Elogio di sua maestà il grigio

La prima pausa arriva dopo otto giorni di viaggio ininterrotto al ritmo di 500 chilometri al giorno. Le isole Lofoten sono davvero strane per noi isolani del sud, a conferma che il mare bagna ma è la terra che dà i frutti. Un anziano di Harstad, mentre passeggiavamo sotto la pioggia, mi ha spiegato come sia stata innaturale la settimana scorsa per queste zone: 30 gradi e sole. Loro al sole non sono abituati, figuriamoci ai trenta gradi che conoscono solo quando accendono il forno di casa, e la pioggerella che scende continua in questo periodo la considerano quasi una rassicurazione. “Finalmente”, ha detto l’anziano sorridendo al cielo grigio (di questo colore parleremo più avanti). Nel mentre io mi aggrappavo all’ombrello e lui si lasciava bagnare con la naturalezza di chi un ombrello manco ce l’ha a casa. È un po’ come accade da noi in Sicilia, viviamo sei mesi all’anno ammollo ma nessuno ha un salvagente a casa. Ecco, il nostro salvagente è come il suo ombrello: inutile.
Il grigio. Queste isole ne sono l’esaltazione e, badate bene, non ho mai visto tanti grigi tutti insieme in vita mia. Il grigio qui non è sporco o non-bianco, è semplicemente in ogni colore: nella vegetazione, nel mare, nel cielo ovviamente, nei rari raggi solari che sfuggono alla coperta di nubi che, come una pennellata di vernice lucida, esalta i contrasti anziché smorzarli.
Non vi racconto le Lofoten perché sono uno di quei posti che cambiano luce a seconda degli occhi che li guardano. E poi se c’è un torto che si può fare alla magia, è cercare di recensirla. Vi dico invece che nel giorno di pausa, a parte dormire per nove ore di fila, mi sono dedicato anche alla manutenzione straordinaria dell’attrezzatura, provata da due giorni di pioggia a tratti torrenziale. Solo adesso conosco l’importanza di un tubetto di colla e di un rotolo di nastro adesivo: con questi due oggetti semplici (che ovviamente non mi ero portato appresso) si può fare di tutto. Come, ad esempio, riparare gli stivali. A poco valgono purtroppo per “curare” il navigatore satellitare, semi-annegato ieri nel mezzo di un temporale mentre ci muovevamo da Trondheim. Per quello ci vogliono un asciugacapelli potente (l’altro giorno due amici, inzuppati dalla pioggia, hanno mandato in tilt il sistema elettrico della loro stanza per abuso di phon) e una buona dose di fortuna. Al momento la seconda mi assiste, anche se per accendere il fondamentale strumento mi tocca compiere una sorta di rito (due colpetti a destra, leggera pressione sul tasto, schiacciamento del display con i pollici) e impostare i percorsi è poco meno rischioso di una roulette russa dato che non sai dove effettivamente lui deciderà di portarti, ubriaco com’è di pioggia e fango.
Comunque inserisco le coordinate gps tramite il Mac e che il santo protettore dei Tomtom mi assista.

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L’era dell’orso bianco

Potrei raccontarvi dei quasi 400 chilometri (395 per la precisione) da Trondheim a Mosjøen, una cittadina tranquilla in vista del Circolo Polare Artico, vissuti con adrenalina a mille per la pioggia e per le curve veloci che non ti lasciano mollare mai l’acceleratore. Potrei dirvi dell’asfalto di queste strade che, divorando gli pneumatici, li incolla al terreno anche con le condizioni meteo più proibitive. Potrei dilungarmi sull’acqua che, nonostante le attrezzature di buona qualità, è filtrata dappertutto (nel navigatore, nei guanti, nelle tasche, nel casco, e altrove), perché l’acqua qui è dovunque in tutte le forme e sono le sue forme (tipo la condensa) che ti prendono alle spalle quando credi di essere impermeabile: un po’ come certi sentimenti. Potrei dirvi di uno scrittore che mi piace molto e che sto rileggendo in questi giorni perché lui è di questo nord (è danese), si chiama Peter Høeg e nel suo “Il senso di Smilla per la neve” dice una cosa alla quale ho molto pensato nei momenti più estremi di quest’avventura: “Non esistono persone senza paura, esistono solo attimi senza paura.“
Invece prima di approdare alle isole Lofoten – per me la meta principale di questo lungo viaggio, ancor più di Capo Nord – vi racconto di una birra: la Mack, la più nordica del mondo per luogo di produzione (tra un paio di giorni andrò a visitare l’azienda). La sto bevendo mentre scrivo. La particolarità è che questo birrificio produce una birra diversa per ogni stagione: la birra di Natale, JuleØl; quella dei due mesi di notte polare, MørketidØl; la birra grassa del periodo invernale, FatØl; e così via… Io in questo momento sto sorseggiando una Lager che si chiama Ísbjörn. È fresca e profumata. Ha un nome che pare musicale e invece, come molte cose a queste latitudini, nasconde un sottile inganno. Come l’acqua che si fa vapore e ti entra sotto il maglione. Ísbjörn è l’orso bianco.

