Primo, trattarsi bene

Da San Sebastiàn a Zarautz.

Scarpinando per i sentieri scoscesi (e scoscesi è dire poco) che da San Sebastiàn conducono a Orio, tappa intermedia prima della destinazione Zarautz, ero concentrato sulle pietre viscide, sui torrentelli di fango, sulle cadute da evitare.

Da queste parti la pioggia d’estate è un fenomeno frequente a causa dei sistemi nuvolosi dell’oceano Atlantico che vengono bloccati dalla Cordigliera Cantàbrica e che danno origine al Favonio (cioè il Föhn) che spinge le masse umide verso l’alto innescandone la condensazione. Ergo, per uscire dal pieroangelese,  piove spessissimo e per giornate interminabili. Intanto tu cammini, fatichi, stai concentrato sul terreno, sulla tua tenuta e pensi.

Pensi. Pensi in modo completamente diverso dal solito.

È come se finalmente ti avessero tolto quel freno a mano di cui non ti rendevi conto. Come se il grande manovratore del tuo cervello si fosse preso un giorno di ferie e avesse lasciato il comando a un anarchico pacificato, giovane, un po’ fuso e sublimemente perverso.

Credo che il Cammino sia una delle più potenti centrali mondiali produttrici di pensieri trasversali. Come in “Tempi Moderni” con Charlie Chaplin che avvita bulloni: solo che lì è catena di montaggio, qui è catena montuosa.

Insomma mentre macinavo chilometri obliqui – nulla è dritto qui – circondato dall’acqua (dal cielo, sulla terra, sullo sfondo, dentro le scarpe e, ahimè, sugli occhiali) creavo link per similitudine e contrappasso e scoprivo nuove ragioni nel ricordo.

Così per la rapidità nel saper saltare in discesa da una pietra all’altra ringraziavo le stagioni di presciistica vissute da ragazzino con il tosto maestro Cicero.

Così per superare le chiazze di fango recuperavo l’illusione del “passo leggero” di quando eravamo ragazzini e pensavamo che il peso corporeo fosse un dato relativo, a seconda dell’indole. 

Se hai vissuto c’è sempre un rimedio noto ai problemi ignoti, o meglio c’è sempre un’occasione per capitalizzare quel po’ di buono che hai messo in saccoccia. Basta trattarsi bene, che si sia da soli a cena o in seducente compagnia. Un esempio di buona cura di sè e del prossimo qui la danno molti spagnoli che disseminano il Cammino di piccoli aiuti per i viandanti, pellegrini o semplici camminatori che siano: dal nulla, magari nel cuore di una strada di campagna, spuntano banchetti con acqua, frutta e qualche genere di conforto a disposizione di chiunque (nella foto sopra). Perché esiste un senso di comunità che non ha a che fare coi confini geografici o con le campagne elettorali.

A cosa è servita la mia porzione di Cammino di oggi? A star solo per 22 chilometri senza che nessuno mi disturbasse mentre assaporavo le ragioni promiscue che mi avevano portato lì.

Quand’è così, dopo un po’, che sia pioggia o sole non te ne frega niente. L’importante è arrivare, ma solo dopo che l’ultimo pensiero, quello più tosto, si sia dipanato per bene.

(3 – continua)

Le altre puntate le trovate qui.

A questo argomento è dedicato il podcast in due puntate “Cammino, un pretesto di felicità” che trovate qui.

Quelli che fuggono

Da Irùn a San Sebastiàn.

La prima tappa da Irùn a San Sebastiàn è stata durissima. Salite estenuanti in perfetta solitudine, nebbia sul monte Jaizkibel, borraccia a secco troppo presto. Comunque me lo aspettavo, la mia guida mi aveva avvertito per tempo, soprattutto sull’unica scelta che l’itinerario mi avrebbe proposto. Strada A più corta ma spaccagambe con 300 metri di pendio al limite del ribaltamento (pensate con lo zaino, uff!), strada B più lunga ma senza il picco di fatica. Ovviamente ho fatto la scelta più scriteriata. Transeat.

