Invecchiare, istruzioni per l’uso

A bocce, anzi a ruote ferme ho ancora un paio di cose da scrivere prima di chiudere (almeno qui) il diario di questo viaggio a Capo Nord. Sono appunti che ho preso durante quegli undicimila chilometri, la sera a letto prima di spegnere la luce, o in una birreria delle Lofoten, o ancora sul marciapiede di qualche sperduta stazione di servizio. Sono foglietti spiegazzati, alcuni dei quali divorati dall’umidità, che ricompongo adesso comodamente seduto alla mia scrivania: avvertenze valide per me e per chi vorrà fare un viaggio del genere che riguardano aspetti tecnici e non.

Il viaggio di per sé non è per solitari, ma induce gioiosamente alla solitudine. Trascorrere ogni giorno otto-dieci ore alla guida è un’occasione preziosa per parlarsi. Certo, un partner è utile per condividere emozioni davvero forti (amore è soprattutto condivisione, c’è scritto persino sui Baci Perugina), ma a favore della missione solitaria c’è anche un aspetto meccanico: in generale la moto più leggera dà meno problemi, anche se la casistica a me nota smentisce questo principio.

Preparatevi a perdere qualcosa, che sia un oggetto o un pregiudizio sarà il caso a deciderlo. Montando e smontando bagagli ogni giorno, viaggiando con mille piccole cose appese, piegate, nascoste, arrotolate, compresse, è normale che alla fine qualcosa manchi all’appello. E magari può essere un sollievo.

Al contrario di ciò che accade nella vita ordinaria, qui il giocattolo rotto non si butta subito ma si fa di tutto per aggiustarlo: con gran dispendio di metafore. Ci saranno cose e occasioni che avranno bisogno di un giro di nastro adesivo, una scarpa che si buca (le strade norvegesi consumano ruote e suole come grattugie), un compagno di viaggio troppo esuberante, un navigatore satellitare che si allaga, un cameriere scortese nell’ultimo ristorante aperto dell’ultimo paesino di una landa sperduta. Metterci una toppa in questi casi non significa accontentarsi, ma sopravvivere.

Infine lo stupore. Il motivo per cui scrivo queste righe è solo perché lo stupore vive di contagio: nulla è meraviglioso se non si può diffondere, spandere, condividere. Il mio sogno è che qualcuno, leggendo questi diari, abbia voglia di inventarsi un percorso del genere per sperimentare l’antico prodigio dello stupore. Che non è la prova dell’ardimento, non sono tutti quei chilometri a cavallo di una moto che alla fine sembra chiederti pietà, non è il susseguirsi di città e Stati (alla fine ne conterò undici), non è l’olfatto che ti regala una dimensione di viaggio che non conoscevi (in moto gli odori sono come i panorami). No, è qualcosa di più semplice: è un baricentro nuovo che ti dà stabilità anche se sei in bilico su uno scoglio, che rischiara lo sguardo anche se sei al buio, che ti dà la migliore compagnia anche se nel raggio di un chilometro non c’è nessuno. Stupirsi è un buon modo di invecchiare.

Buona strada.

9-fine

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La realtà che presenta il conto

