche e sociali a parte, credo che in Italia ci sia un problema – almeno per quel che mi è capitato di osservare intorno a me – nel riconoscimento delle professionalità. Si continua a pensare che se ci sono due persone che hanno costi differenti, a parità di opera svolta, sia opportuno scegliere quella che costa meno, a prescindere da abilità, competenza, affidabilità.
In questo scenario si celebrano volgari cerimonie di indignazione per lo stipendio del sovrintendente di un grande Teatro d’opera – uno che fa un lavoro che si vede e i cui risultati si toccano con mano – e si passa tranquillamente sopra gli aumenti a raffica dei deputati regionali siciliani, il cui lavoro e i cui risultati sul campo sono tragicamente evidenti.   

Marty, Doc e i film salvavita

Molti di noi hanno film salvavita, film che a un certo punto devono essere rivisti. Non c’entrano i gusti cinematografici, il rispetto per pellicole di alto livello, le esigenze culturali, c’entra solo una pura necessità biologica. Sono film che magari piacciono solo a noi e che ad altri fanno cagare, che in pochi hanno visto o che al contrario sono prodotti ultra pop. Che siano capolavori o semplice immondizia non importa, non ci importa: il nostro cervello chiede di metterci lì a guardarli per l’ennesima volta perché ne ha bisogno, come di una pasticca magica. Un Viagra per l’autostima.

Io ne ho diversi (tipo cinque), ma il podio è tutto per la trilogia di Ritorno al Futuro. Ogni tot di anni devo ricavarmi cinque ore e abbeverarmi alla fonte della felicità.
Vi ho già detto della mia insana passione per i viaggi nel tempo (ci ho pure basato lo schema narrativo di un’opera) e ovviamente nel capolavoro di Robert Zemeckis e Bob Gale il grande arcano è tutto nel motore bizzoso della DeLorean DMC-12 che tramite il “flusso catalizzatore” consente di muoversi nel fluire degli anni in modo quasi istantaneo.
Più volte nel corso della mia vita ho cercato di decrittare gli elementi di fascinazione di “Ritorno al futuro” e solo qualche notte fa, al termine di una gioiosa maratona in cui avevo inseguito i destini di Marty McFly e del Dr.Emmett “Doc” Brown, sono riuscito a raggranellarne alcuni.

Innanzitutto la cura del dettaglio, non solo in senso narrativo (quella è una deformazione professionale che qui cerco di mettere da parte), ma proprio nella sua essenza umana, sociale. Nulla nella trilogia è lasciato al caso, proprio nulla. Un fax, la sovraccoperta di un libro, una foto ricordo, un incidente stradale, un binario morto, un riff di chitarra, un sorriso complice, una cazziata del preside. Tutto ciò che sta ai margini, nascosto nelle pieghe della consuetudine può diventare maestosamente importante, tutto ciò che sfugge all’eccezionalità può capovolgere un destino, tutto quel che sembra può non essere e viceversa.

Poi il sistema dei rapporti umani, che più semplici sono e più complicati diventano da descrivere. Marty e “Doc” sono amici, ma non si salvano a vicenda rivelando ciascuno all’altro le trappole (mortali) del futuro. Cercano di farlo, ma non insistono: perché conoscere il futuro è pericoloso e potrebbe influire “sul continuum spazio-temporale e determinare un evento catastrofico”). In tutta la trilogia l’amore madre figlio, fidanzato fidanzata, marito moglie, è affidato a una geometria di eventi che non si può modificare, pena la creazione di universi paralleli in cui nessuno è ciò che era e mai più lo sarà. Gli autori riescono a sfiorare il tema dell’incesto con divertita grazia a conferma che tutto si può narrare se si è in grado di farlo per abilità creativa e disponibilità di audience adeguata. Non so cosa sarebbe successo se il film fosse uscito oggi anziché nel 1985, probabilmente un Comitato di genitori proto-cattolici si sarebbe mobilitato contro il messaggio diseducativo di un film che manda indietro nel tempo un ragazzo di cui la futura madre si innamora.

Infine il destino del protagonista. L’eroe giovane e spensierato, idolo di noi giovani e spensierati, inciampa e cade non nella rete di tranelli dell’odioso Biff Tannen, ma nella tela invisibile del Morbo di Parkinson e solo un anno dopo aver finito di girare l’ultimo episodio della trilogia vede la sua vita da star hollywoodiana già incrinata dalla malattia. C’è qualcosa che rende ancor più cinematograficamente eroico il suo personaggio, oggi a distanza di quasi quarant’anni, ed è la logica della piena del fiume: a volte accade che ti prenda all’improvviso bloccandoti le gambe e in quel momento ti accorgi che non importa se le tue scarpe erano più belle e costose di quelle del tale che ti stava accanto. Quando le cose accadono, accadono e basta e neanche una macchina del tempo può aiutarti. Guai a barare col flusso degli eventi. Come si dice, il tempo non torna e non perdona.