Verso il 10 chilometro ho incontrato una ragazza di Strasburgo che aveva qualche dubbio sull’itinerario (ci sono tratti soprattutto dopo la prima vetta sui quali si procede quasi alla cieca sul profilo della cresta). Abbiamo fatto strada insieme silenziosamente. Poi, scesi a valle a Pasajes, prima di affrontare un’altra montagna abbiamo fatto tappa al bar per riposare e rifocillarci. È lì che abbiamo iniziato a parlare. E mi ha spiegato che lei è in cammino non per raggiungere, ma per sfuggire. È, questo, un senso comune a molte persone che intraprendono questa esperienza. L’ho ascoltata per il resto dell’itinerario perché, uscita dalla sua solitudine forzata, voleva espellere dei pensieri, come tossine, come cibo maldigerito. Lo ha fatto con calma – qui tutto deve essere lento – ma con una familiarità impensabile in altri contesti. Funziona così questo strano incantesimo fatto di passi e parole, di sconosciuti e di salite, di deserto e pensieri affollati. Un rito antichissimo eppure dirompente, coi tempi che corrono, quello della solitudine intermittente, della conoscenza analogica.

Quel che ho capito oggi, all’esordio spezzagambe di un’impresa niente affatto semplice (almeno per me), è che invece io non fuggo da nulla, ma vago libero pronto intercettare impulsi che magari non conosco. È una sensazione che ho provato poche altre volte, sempre in corrispondenza di situazioni più o meno estreme, e che mi ha sempre dato la spinta che non sapevo di cercare. La fuga l’ho sempre usata in situazioni ordinarie, non mi è mai interessato adottarla come strumento eccezionale: probabilmente perché sono fortunato. Forse ci si abitua a tutto, alla fatica, agli effetti speciali, persino al sentimento. Alla curiosità mai.

A margine, San Sebastiàn è un posto incantevole con la sua spiaggia che sbuca dal nulla dopo sei ore di cammino e la sua pioggia oceanica che ti prende alle spalle proprio quando hai detto “ma che bell’arietta qui, altro che afa siciliana”. La tortilla in compenso è buonissima.

(2-continua)    

Le altre puntate le trovate qui.

A questo argomento è dedicato il podcast in due puntate “Cammino, un pretesto di felicità” che trovate qui.

Ricordati di desiderare

Quando qualche mese fa ho deciso che avrei fatto il Cammino del Nord mi sono imbattuto in un errore di valutazione. Pensavo ai chilometri, circa 830, a come sarei riuscito a mettere un passo dopo l’altro in quei benedetti 33 giorni senza mai una sosta più lunga di una notte. Pensavo ai pensieri che avrei dovuto scegliere, i più fecondi in prima fila, tutti gli altri dietro. Pensavo alla musica che avrei selezionato, alle playlist imbastite con pazienza in cui ritmo e supporto di meditazione stringono un patto di non belligeranza. Pensavo al quando, al dove, forse – non confessandomelo apertamente – anche al perché.

Pensavo cioè a ciò che avrei avuto davanti, e non a quello che avrei avuto dietro. Più precisamente sulle spalle. Ho coltivato quindi l’illusione che il bagaglio, più precisamente lo zaino di 50 litri, sarebbe stato facile da riempire: quel che c’entra c’entra, il resto vaffanculo.

Erroraccio di valutazione.

Solo alle 5 di stamattina, quando a fatica ho cacciato dentro lo spazzolino da denti come se fosse un ferro da stiro, ho pagato lo scotto di una inusitata filosofia della sottrazione applicata alla compressione fisica.