Gli ultimi giorni di viaggio sono lancinanti nella contrapposizione di sentimenti. Da un lato c’è il gusto di un imminente ritorno a casa, al proprio letto, alle proprie abitudini alimentari, dall’altro il rimpianto per qualcosa che è irrimediabilmente finito. Come se due forze opposte ti tirassero per le braccia: la pasta della mamma e le spiagge delle Lofoten; il tuo cuscino preferito e la rocca di Capo Nord; le geometrie rassicuranti del tuo appartamento e la birra su quel lago finlandese col sole che non tramontava mai.
Ma bisogna avere a che fare con la realtà, che se ne frega del sentimento e, come l’oste, chiede sempre il conto. La visita al campo di concentramento di Auschwitz e a quello di sterminio di Birkenau ha segnato fortemente il mood di questi sgoccioli di vacanza. Che ovviamente non è mai stata vacanza in senso classico, ma esperienza, prova, avventura: altrimenti me ne andavo al mare a sollevare cocktail, attività peraltro nobilissima.
Avevo avuto occasione di visitare il campo di Dachau, qualche anno fa, ne avevo tratto l’orrore che serve per vincere la battaglia contro le nostre miserie quotidiane. Auschwitz e Birkenau sono un passo avanti verso il baratro, sono la crudeltà nella quale immergersi non solo per esplorare l’abisso di un genocidio, ma per capire dove questo mondo ci vorrebbe portare e dove, costi quel che costi, non dobbiamo mai più andare. Sono insomma una chiave di lettura di tremenda attualità poiché la storia delle atrocità non va mai declinata al passato.
La realtà è anche fredda meteorologia. La Repubblica Ceca in questo periodo ha piogge a chiazze, cioé a compartimenti scientificamente separati. Tipo, sei in autostrada e ci sono 34 gradi. Un chilometro dopo incontri un acquazzone e la temperatura scende vertiginosamente a 17 gradi. Un altro chilometro più avanti torna l’afa e così via sino a quando non ci fai più caso e il microclima dentro il casco diventa simile a quello di una serra del pomodoro di Pachino.
Va detto che le bizze del tempo sono una costante di un viaggio del genere, dal sud al nord dell’Europa, ma – non è un segreto – va detto anche che sono più sopportabili quando si è lontani da casa. Così, con una forte perturbazione in arrivo stasera abbiamo deciso di anticipare il rientro di un giorno. Siamo in tre e io ho il navigatore fuori uso. La tappa di domani è Praga – Chiusa, 640 chilometri: sin quando si guida e non si nuota va bene. Poi sarà la volta di Genova con la nave per Palermo. E lì l’acqua finalmente sarà al posto giusto.

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Dove non puoi rallentare…

Dove non puoi rallentare non soffermarti. La tautologia riadattata sullo scheletro di una celebre frase di Frida Kahlo mi serve per inquadrare questi giorni di trasferimento verso sud. Trasferimento si fa per dire perché comunque attraversiamo nazioni come l’Estonia, la Lettonia, in parte la Lituania, e la Polonia. Sono terre i cui racconti non si colgono in modo intuitivo, come invece è avvenuto fino a ora con i grandi palcoscenici geografici del nord. Qui è tutto più complesso, anche per strategia di viaggio. Da un lato c’è un mordi e fuggi imposto dalla nostra tabella di marcia che ci propina oltre 600 chilometri al giorno per rientrare in Italia in tempi congrui (che ci salvino almeno dal licenziamento), dall’altro c’è un territorio che non si dispiega dinanzi agli occhi ma che chiede un’annessione ai tuoi meccanismi logici o, se volete, si presenta con timida presunzione (un ossimoro dopo una tautologia, azz!).
Dalla Finlandia di Helsinki – che è cosa diversa dalla Finlandia reale dato che Helsinki sta alla Finlandia come New York sta agli Stati Uniti – ci siamo immersi nelle repubbliche baltiche. Un migliaio di chilometri a corsia unica dove le autostrade sono un miraggio e, per quel poco in cui si manifestano, prevedono di default l’opzione dell’inversione di marcia “a vista”. Questo per dire che comunque a ogni minima accelerazione qui bisogna stare davvero sul chi va là: che sia un trattore o un camion di laterizi, sarà la sorte a stabilire chi dovrà tagliarti la strada. Eppure in questa apparente e pericolosa deregulation c’è il paradosso dei paradossi: la presenza ossessionante di auto della polizia stradale. I poliziotti ti fermano e ti multano, ma nel fermarti e nel multarti hanno una dose abbondante di discrezionalità. Esempio. Oggi in Lituania ho fatto, insieme ad altri correi del mio gruppo, un sorpasso in zona ufficialmente vietata (niente di rischioso, ma pur sempre un’infrazione). Una pattuglia mi ha raggiunto a sirene spiegate e il capo, davanti al sottoscritto costernato, ha detto: “Per questa violazione ti dovrei sequestrare la patente per tre mesi”. Io, giocandomi la carta dell’asilo politico: “Giusto, ho sbagliato, ma sono stanco, vengo da lontano. Ha presente? Salvini… la cretinocrazia… Di Maio…”. E quello: “Berlusconi?”.
Io: “Macché, Berlusconi paradiso, heaven…“.
Scherzi a parte, dopo un un paio di controlli via radio il poliziotto mi ha restituito la patente: “Ok, lo dico a te e ai tuoi amici: con la striscia rossa non si supera. Mai”.
“Grazie, vostro onore, eccellentissimo, eminenza…” e via fantozzeggiando. Insomma quasi me lo baciavo.