In piedi

C’è una bellissima frase di Eliane Brum, giornalista e scrittrice brasiliana, che dice: “Non dobbiamo smettere di lottare, e dobbiamo farlo come la foresta: in piedi”. La sua connotazione ecologica, data anche la biografia dell’autrice, non deve far passare sottotraccia il forte potere metaforico di queste parole. Spesso, troppo spesso, decidiamo di lottare quando siamo già a terra, quando il risultato è compromesso. E per lottare intendo anche qualcosa di non drammatico: si lotta magari per piccole questioni di principio, per leggere esigenze di nobiltà d’animo, per motivi che solo a noi sono ben chiari (chi l’ha detto che ciò che è semplice per noi debba esserlo per gli altri?).

Per molto tempo sono stato propenso a lasciar stare, a galleggiare nel quieto vivere anche se in fatto di battaglie, modestia a parte, non mi sono fatto mancare nulla. Però magari ho lasciato che il bicchiere si riempisse prima di decidermi a svuotarlo o addirittura a scagliarlo contro il muro. Invece – si impara solo con l’età, ahimè – ogni tanto è più utile intervenire sul rubinetto alle prime gocce. Quando la situazione è ancora tra il bianco e il nero, senza precipitazione ma con serena intransigenza. Lottare in piedi se possibile non è solo un vantaggio. È un dovere nei confronti della nostra dignità.

P.S.
Questo post è stato scritto da una persona sorridente che non ha (almeno consapevolmente) nulla di irrisolto e che non cerca foreste in cui arruolarsi. Così, per dire.

Notte di passione

Sono convinto che non siano solo i libri che leggiamo a dirci chi siamo, ma anche il come e il quando li leggiamo. Io ad esempio leggo la notte, per deliberato intento. Cioè non ho problemi di insonnia e sono uno che, tutto sommato, dorme abbastanza (forse troppo, a dispetto dell’età che avanza). Verso le tre/quattro del mattino il mio cervello si attiva e mi chiede di prendere un libro che tengo sul comodino: ne leggo sempre almeno due contemporaneamente e li scelgo a seconda del mood, ma di questo parliamo dopo.
Il cervello ordina, io ubbidisco e, cosa sorprendente per i miei bioritmi, trovo subito la lucidità necessaria per affrontare quelle pagine dopo aver riallacciato tutti i fili della storia (in tal senso ho la memoria di un pesce rosso). Questa cosa della lucidità mi sorprende perché solitamente ho risvegli lentissimi: invece la notte quando devo leggere è come se la ruggine del mio sistema cerebrale in fase di riavvio fosse sciolta dal CRC. Accade solo per i libri, per il resto sono un rincoglionito che stenta a trovare la bottiglia d’acqua a fianco del letto.

Adoro leggere nella penombra e nel silenzio di un momento che, per via dell’orario, mi piace pensare solo mio. Il fatto che la città e il mio mondo dormano mentre io mi tuffo in mille storie, mille paesaggi, indosso mille vite, cambio mille costumi, muoio e rinasco, vinco e sconfiggo, piango e rido per destini di carta, è una sorta di catalizzatore di attenzione ed eccitazione.
Al contrario di quando scrivo non c’è necessità, ma desiderio. Ho bisogno di scrivere e non sempre mi dà soddisfazione: chi scrive per mestiere lo sa, mette nel conto che la scrittura spesso è sofferenza, è dolore, è droga, è sentimento inespresso.
Invece la lettura è appagamento, coronamento di un desiderio, a volte anche vizio.
Io voglio svegliarmi nel cuore della notte per sapere come va a finire con quel tizio prigioniero tra pagina 252 e pagina 253. E se per caso ciò non accade – tutto sommato ho una vita normale con un adeguato influsso di imprevedibili cazzi miei – ci resto un po’ male perché so che il momento della lettura, dati gli impegni della giornata lavorativa eccetera, sarà rimandato.