Scandisco il concetto, anzi lo riformulo per i posteri: fare un bagaglio di 8 chili per un mese di sopravvivenza è la vera impresa, altro che ottocento e passa chilometri a piedi. Perché la scala delle priorità si allunga proporzionalmente alla voglia di libertà. Più cerchiamo la leggerezza, più ci inventiamo un accessorio fondamentale per conseguirla. Se sogniamo il mare, pensiamo al costume, ma subito dopo arrivano la crema solare, la maschera, eccetera… Se sogniamo una passeggiata in montagna, pensiamo alle scarpe da trekking, ma subito dopo arrivano quelle più leggere perché se magari fa caldo e il terreno lo consente… massì, perché non concederci un doppio paio?

Insomma la leggerezza cozza con la reale pesantezza dell’apparato che abbiamo messo su per raggiungerla.

Il Cammino segna la svolta, un cambio radicale.

Otto chili e non rompere il cazzo, ti dicono le tue spalle. Che poi sono loro quelle che dovranno sbrigarsela: i sogni pesano, eccome. Adesso non so se sono riuscito a mettere dentro tutto il necessario, confido nella buona sorte e nello spirito di adattamento che non è mai stato il mio marchio di fabbrica. So però che per prima cosa ho stipato un breve elenco di desideri. Li ho messi lì, nella tasca laterale, quella a portata di mano insieme al taccuino e alla mia musica. Il primo è una sorta di comandamento: ricordati di desiderare.

Qui Irún. Si parte.

(1-continua)

Le altre puntate le trovate qui.

A questo argomento è dedicato il podcast in due puntate “Cammino, un pretesto di felicità” che trovate qui.

Fottitene, adesso guido io

L’ho già scritto: ci sono viaggi che non si progettano, ma ti chiamano. Sono idee che vengono fuori nel bel mezzo di un inutile pomeriggio invernale, o che esplodono ascoltando i racconti di qualcuno che conosci appena, o ancora che germogliano, senza fretta, lungo i viali di un’esistenza.

A un viaggio chiediamo sempre qualcosa: uno schiaffo, una coccola, un sussurro, un lieto fine, una sorpresa. Chiediamo di farci spegnere il cervello o di accendere i sensi. Ci sono molti modi di ritrovarsi senza essersi mai persi: viaggiare è quello più entusiasmante e per certi versi anche il più pericoloso.

Quest’estate farò il Cammino del Nord, 835 chilometri a piedi con lo zaino in spalla da Irùn a Compostela, ma non lo farò sposando l’ortodossia religiosa che anima molti pellegrini. Lo farò con me stesso, immagino serenamente, scommettendo un euro sul mio senso del limite e sperando di non perdere la monetina. Potrei dirvi dell’allenamento che, nonostante quel che sta scritto su molte guide, è fondamentale per saper usare insieme gambe e testa (accoppiata complicatissima). O di uno zaino dove devi stipare al massimo otto chili di vita per i 35 giorni che seguiranno. O ancora dell’ago e filo che devi avere il coraggio di usare per eliminare le vesciche sotto i piedi.    

E invece vi dico cosa può passare per la testa di uno che cammina sotto il sole, magari in salita, per cinque, sei, sette ore al giorno.

Ci sono due tipi di persone, quelli che amano raccontarsi una storia e quelli che si raccontano storie. I primi differiscono dai secondi per un dettaglio che riguarda l’autostima: godono di quello che fanno, anche quando nuotano controcorrente o quando non hanno il minimo consenso garantito. I primi viaggiano liberi, i secondi non sono liberi neanche quando vanno al cesso. Se vi è mai capitato di ribellarvi a voi stessi, capite di cosa sto parlando. Nel mio piccolo ho sempre mantenuto la democraticissima anarchia di alzarmi una mattina, dire “questo non sono io” e agire di conseguenza. Senza bizantinismi, ma col buon senso dello scriteriato consapevole. Risultati non garantiti, of course.

Un viaggio, estremo o meno (ho una pericolosa propensione…), è un modo delicato di afferrare la nostra narrazione per i capelli e dirle in un orecchio: fottitene del mondo, adesso guido io. Per poi buttarsi a capofitto nella prima trazzera che ti porti lontana dal ruolo che ti sei costruito, dall’immagine che hai difeso, dalle belve del circo di cui tu dovresti essere domatore.