Dove non puoi rallentare non soffermarti.
Non mi sono soffermato a Tallin, città che si visita in poche ore. A parte qualche chiesa, è tutta una paninolandia. Infatti in serata ci siamo rifugiati in un temibile locale italiano dove abbiamo manifestato indecente ammirazione per un nero d’Avola da supermercato (spacciato a 35 euro) e qualche fetta di Provolino. Roba che a casa lo tieni in frigo per testare le muffe da sottoporre come nuovi vaccini a Burioni.
Non avevo intenzione di rallentare a Riga, ma sono rimasto folgorato dal Baltic Drum Summit e dall’United Buddy Bears. A conferma del fatto che il nettare di una comunità non è solo prodotto dai suoi abitanti, ma anche dai suoi collegamenti. Dopo essermi rifatto gli occhi grazie a tanta attenzione per l’arte popolare (occhio, non parlo di musei o di manifestazioni impomatate ma di grandi concerti e piazze stracolme di genitori e bambini) sono stato costretto a soffermarmi. E in cuor mio ho ringraziato questa città che doveva essere accidentale per questioni di percorso e invece è diventata cruciale per corto-circuiti di ispirazione.
Ho rallentato a Varsavia ma l’ho trovata distante da me. È un po’ come il cielo, ognuno ne ha uno da misurare con gli occhi del cuore. Il cielo di Varsavia, pur bellissimo e terso (che culo!), non ha l’ampiezza che mi serve, almeno in questo momento.

La strada per arrivare sin qui è stata una via Crucis di interruzioni, di trattori, di asfalti deformati, di rettilinei ingannevoli, di autovelox, di cantieri, di pioggia e di sole, di pattuglie di polizia che aspettano te e solo te.
Ora sono stanco. E la stanchezza dopo tanti chilometri ha una strana parentela con la felicità, un po’ come accade col sesso o con la maratona.
Domani sarà ancora Polonia: Cracovia con un pellegrinaggio ad Auschwitz. Lì ho proprio voglia di soffermarmi.

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Laghi, legno, latte al posto del vino