Non sono un lettore bulimico. Non sono neanche un forzato della lettura. Leggo ciò che mi piace e butto tutto il resto. Per questo ho un turnover di libri che consuma il comodino e non la libreria. Perché è il comodino il vero banco di prova. La libreria è la pensione, il buen retiro dei volumi: l’alternativa è la pattumiera.
E siccome sono un lettore con pazienza zero, metto sempre due-tre libri sulla linea di partenza e do pari opportunità a tutti. Generalmente ne scarto uno su cinque: la statistica è dell’ultimo anno, mentre ci fu un periodo sfortunato in cui capitava di eliminarne anche tre su cinque (ricordo un Natale di molti anni fa in cui feci un en plein di cagate editoriali).
Insomma leggo come un medioman guarda la tv: più una cosa mi piace, più mi concilia il sonno. Mi sveglio nel cuore della notte, accendo la luce, prendo il libro, mi appassiono con la confortante certezza che mi scioglierò (troppo) presto nel migliore sonno, ancestrale e confortante. Quello in cui immagini che ci sia qualcuno che ti racconti una storia.

Invertiti, viaggio nelle differenze

C’è una macchina del tempo che dal 1963 a oggi attraversa tre ventenni sanando gli opposti o addirittura unendoli, come fosse un miracolo, in un’unica linea retta.
Il viaggio che ne scaturisce è quello nell’universo mai troppo esplorato delle differenze.
La linea maestra la dà Pier Paolo Pasolini, che col suo documentario “Comizi d’amore” ci guida attraverso le contraddizioni di quello che una volta si chiamava sentire comune e che oggi identifichiamo come mainstream. Per diffidarne, per scardinare le oziose certezze della condivisione cieca, per affrontare le sterili perversioni del “desiderio mimetico” che spinge una pecora a seguire il gregge senza capire bene il perché.

Questo podcast è liberamente ispirato all’opera “Invertiti”, scritta con Fabio Lannino per la Fondazione Taormina Arte (altre info qui). È un viaggio che parte dall’Italia del boom economico e arriva a quella della cretinocrazia imperante, e che attraversa le “dittature culturali” dove in fondo ogni cosa non ha solo il suo prezzo, ma soprattutto il suo sconto.

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Una favola storta

Non vi parlerò dei possibili nuovi equilibri nella mafia dopo l’arresto di Matteo Messina Denaro. Non vi parlerò nemmeno delle strategie dello Stato per affrontare il nuovo corso di Cosa Nostra, perché un nuovo corso ci sarà per forza (e speriamo che sfoci nelle fognature). Non vi parlerò di politica né di magistrati. Di tutto questo vi parleranno i miei colleghi, quelli bravi, in tv e sui giornali.
Io vi voglio parlare di una favola storta che finalmente ha un suo lieto fine. E il lieto fine di una favola storta deve essere dritto per compensare un’obliquità che disturba il mondo, facendolo sembrare storto a sua volta.
Una favola che inizia con una lettera d’addio a una innamorata. Una lettera che contiene una grande imperdonabile bugia.

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Gery Palazzotto
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Una favola storta
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Il gusto per il brutto

Siamo sempre stati circondati da cose belle e cose brutte, al netto delle questioni soggettive per cui magari ciò che a me sembra brutto a un altro sembra bello. Però qui si parla di bello bello e brutto brutto: esiste un’oggettività per cui una cosa fa ribrezzo e un’altra no. Che so, la coprofagia è obiettivamente orribile mentre la sala grande del Teatro Massimo di Palermo (un esempio a caso…) è indiscutibilmente bella. Sono due esempi estremi proprio per cercare di centrare l’argomento.
E l’argomento è il gusto per il brutto.
Un tempo il cosiddetto sentire comune era una specie di livella: difficilmente qualcosa di non bello faceva i numeri di qualcosa di bello. E ciò accadeva nelle arti, nella politica (persino il tremendo fascismo aveva una sua estetica), nei costumi (gli hippies non erano brutti, erano diversi dagli altri di quei tempi), nella vita sociale.
Oggi invece in tv, sui giornali, per strada, nei teatri, in parlamento il brutto fa audience. Ed è triste dirlo, non la fa perché suscita curiosità. La fa perché piace, affascina, attrae.
Ci sono trasmissioni televisive scritte male (non farò nomi, ma basta guardare esempi recentissimi) che comunque fanno ascolti. Ci sono programmi politici scritti coi piedi (la menzogna in politica è un totem del brutto) che fanno grandi proseliti. Ci sono comportamenti sociali riprovevoli che generano un gran numero di emulazioni. Ci sono beceri esempi che assurgono al ruolo di personaggio. E tutto ciò ha un terreno di coltura elettivo.
I social network.
Io i social li uso e non li disprezzo, perché ho imparato a diffidarne. Non tutti hanno presente l’evoluzione sociale dei social (scusate il bisticcio di parole): nati come mezzo per condividere contatti, per unire persone, sono diventati un mezzo di spaccio di contenuti. E quando si passa dall’agenda telefonica al libro di testo i rischi sono enormi. Perché unire le persone è una cosa, diffondere idee è un’altra. Nel primo caso l’attività è puramente meccanica, nel secondo ci vuole un filtro, quello della conoscenza. Insomma una cosa è scorrere l’elenco per contattare qualcuno che ci piace, un’altra è sfogliare un testo scientifico per curare o prevenire una malattia.