Una scommessa.

Se la accetti corri il rischio di valorizzare la differenza tra chi si professa e chi è, tra chi vive e chi vivacchia, tra chi ammira la luna e chi si ferma al dito (che potrebbe utilizzare comunque meglio). Il mondo è pieno di pigri che, credendosi potenti o furbi, accettano di farsi scrivere la storia da altri, che a loro volta si sentono potenti o furbi. La storia scritta per procura.

Mettiamola così, il viaggio che ti chiama è un buon modo per allontanarsi dai ghostwriter delle emozioni e un pessimo modo di seminare consensi alla moda. Uscirne sano e salvo è un dettaglio.

La storia che cambia la storia

Ho una vera passione per la Seconda guerra mondiale e in particolare per la storia e i luoghi dello sbarco in Normandia di cui oggi si celebra il settantacinquesimo anniversario.  Sono stato tre volte a Omaha Beach, a Pointe du Hoc, a Colleville-sur-Mer, dove c’è l’immenso cimitero americano delle vittime dello sbarco.

E per tre volte ho vissuto quei momenti drammatici eppure entusiasmanti in cui le forze canadesi, australiane, belghe, cecoslovacche, francesi, greche, olandesi, neozelandesi, norvegesi e polacche, oltre a quelle britanniche e americane, muovevano le loro pedine sullo scacchiere della storia. Una storia che riavvolgeva il suo filo in quei pochi giorni.

Mi ha affascinato la strategia militare, coi suoi errori ma anche con i suoi leggendari trucchi. Primo tra tutti la creazione da parte degli alleati di  un intero esercito finto, per ingannare i tedeschi sul luogo in cui sarebbe avvenuto lo sbarco. Il FUSAG, First United States Army Group, fu affidato a un comandante vero, il generale George Patton, ed era formato da carri armati gonfiabili e aerei di legno, scambiati dai ricognitori tedeschi in volo sui campi militari britannici per veri armamenti. In tutti questi anni mi sono chiesto come si sentisse Patton (un militare di fama) a comandare una truffa di fantocci e mi sono risposto che il coraggio di un uomo sta tutto nel suo senso di responsabilità, anche nell’accettare di combattere con una spada di cartone, se serve.

Ho trascorso interi pomeriggi a Pointe du Hoc, in cima alla falesia che i ranger dovettero scalare sotto le mitragliate per espugnare una roccaforte della difesa tedesca. A mani nude, con chiodi e corde un manipolo di uomini affrontarono dal mare lo strapiombo di trenta metri. E io, da vecchio arrampicatore, non ho capito ancora da dove trassero quella forza. Ma soprattutto dove trovarono la serena ferocia con la quale, una volta giunti in cima, diedero fuoco ai bunker nei quali si erano asserragliati gli ultimi soldati tedeschi.

Insomma quei luoghi sono diventati un po’ anche i miei luoghi. Se non ci siete stati, programmate una vacanza da quelle parti: la storia non la si studia soltanto, la si può anche respirare. E in certi casi dà dipendenza.

Invecchiare, istruzioni per l’uso

A bocce, anzi a ruote ferme ho ancora un paio di cose da scrivere prima di chiudere (almeno qui) il diario di questo viaggio a Capo Nord. Sono appunti che ho preso durante quegli undicimila chilometri, la sera a letto prima di spegnere la luce, o in una birreria delle Lofoten, o ancora sul marciapiede di qualche sperduta stazione di servizio. Sono foglietti spiegazzati, alcuni dei quali divorati dall’umidità, che ricompongo adesso comodamente seduto alla mia scrivania: avvertenze valide per me e per chi vorrà fare un viaggio del genere che riguardano aspetti tecnici e non.

Il viaggio di per sé non è per solitari, ma induce gioiosamente alla solitudine. Trascorrere ogni giorno otto-dieci ore alla guida è un’occasione preziosa per parlarsi. Certo, un partner è utile per condividere emozioni davvero forti (amore è soprattutto condivisione, c’è scritto persino sui Baci Perugina), ma a favore della missione solitaria c’è anche un aspetto meccanico: in generale la moto più leggera dà meno problemi, anche se la casistica a me nota smentisce questo principio.