La Finlandia è quel posto dove la gente fa quello che gli pare facendoti sembrare tutto ordinato, incardinato. Qui puoi piantare una tenda dove vuoi, pescare senza chiedere il permesso in uno dei quasi 190.000 laghi (a dispetto della definizione di “terra dei mille laghi”), puoi illuderti che questi specchi d’acqua siano tutti “nordicamente” puliti facendo finta che le industrie della carta e del legno non li abbiano inquinati, e a pranzo puoi bere persino il latte freddo al posto dell’acqua o del vino. Opzione, quest’ultima, abominevole per noi italiani ma tutto sommato plausibile se si considera che questi sono soliti bere acque aromatizzate che dalle nostre parti sarebbero vendute solo in accoppiata col Gaviscon: io stamattina incautamente ne ho assaggiata una alla mela e il resto se l’è sbrigata con gran soddisfazione la mia ernia iatale.
In Finlandia, come vi ho detto, ci sono arrivato dalla Norvegia e le differenze sono state subito evidenti, almeno dal punto di vista stradale e orografico. Niente più rilievi, niente più curve ma interminabili rettilinei, niente più tunnel né gallerie ma dossi all’infinito. Qui le ruote delle moto si consumano in modo drammaticamente uniforme, per via dell’asfalto molto ruvido: in pratica diventano quadrate (un compagno di viaggio ha dovuto cambiarle dopo Oulu perché, anche a causa di una frenata impegnativa, il battistrada si era ormai esaurito).
E poi le persone, tenuto conto che la Finlandia ha più o meno lo stesso numero di abitanti della Sicilia con un territorio tredici volte più ampio. Noi terroni d’Europa generalizziamo chiamandoli tutti scandinavi, come per accomunarli in un’oziosa visione geografica. Invece dovremmo tenere a mente che il mappamondo ci dice di un popolo quanto l’insegna di un ristorante: per giudicare bisogna superare l’ingresso e guardarsi intorno, conoscere, assaggiare. In realtà un finlandese è molto diverso da un norvegese: innanzitutto non è scandinavo per lingua e cultura. Poi il norvegese è considerato il montanaro della zona, semplice (estremamente) e rude, con risata franca ma senso dell’umorismo non abbondante, al contrario del danese (che è il più moderno e aperto, per definizione strisciante e non confermata). Il finlandese è diverso anche fisicamente, i suoi tratti somatici sono meno europei, il fisico è più largo e piantato, e in generale pare che il suo sguardo volga più a est che all’Europa sottostante.
Il cibo comunque è una bandiera comune nonostante io, per via del mio latente vegetarianesimo, sia poco attendibile in tal senso. Salmone ovunque (l’ho mangiato, well done, e mi piacque in quanto “pesce non a forma di pesce”) e insidiosissimo pane all’aglio (uno dei motivi per cui questo rischia di non essere un viaggio per coppie).
Insomma il grande nord è un insieme di piccoli nord, tutti diversi anche climaticamente. Oggi, arrivando da un po’ più su, dopo 600 e passa chilometri mi sono trovato a Helsinki in un clima siciliano, con tanto di traffico caotico e 26 gradi abbondanti. Nulla di che se non fossi stato abbigliato da spedizione al Polo, con quattro strati addosso e noiosissimi ma indispensabili accessori tecnici (pensate a quanto possano essere scomodi i guanti e il casco integrale col sole che vi martella a ogni metro). Mai avrei pensato di fare una doccia fredda in Finlandia. E invece.

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Capo Nord, il freddo che scalda