È qui che si inserisce il gusto per il brutto. In questo gap tra ciò che siamo e ciò che vogliamo essere. Il bello è stato creato (o inventato, fate voi) per darci un parametro che è anche un trampolino. Una canzone, un quadro, un libro, un balletto, un panorama, una scultura ci attraggono e ci spingono verso un destino migliore: tutti sogniamo di essere eroi quando leggiamo le avventure di Shackleton (perdonate la fissazione); è difficile non restare ammaliati da uno Schiaccianoci di Pëtr Il’ič Čajkovskij; una messa cantata a Notre-Dame è indiscutibilmente qualcosa di bello. L’avventura è bella come la letteratura, la conoscenza è bella come la pittura, la tolleranza è bella come la musica. Il bello è dappertutto, il brutto ci aspetta al varco.
Il gusto per ciò che è orribile nega l’idea stessa di gusto, e anzi ci deprime senza preavviso.
Non a caso diceva il sommo Oscar Wilde: “Ho dei gusti semplicissimi, mi accontento sempre del meglio.”  

Cazziata finlandese

Una pittrice finlandese decide di trasferirsi con la famiglia in Sicilia, a Siracusa, e dopo qualche mese se ne va sdegnata perché il sistema scolastico non le piace e, in poche parole, perché si è accorta che la Sicilia non è la Finlandia. Noi isolani siamo abituati a sentirci dire che qui non funziona niente, il che è purtroppo vero. Però in questa lezioncina impartita tramite lettera aperta a un sito locale c’è qualcosa di irritante. E cioè la supponenza con la quale una persona venuta spontaneamente dall’estero decide di deludersi per non aver trovato il modello e i codici sociali dai quali si è spontaneamente allontanata. Il sospetto più fastidioso, almeno per me, è che la signora avesse scelto per luoghi comuni: Sicilia, caldo, mare, cibo, folklore. Magari pure un mafia tour, se ci scappa.

Personalmente coltivo l’idea della fuga – ne ho scritto più volte qui e altrove – con grande attenzione: se decido di fuggire, scelgo il luogo (anche metaforico) nel quale so di trovare sorprese, non certo una replica del posto da cui parto, e in questa voglia di sviluppare curiosità ci metto soprattutto la possibilità di imbattermi in usi e burocrazie che non mi piacciono.

Mi è capitato alcune volte di rimanere deluso senza mai farne una battaglia di civiltà.

Il fatto che la signora finlandese si aspettasse di trovare in Sicilia un sistema scolastico come quello finlandese ci dice molto sull’avventatezza con la quale è stato preparato il trasferimento, mica un weekend mordi e fuggi.
Sono un nemico dell’inefficienza siciliana, non ho mai creduto alla specificità “meravigliosa” del nostro essere isolani, sono allergico all’esibito e patetico trionfo del sicilian style.
Però una cosa alla signora in questione la vorrei dire: non c’era bisogno di simulare una caduta dal pero per scandalizzarsi che dal pero si può cadere.
Luogo comune per luogo comune: finlandesi, che noia.

Butterfly Blues, il podcast

Le piccole battaglie quotidiane, le grandi scommesse di sogni infranti, l’antimafia, il gioco di specchi della politica, le promesse e le disillusioni. “Butterfly Blues” è il canto dolente di una generazione che voleva cambiare il mondo e invece si è accapigliata solo per cercare qualcuno su cui scaricare le sue stesse colpe. “Butterfly Blues” è stato uno spettacolo che negli anni si è evoluto. Nato nel 2019 come orazione civile per voce narrante e pianoforti per “Piano City”, si è evoluto negli anni in opera corale e danza. Da oggi è anche un podcast, liberamente ispirato a quello spettacolo di cui trovate qui dettagli e protagonisti.
P.S. Grazie sempre a Gabriella Guarnera per la voce e la pazienza.

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