Preparatevi a perdere qualcosa, che sia un oggetto o un pregiudizio sarà il caso a deciderlo. Montando e smontando bagagli ogni giorno, viaggiando con mille piccole cose appese, piegate, nascoste, arrotolate, compresse, è normale che alla fine qualcosa manchi all’appello. E magari può essere un sollievo.

Al contrario di ciò che accade nella vita ordinaria, qui il giocattolo rotto non si butta subito ma si fa di tutto per aggiustarlo: con gran dispendio di metafore. Ci saranno cose e occasioni che avranno bisogno di un giro di nastro adesivo, una scarpa che si buca (le strade norvegesi consumano ruote e suole come grattugie), un compagno di viaggio troppo esuberante, un navigatore satellitare che si allaga, un cameriere scortese nell’ultimo ristorante aperto dell’ultimo paesino di una landa sperduta. Metterci una toppa in questi casi non significa accontentarsi, ma sopravvivere.

Infine lo stupore. Il motivo per cui scrivo queste righe è solo perché lo stupore vive di contagio: nulla è meraviglioso se non si può diffondere, spandere, condividere. Il mio sogno è che qualcuno, leggendo questi diari, abbia voglia di inventarsi un percorso del genere per sperimentare l’antico prodigio dello stupore. Che non è la prova dell’ardimento, non sono tutti quei chilometri a cavallo di una moto che alla fine sembra chiederti pietà, non è il susseguirsi di città e Stati (alla fine ne conterò undici), non è l’olfatto che ti regala una dimensione di viaggio che non conoscevi (in moto gli odori sono come i panorami). No, è qualcosa di più semplice: è un baricentro nuovo che ti dà stabilità anche se sei in bilico su uno scoglio, che rischiara lo sguardo anche se sei al buio, che ti dà la migliore compagnia anche se nel raggio di un chilometro non c’è nessuno. Stupirsi è un buon modo di invecchiare.

Buona strada.

9-fine

Le precedenti puntate le trovate qui.

La realtà che presenta il conto

Gli ultimi giorni di viaggio sono lancinanti nella contrapposizione di sentimenti. Da un lato c’è il gusto di un imminente ritorno a casa, al proprio letto, alle proprie abitudini alimentari, dall’altro il rimpianto per qualcosa che è irrimediabilmente finito. Come se due forze opposte ti tirassero per le braccia: la pasta della mamma e le spiagge delle Lofoten; il tuo cuscino preferito e la rocca di Capo Nord; le geometrie rassicuranti del tuo appartamento e la birra su quel lago finlandese col sole che non tramontava mai.
Ma bisogna avere a che fare con la realtà, che se ne frega del sentimento e, come l’oste, chiede sempre il conto. La visita al campo di concentramento di Auschwitz e a quello di sterminio di Birkenau ha segnato fortemente il mood di questi sgoccioli di vacanza. Che ovviamente non è mai stata vacanza in senso classico, ma esperienza, prova, avventura: altrimenti me ne andavo al mare a sollevare cocktail, attività peraltro nobilissima.
Avevo avuto occasione di visitare il campo di Dachau, qualche anno fa, ne avevo tratto l’orrore che serve per vincere la battaglia contro le nostre miserie quotidiane. Auschwitz e Birkenau sono un passo avanti verso il baratro, sono la crudeltà nella quale immergersi non solo per esplorare l’abisso di un genocidio, ma per capire dove questo mondo ci vorrebbe portare e dove, costi quel che costi, non dobbiamo mai più andare. Sono insomma una chiave di lettura di tremenda attualità poiché la storia delle atrocità non va mai declinata al passato.
La realtà è anche fredda meteorologia. La Repubblica Ceca in questo periodo ha piogge a chiazze, cioé a compartimenti scientificamente separati. Tipo, sei in autostrada e ci sono 34 gradi. Un chilometro dopo incontri un acquazzone e la temperatura scende vertiginosamente a 17 gradi. Un altro chilometro più avanti torna l’afa e così via sino a quando non ci fai più caso e il microclima dentro il casco diventa simile a quello di una serra del pomodoro di Pachino.
Va detto che le bizze del tempo sono una costante di un viaggio del genere, dal sud al nord dell’Europa, ma – non è un segreto – va detto anche che sono più sopportabili quando si è lontani da casa. Così, con una forte perturbazione in arrivo stasera abbiamo deciso di anticipare il rientro di un giorno. Siamo in tre e io ho il navigatore fuori uso. La tappa di domani è Praga – Chiusa, 640 chilometri: sin quando si guida e non si nuota va bene. Poi sarà la volta di Genova con la nave per Palermo. E lì l’acqua finalmente sarà al posto giusto.