Sono seduto al tavolo dell’Hotelli (non è un refuso) Inari, a Inari in Finlandia. Alla mia sinistra c’è una finestra che dà sul lago. Mentre sorseggio una birra sento un rumore, lì fuori. È un idrovolante che ormeggia con la stessa facilità con la quale ho parcheggiato la mia moto, venti metri più in là. Due tipi scendono al volo e me li ritrovo poco dopo nel tavolo accanto.
È tutto così incredibile a queste latitudini o sono io che mi sono incastrato in un’allucinazione da “mal di Nord”? Non è facile trovare una risposta se sei reduce da due giorni in cui non sei arrivato, ma sei allunato in un posto incredibile.
Provengo da Capo Nord (Nordkapp) è ho addosso le sensazioni di un motociclista che ha imparato che nulla è compiuto sin quando non si tira giù il cavalletto. Ma il bello sta in questo tremendo contrasto tra ciò che passa davanti e ai lati del tuo casco, mentre corri sul nastro di strada che cambia colore a seconda del cielo (quasi che fosse specchio), e ciò che prende forma quando ti fermi e rimetti le gambe al posto delle ruote. Capo Nord e il suo fascino estremo sono anche (e molto) la strada da percorrere, le intemperie da superare, la forza da trovare per galleggiare sul vento freddo e sull’asfalto che qui consuma pneumatici come se fossero burro in padella. I centomila metri che precedono la selvaggia rupe sul Mar Glaciale Artico – sempre dritto in fondo, dopo duemila e passa chilometri, c’è il Polo Nord – vanno vissuti come parte integrante della spedizione/missione. Per la maggior parte lunari, veloci e gelidi come il vento che solitamente ti soffia contro, quasi a gettarti un guanto di sfida (e i guanti qui si raccolgono sempre se non altro per motivi climatici). Poi, arrivati al mare, si imbocca il tunnel sottomarino per l’isola di Majeroia e il paesaggio si trasforma. Ci sono spiagge deserte e pietre levigate, rivoli di acqua che solcano la strada e rocce stratificate che sembrano volerti spingere via a ogni curva, c’è un surreale clima balneare senza bagnanti, di grigio multicolore, c’è il Nord che ti aspettavi e che un po’ temevi, con la fascinazione che ne consegue.
Arrivati alla rupe, tutto cambia.
Le foto, l’emozione di essere nel luogo più a nord del tuo continente – tu che vieni dall’estremo sud – lo sguardo fisso al Mar Glaciale Artico che sta centinaia di metri più giù. È un freddo che scalda, una risposta che non vuole domande. È bello per chi ama l’avventura, meraviglioso per chi ama essere cambiato dall’avventura. A dispetto del fatto che sei approdato a una metà turistica che nella sua brevissima estate fa centinaia di migliaia di visitatori, che la differenza la fa come e da dove sei arrivato, che i pochi alberghi nelle vicinanze in un raggio di 30 chilometri hanno la peggiore delle colazioni della Scandinavia (e qui la colazione conta più di una cena).
Ecco perché ora, 370 chilometri più a sud, in questo hotel finlandese sul lago con l’idrovolante parcheggiato alla mia sinistra scelgo di non dare risposta alla domanda: è tutto così incredibile o è un’allucinazione da “mal di Nord”?
Domani si riparte, è questo l’importante.

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Elogio di sua maestà il grigio

La prima pausa arriva dopo otto giorni di viaggio ininterrotto al ritmo di 500 chilometri al giorno. Le isole Lofoten sono davvero strane per noi isolani del sud, a conferma che il mare bagna ma è la terra che dà i frutti. Un anziano di Harstad, mentre passeggiavamo sotto la pioggia, mi ha spiegato come sia stata innaturale la settimana scorsa per queste zone: 30 gradi e sole. Loro al sole non sono abituati, figuriamoci ai trenta gradi che conoscono solo quando accendono il forno di casa, e la pioggerella che scende continua in questo periodo la considerano quasi una rassicurazione. “Finalmente”, ha detto l’anziano sorridendo al cielo grigio (di questo colore parleremo più avanti). Nel mentre io mi aggrappavo all’ombrello e lui si lasciava bagnare con la naturalezza di chi un ombrello manco ce l’ha a casa. È un po’ come accade da noi in Sicilia, viviamo sei mesi all’anno ammollo ma nessuno ha un salvagente a casa. Ecco, il nostro salvagente è come il suo ombrello: inutile.
Il grigio. Queste isole ne sono l’esaltazione e, badate bene, non ho mai visto tanti grigi tutti insieme in vita mia. Il grigio qui non è sporco o non-bianco, è semplicemente in ogni colore: nella vegetazione, nel mare, nel cielo ovviamente, nei rari raggi solari che sfuggono alla coperta di nubi che, come una pennellata di vernice lucida, esalta i contrasti anziché smorzarli.
Non vi racconto le Lofoten perché sono uno di quei posti che cambiano luce a seconda degli occhi che li guardano. E poi se c’è un torto che si può fare alla magia, è cercare di recensirla. Vi dico invece che nel giorno di pausa, a parte dormire per nove ore di fila, mi sono dedicato anche alla manutenzione straordinaria dell’attrezzatura, provata da due giorni di pioggia a tratti torrenziale. Solo adesso conosco l’importanza di un tubetto di colla e di un rotolo di nastro adesivo: con questi due oggetti semplici (che ovviamente non mi ero portato appresso) si può fare di tutto. Come, ad esempio, riparare gli stivali. A poco valgono purtroppo per “curare” il navigatore satellitare, semi-annegato ieri nel mezzo di un temporale mentre ci muovevamo da Trondheim. Per quello ci vogliono un asciugacapelli potente (l’altro giorno due amici, inzuppati dalla pioggia, hanno mandato in tilt il sistema elettrico della loro stanza per abuso di phon) e una buona dose di fortuna. Al momento la seconda mi assiste, anche se per accendere il fondamentale strumento mi tocca compiere una sorta di rito (due colpetti a destra, leggera pressione sul tasto, schiacciamento del display con i pollici) e impostare i percorsi è poco meno rischioso di una roulette russa dato che non sai dove effettivamente lui deciderà di portarti, ubriaco com’è di pioggia e fango.
Comunque inserisco le coordinate gps tramite il Mac e che il santo protettore dei Tomtom mi assista.