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Non toccare il freno anteriore

La vera Norvegia, selvaggia ma non inospitale (almeno in questo periodo dell’anno), l’abbiamo cominciata ad assaggiare nei 500 chilometri tra Oslo e Bergen: un nastro di strada, la E16, che attraversa l’immenso altopiano dell’Hardangervidda.
Tra curve dolci e continui saliscendi arriviamo alle cascate di Vøringsfossen per ora di pranzo: nello spiazzale c’è un postaccio che fa wurstel e vende torte dell’anteguerra, però ci sono molti alberi sotto i quali concedersi una siesta. A seguire la strada entra in un’inaudita serie di gallerie che si avvitano su se stesse per decine di chilometri. Pensate, ci sono persino le rotonde sottoterra.
Berger è una città di una bellezza fredda nonostante l’allure marinara. È famoso il suo mercato del pesce con le bancarelle nelle quali il prodotto si cucina e si serve su tavoli spartani che fanno taaanto pittoresco. Unico vantaggio di questo circo turistico, il prezzo: con poco più di trenta euro mangiate una portata su piatti di carta e l’accompagnate con una birra, un affare visti i prezzi di quest’area geografica.
Di buona mattina partenza per Lom. L’itinerario prevede un passaggio in traghetto (Vangsnes-Hella) per attraversare  il fiordo più lungo di tutta la Norvegia, il Sognefjord (204km). Ma con la colpevole complicità dei nostri navigatori io e i miei due compagni di viaggio – Salvo e Giovanni, siciliani of course – quel traghetto non lo prenderemo mai. È così che scopriamo un itinerario alternativo mozzafiato attraverso il Jotunheimen National Park: una sessantina di chilometri tra salite e discese, sotto una simpatica pioggia che ha lo strano effetto di eccitare i miei compagni di avventura. “Non toccare il freno anteriore”, è l’ultima raccomandazione che raccolgo prima di lanciarci a pieno acceleratore in questo tobogan di acqua e fango.
Insomma, se passate da queste parti prendete appunti.
Opzione A. Traghetto e tranquillità da Vangsnes a Hella, versione comoda avventura.
Opzione B. Comunicate al vostro navigatore che non volete fare il passaggio su nave e lui, se ha raggiunto il giusto grado di perversione, vi porterà dritto sulle montagne, con vista sui ghiacciai. E mi raccomando, non toccate il freno anteriore.

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Un rosario di curve e fiordi

Il mondo visto da una motocicletta è pieno di odori e di sensazioni rapide ma intense. È la prima volta che mi metto in viaggio per un itinerario così lungo, dodicimila chilometri da Palermo a Capo Nord e ritorno. Eppure alcuni luoghi che visiterò li conosco: un pezzo di Germania, la Danimarca, Oslo, Praga… Ma stavolta è tutto molto diverso: c’è la moto, c’è l’affascinante scomodità di un’esplorazione che a tratti diventa estrema, ci sono le intemperie da affrontare come una prova dell’ardimento. E c’è la scommessa con se stessi di poter ancora stupirsi a macinare chilometri e pensieri in giornate che iniziano alle cinque e mezza di mattina e sgommano via rapide come la mia guerriera a due ruote.
Questi primi tre giorni di viaggio – partenza col gruppo da Innsbruck e percorsi quotidiani di circa 600 chilometri – sono stati trasferimenti e soprattutto sono serviti a testare mezzi e attrezzature. Le strade in Germania sono perfette e su alcuni tratti non ci sono limiti di velocità: con tutte le cautele del caso è divertente concedersi un’accelerata che ti porta sul filo dei 200 all’ora e magari vederti superato da un’auto che ti pare pronta al decollo.
Magdeburgo, Copenaghen, il traghetto tra Germania e Danimarca che costa un occhio della testa e che sembra un grande centro commerciale con ristoranti, negozi e sale giochi. E poi via verso la Svezia col ponte di Øresund, titanica opera di ingegneria resa celebre dalla serie tv The Bridge, e la noia languida delle strade svedesi dritte e lente (perché nulla più sarà veloce dopo l’asfalto della grande madre Germania). Si studiano i percorsi, si decrittano i misteri dei punti gps – qui siamo in piena dittatura dei navigatori satellitari – e soprattutto ci si interroga su come facevamo noi stessi, qualche decennio fa, a viaggiare con cartine e matite. E poi arriva la Norvegia. Si presenta a noi con la sua sontuosa asperità climatica. Il caldo afoso dei giorni scorsi è un ricordo che pare preistoria davanti alle previsioni per oggi. Sette gradi di temperatura e per non farci mancare niente un po’ di pioggia. E ovviamente centinaia di chilometri da sgranare in un rosario di curve e fiordi.