8-continua

Tutte le altre puntate le trovate qui.

Dove non puoi rallentare…

Dove non puoi rallentare non soffermarti. La tautologia riadattata sullo scheletro di una celebre frase di Frida Kahlo mi serve per inquadrare questi giorni di trasferimento verso sud. Trasferimento si fa per dire perché comunque attraversiamo nazioni come l’Estonia, la Lettonia, in parte la Lituania, e la Polonia. Sono terre i cui racconti non si colgono in modo intuitivo, come invece è avvenuto fino a ora con i grandi palcoscenici geografici del nord. Qui è tutto più complesso, anche per strategia di viaggio. Da un lato c’è un mordi e fuggi imposto dalla nostra tabella di marcia che ci propina oltre 600 chilometri al giorno per rientrare in Italia in tempi congrui (che ci salvino almeno dal licenziamento), dall’altro c’è un territorio che non si dispiega dinanzi agli occhi ma che chiede un’annessione ai tuoi meccanismi logici o, se volete, si presenta con timida presunzione (un ossimoro dopo una tautologia, azz!).
Dalla Finlandia di Helsinki – che è cosa diversa dalla Finlandia reale dato che Helsinki sta alla Finlandia come New York sta agli Stati Uniti – ci siamo immersi nelle repubbliche baltiche. Un migliaio di chilometri a corsia unica dove le autostrade sono un miraggio e, per quel poco in cui si manifestano, prevedono di default l’opzione dell’inversione di marcia “a vista”. Questo per dire che comunque a ogni minima accelerazione qui bisogna stare davvero sul chi va là: che sia un trattore o un camion di laterizi, sarà la sorte a stabilire chi dovrà tagliarti la strada. Eppure in questa apparente e pericolosa deregulation c’è il paradosso dei paradossi: la presenza ossessionante di auto della polizia stradale. I poliziotti ti fermano e ti multano, ma nel fermarti e nel multarti hanno una dose abbondante di discrezionalità. Esempio. Oggi in Lituania ho fatto, insieme ad altri correi del mio gruppo, un sorpasso in zona ufficialmente vietata (niente di rischioso, ma pur sempre un’infrazione). Una pattuglia mi ha raggiunto a sirene spiegate e il capo, davanti al sottoscritto costernato, ha detto: “Per questa violazione ti dovrei sequestrare la patente per tre mesi”. Io, giocandomi la carta dell’asilo politico: “Giusto, ho sbagliato, ma sono stanco, vengo da lontano. Ha presente? Salvini… la cretinocrazia… Di Maio…”. E quello: “Berlusconi?”.
Io: “Macché, Berlusconi paradiso, heaven…“.
Scherzi a parte, dopo un un paio di controlli via radio il poliziotto mi ha restituito la patente: “Ok, lo dico a te e ai tuoi amici: con la striscia rossa non si supera. Mai”.
“Grazie, vostro onore, eccellentissimo, eminenza…” e via fantozzeggiando. Insomma quasi me lo baciavo.