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L’era dell’orso bianco

Potrei raccontarvi dei quasi 400 chilometri (395 per la precisione) da Trondheim a Mosjøen, una cittadina tranquilla in vista del Circolo Polare Artico, vissuti con adrenalina a mille per la pioggia e per le curve veloci che non ti lasciano mollare mai l’acceleratore. Potrei dirvi dell’asfalto di queste strade che, divorando gli pneumatici, li incolla al terreno anche con le condizioni meteo più proibitive. Potrei dilungarmi sull’acqua che, nonostante le attrezzature di buona qualità, è filtrata dappertutto (nel navigatore, nei guanti, nelle tasche, nel casco, e altrove), perché l’acqua qui è dovunque in tutte le forme e sono le sue forme (tipo la condensa) che ti prendono alle spalle quando credi di essere impermeabile: un po’ come certi sentimenti. Potrei dirvi di uno scrittore che mi piace molto e che sto rileggendo in questi giorni perché lui è di questo nord (è danese), si chiama Peter Høeg e nel suo “Il senso di Smilla per la neve” dice una cosa alla quale ho molto pensato nei momenti più estremi di quest’avventura: “Non esistono persone senza paura, esistono solo attimi senza paura.“
Invece prima di approdare alle isole Lofoten – per me la meta principale di questo lungo viaggio, ancor più di Capo Nord – vi racconto di una birra: la Mack, la più nordica del mondo per luogo di produzione (tra un paio di giorni andrò a visitare l’azienda). La sto bevendo mentre scrivo. La particolarità è che questo birrificio produce una birra diversa per ogni stagione: la birra di Natale, JuleØl; quella dei due mesi di notte polare, MørketidØl; la birra grassa del periodo invernale, FatØl; e così via… Io in questo momento sto sorseggiando una Lager che si chiama Ísbjörn. È fresca e profumata. Ha un nome che pare musicale e invece, come molte cose a queste latitudini, nasconde un sottile inganno. Come l’acqua che si fa vapore e ti entra sotto il maglione. Ísbjörn è l’orso bianco.

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Non toccare il freno anteriore