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Il passo avanti

Prima dell’inizio.

Ed eccomi qua a comprimere bagagli sfidando le leggi della fisica, a scorrere la to do list come se sgranassi un rosario, a studiare le istruzioni di un maledettissimo Tomtom Rider che accetta ordini solo da Windows e Windows a casa mia è come Salvini a casa di Saviano. Eccomi a scegliere la musica giusta, a smontare e rimontare gli auricolari del casco perché il mio “senso del pari” non ammette neanche la più impercettibile delle differenze tra destra e sinistra (solo nell’audiofilia in tutte le sue declinazioni, eh).
Si parte. Anzi, quasi si parte.
È il viaggio dei viaggi, che ovviamente cercherò di raccontare qui e su qualche giornale. Ma il racconto è ora un dettaglio.
Palermo – Capo Nord e ritorno. In moto. Undicimila chilometri per il gruppo che parte da Innsbruck (una trentina di pazzi che arrivano da ogni parte dell’Italia), qualcosa in più per me che arrivo dalla Sicilia e che in realtà partirò da Genova, dove sbarcherò. Undici nazioni in 22 giorni effettivi di viaggio (per me poco meno di un mese, con annessi e connessi).
Ci sono viaggi che non si progettano, ma ti chiamano. Mi è accaduto altre volte in passato, e in altri frangenti. Ma erano vite diverse. Stavolta è davvero tecnicamente complicato quindi estremamente eccitante. Ci sono capitoli della vita in cui un passo avanti è importante non per il luogo in cui stai andando, ma per il posto che stai lasciando.
Ovvio, non farò nulla di unico, ma di certo farò quello che serve perché dieci ore al giorno di moto, col mondo che ti scorre intorno, siano uniche per occhi che ne hanno viste di tutti i colori e che, finalmente, vogliono vedere il colore giusto.
Vi racconterò.

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Da soli

Partire da soli. Senza fuggire da qualcuno o da qualcosa. Senza cercare qualcuno o qualcosa. Per una scelta che non va giustificata, ma al limite raccontata. E raccontiamola.
È stata un’esperienza nuova, scrivo adesso quand’è praticamente conclusa.
Sono stato sulle Dolomiti.
Da appassionato di sci mi è capitato moltissime volte di sciare da solo: per me scivolare tra le montagne è uno stato della mente, più che una questione fisica. Parto la mattina e non mi fermo manco per pranzo, vado e basta: lo slalom tra le cunette e tra i pensieri, la musica negli auricolari che riempie i vuoti delle risalite, l’occhio che si sazia dei panorami che ha sognato per mesi.
Stavolta ho provato una sensazione più radicale, stare da solo prima durante e dopo le cinque-sei ore di sci indefesso e quotidiano. E ne ho tratto alcune considerazioni che, per uno strano gioco del destino, coincidono con quelle che stamattina  Alessio Cracolici ha ripreso dal blog di Maurizio Crosetti.

Potersi isolare, ma davvero, dal resto del mondo e dalla parte più rumorosa di se stessi. Decidere qualcosa di veramente importante facendo precedere il silenzio alla scelta. Rinunciare alle connessioni, al “campo”, alle tacche. Sapere che certe decisioni non dipendono solo dall’interesse, dall’opportunità personale, da logiche di potere: un po’ sì, ma non del tutto. Cercarsi dentro una risposta che già esiste, però è come soffocata dalla confusione e dall’abitudine. Non avere paura di essere soli, o di rimanerlo. E infine scegliere la persona giusta: non aver paura, potresti persino essere tu.

C’è una maledizione che, in tempi di condivisione forzata, ammanta il solitario: e cioè che è uno sfigato. Ci vorrà il conforto del destino e la carezza impalpabile del futuro per capire che, magari, quel tipo che sta da solo, lì in mezzo a una moltitudine che è solo un rumore di fondo, sta semplicemente prendendo la rincorsa. Che non sta scontando né infliggendo alcuna pena perché invece vuole spostarsi, e rimanerci il più possibile, in una landa isolata da ogni giudizio. Che la sua è una scelta reversibile, come ogni scelta libera e quindi felice, lontanissima da pressioni emozionali, giacché la pressione comprime e il suo contrario, la rarefazione, distende. E distendersi è un modo per allungare la visione dell’universo, oltre che i muscoli.
In questa settimana ho avuto modo di rivalutare il silenzio, non in modo assoluto ovviamente: ho mantenuto i contatti col mondo, ho scritto, comunicato, ma con un rigore che consiglio agli ossessivi compulsivi come me (pochi, per fortuna). Saper scegliere l’indispensabile è una forma sublime di autostima. L’eremitaggio è altra cosa, come l’ascetismo e per certi versi la santità: non è questo il caso, per carità. Lontano da me!
Insomma domani torno alla normale vita di relazione, quella fatta di rassicuranti consuetudini e di inderogabili ipocrisie, di felice e insostituibile raccolto nell’orticello domestico e di snervante caos sociale, di speranze a chilometro zero e di delusioni a lungo raggio. Di inseguimento di una verità almeno accettabile.
Nulla di eccezionale, lo so. È la vita di tutti noi fortunati che possono concedersi una scelta. Io magari la vedo da un abbaino privilegiato per il mio credermi osservatore da un abbaino privilegiato. Ma funziona così, rassegniamoci: viaggiare da soli è importante come il La per accordare una chitarra.
Se non ti interessa la musica non capisci. Se detesti la musica sono cazzi tuoi.