La vera Norvegia, selvaggia ma non inospitale (almeno in questo periodo dell’anno), l’abbiamo cominciata ad assaggiare nei 500 chilometri tra Oslo e Bergen: un nastro di strada, la E16, che attraversa l’immenso altopiano dell’Hardangervidda.
Tra curve dolci e continui saliscendi arriviamo alle cascate di Vøringsfossen per ora di pranzo: nello spiazzale c’è un postaccio che fa wurstel e vende torte dell’anteguerra, però ci sono molti alberi sotto i quali concedersi una siesta. A seguire la strada entra in un’inaudita serie di gallerie che si avvitano su se stesse per decine di chilometri. Pensate, ci sono persino le rotonde sottoterra.
Berger è una città di una bellezza fredda nonostante l’allure marinara. È famoso il suo mercato del pesce con le bancarelle nelle quali il prodotto si cucina e si serve su tavoli spartani che fanno taaanto pittoresco. Unico vantaggio di questo circo turistico, il prezzo: con poco più di trenta euro mangiate una portata su piatti di carta e l’accompagnate con una birra, un affare visti i prezzi di quest’area geografica.
Di buona mattina partenza per Lom. L’itinerario prevede un passaggio in traghetto (Vangsnes-Hella) per attraversare  il fiordo più lungo di tutta la Norvegia, il Sognefjord (204km). Ma con la colpevole complicità dei nostri navigatori io e i miei due compagni di viaggio – Salvo e Giovanni, siciliani of course – quel traghetto non lo prenderemo mai. È così che scopriamo un itinerario alternativo mozzafiato attraverso il Jotunheimen National Park: una sessantina di chilometri tra salite e discese, sotto una simpatica pioggia che ha lo strano effetto di eccitare i miei compagni di avventura. “Non toccare il freno anteriore”, è l’ultima raccomandazione che raccolgo prima di lanciarci a pieno acceleratore in questo tobogan di acqua e fango.
Insomma, se passate da queste parti prendete appunti.
Opzione A. Traghetto e tranquillità da Vangsnes a Hella, versione comoda avventura.
Opzione B. Comunicate al vostro navigatore che non volete fare il passaggio su nave e lui, se ha raggiunto il giusto grado di perversione, vi porterà dritto sulle montagne, con vista sui ghiacciai. E mi raccomando, non toccate il freno anteriore.

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Un rosario di curve e fiordi

Il mondo visto da una motocicletta è pieno di odori e di sensazioni rapide ma intense. È la prima volta che mi metto in viaggio per un itinerario così lungo, dodicimila chilometri da Palermo a Capo Nord e ritorno. Eppure alcuni luoghi che visiterò li conosco: un pezzo di Germania, la Danimarca, Oslo, Praga… Ma stavolta è tutto molto diverso: c’è la moto, c’è l’affascinante scomodità di un’esplorazione che a tratti diventa estrema, ci sono le intemperie da affrontare come una prova dell’ardimento. E c’è la scommessa con se stessi di poter ancora stupirsi a macinare chilometri e pensieri in giornate che iniziano alle cinque e mezza di mattina e sgommano via rapide come la mia guerriera a due ruote.
Questi primi tre giorni di viaggio – partenza col gruppo da Innsbruck e percorsi quotidiani di circa 600 chilometri – sono stati trasferimenti e soprattutto sono serviti a testare mezzi e attrezzature. Le strade in Germania sono perfette e su alcuni tratti non ci sono limiti di velocità: con tutte le cautele del caso è divertente concedersi un’accelerata che ti porta sul filo dei 200 all’ora e magari vederti superato da un’auto che ti pare pronta al decollo.
Magdeburgo, Copenaghen, il traghetto tra Germania e Danimarca che costa un occhio della testa e che sembra un grande centro commerciale con ristoranti, negozi e sale giochi. E poi via verso la Svezia col ponte di Øresund, titanica opera di ingegneria resa celebre dalla serie tv The Bridge, e la noia languida delle strade svedesi dritte e lente (perché nulla più sarà veloce dopo l’asfalto della grande madre Germania). Si studiano i percorsi, si decrittano i misteri dei punti gps – qui siamo in piena dittatura dei navigatori satellitari – e soprattutto ci si interroga su come facevamo noi stessi, qualche decennio fa, a viaggiare con cartine e matite. E poi arriva la Norvegia. Si presenta a noi con la sua sontuosa asperità climatica. Il caldo afoso dei giorni scorsi è un ricordo che pare preistoria davanti alle previsioni per oggi. Sette gradi di temperatura e per non farci mancare niente un po’ di pioggia. E ovviamente centinaia di chilometri da sgranare in un rosario di curve e fiordi.

1-continua

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