Sopravvivere a Las Vegas

La parte avventurosa del nostro viaggio si conclude a Las Vegas. Quel che segue sarà premio e ristoro dopo giorni di appassionata avventura (provate a scarpinare su una distesa di sale a 41 gradi all’ombra e senza un orizzonte).
Diciamo subito che a Las Vegas non siamo riusciti neanche a capire come funziona una slot machine: a parte inserire i soldi, schiacciare un tasto (un tempo c’era la leva da tirare), e vedere la moneta polverizzarsi, ci sarà pure un’alternativa meno deprimente.

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Senza fiato (per altitudine e meraviglia)

Coi laghi californiani ci abbiamo preso gusto. Quindi decidiamo di addentrarci nei territori della Sierra Nevada, precisamente lungo il versante est, quello che prelude al Nevada.
A questo punto è necessaria un’avvertenza per chi soffre l’altitudine poiché seguendo il nostro itinerario per almeno un paio di giorni non scenderete al di sotto dei duemila metri e sfioreremo punte di tremila.
Da South Lake Tahoe imboccando la 395 in direzione sud si arriva a una successione di laghi di una bellezza sorprendente: Mono Lake coi suoi monumenti naturali di tufo; June Lake, raccolto e silenzioso; Mammoth Lakes che è un balcone su molti altri laghi. Uno su tutti: Horseshoe Lake, con il suo paesaggio lunare di alberi bruciati dalle esalazioni di anidride carbonica che provengono dal terreno vulcanico. Noi ci siamo arrivati al tramonto e l’abbiamo giudicato bello in modo struggente.

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Montagne e laghi, la California che non ti aspetti

È ora di abbandonare l’oceano per addentrarci nell’affascinante entroterra californiano. La nostra prima meta è il Lake Tahoe, ma quel che conta veramente è ciò che sta nel mezzo tra la costa e le vette della Sierra Nevada.
Anche in questo caso la scelta della strada è cruciale. Il navigatore vi consiglierà ora e sempre i quasi 300 chilometri della freeway 80. Non statelo a sentire e scegliete la più lunga e tortuosa 49, in tal modo avrete l’occasione di ripercorrere alcune tappe suggestive del vecchio west.
Sulla via dei cercatori d’oro attraverserete le lande di Coloma, da cui partì la corsa all’oro nell’800, Auburn e soprattutto Nevada City, popolata da giovani mezzi figli dei fiori e mezzi hipster, surfer di montagna, gente strana insomma che mangia biologico in quello che un tempo era un saloon.
Salendo di quota – arriverete intorno ai 2.300 metri – non perdetevi neanche un view-point (perché la rivelazione di questo viaggio è che la California non è solo mare, surf, baywatch e muscle-men; no, la California è terra di incredibili montagne). In alcuni casi bisogna camminare un po’ per allontanarsi dalla strada e raggiungere il terrazzino panoramico. In altri lo scenario vi verrà addosso senza preavviso.

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Andando per vino in California

Sulla strada per San Francisco una tappa obbligata è Santa Barbara, e già questo potrebbe toglierle fascino secondo la nostra personalissima road map. Tuttavia anche una tappa scontata può diventare interessante se le si attribuisce un tocco di leggerezza. Santa Barbara val bene due ore (beccando il parcheggio giusto), il tempo di sgambettare su lungomare e di gustare uno smoothie sul corso principale. Poi si riparte.
La meta è Paso Robles. Ma prima bisogna drogare il navigatore, che altrimenti vi suggerirebbe la rassicurante rapidità della 101 togliendovi il piacere di visitare centri come Solvang e Guadalupe (Dunes Reserve). La prima è una cittadina popolata e animata da una comunità danese che offre scorsi e suggestioni talmente pacchiani da risultare divertenti: mulini a vento, copia della Sirenetta di Andersen e altre amenità. La seconda va visitata esclusivamente per le sue dune di sabbia sul Pacifico, le più grandi di America.

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