Dove non puoi rallentare non soffermarti.
Non mi sono soffermato a Tallin, città che si visita in poche ore. A parte qualche chiesa, è tutta una paninolandia. Infatti in serata ci siamo rifugiati in un temibile locale italiano dove abbiamo manifestato indecente ammirazione per un nero d’Avola da supermercato (spacciato a 35 euro) e qualche fetta di Provolino. Roba che a casa lo tieni in frigo per testare le muffe da sottoporre come nuovi vaccini a Burioni.
Non avevo intenzione di rallentare a Riga, ma sono rimasto folgorato dal Baltic Drum Summit e dall’United Buddy Bears. A conferma del fatto che il nettare di una comunità non è solo prodotto dai suoi abitanti, ma anche dai suoi collegamenti. Dopo essermi rifatto gli occhi grazie a tanta attenzione per l’arte popolare (occhio, non parlo di musei o di manifestazioni impomatate ma di grandi concerti e piazze stracolme di genitori e bambini) sono stato costretto a soffermarmi. E in cuor mio ho ringraziato questa città che doveva essere accidentale per questioni di percorso e invece è diventata cruciale per corto-circuiti di ispirazione.
Ho rallentato a Varsavia ma l’ho trovata distante da me. È un po’ come il cielo, ognuno ne ha uno da misurare con gli occhi del cuore. Il cielo di Varsavia, pur bellissimo e terso (che culo!), non ha l’ampiezza che mi serve, almeno in questo momento.

La strada per arrivare sin qui è stata una via Crucis di interruzioni, di trattori, di asfalti deformati, di rettilinei ingannevoli, di autovelox, di cantieri, di pioggia e di sole, di pattuglie di polizia che aspettano te e solo te.
Ora sono stanco. E la stanchezza dopo tanti chilometri ha una strana parentela con la felicità, un po’ come accade col sesso o con la maratona.
Domani sarà ancora Polonia: Cracovia con un pellegrinaggio ad Auschwitz. Lì ho proprio voglia di soffermarmi.

7-continua

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Laghi, legno, latte al posto del vino

La Finlandia è quel posto dove la gente fa quello che gli pare facendoti sembrare tutto ordinato, incardinato. Qui puoi piantare una tenda dove vuoi, pescare senza chiedere il permesso in uno dei quasi 190.000 laghi (a dispetto della definizione di “terra dei mille laghi”), puoi illuderti che questi specchi d’acqua siano tutti “nordicamente” puliti facendo finta che le industrie della carta e del legno non li abbiano inquinati, e a pranzo puoi bere persino il latte freddo al posto dell’acqua o del vino. Opzione, quest’ultima, abominevole per noi italiani ma tutto sommato plausibile se si considera che questi sono soliti bere acque aromatizzate che dalle nostre parti sarebbero vendute solo in accoppiata col Gaviscon: io stamattina incautamente ne ho assaggiata una alla mela e il resto se l’è sbrigata con gran soddisfazione la mia ernia iatale.
In Finlandia, come vi ho detto, ci sono arrivato dalla Norvegia e le differenze sono state subito evidenti, almeno dal punto di vista stradale e orografico. Niente più rilievi, niente più curve ma interminabili rettilinei, niente più tunnel né gallerie ma dossi all’infinito. Qui le ruote delle moto si consumano in modo drammaticamente uniforme, per via dell’asfalto molto ruvido: in pratica diventano quadrate (un compagno di viaggio ha dovuto cambiarle dopo Oulu perché, anche a causa di una frenata impegnativa, il battistrada si era ormai esaurito).
E poi le persone, tenuto conto che la Finlandia ha più o meno lo stesso numero di abitanti della Sicilia con un territorio tredici volte più ampio. Noi terroni d’Europa generalizziamo chiamandoli tutti scandinavi, come per accomunarli in un’oziosa visione geografica. Invece dovremmo tenere a mente che il mappamondo ci dice di un popolo quanto l’insegna di un ristorante: per giudicare bisogna superare l’ingresso e guardarsi intorno, conoscere, assaggiare. In realtà un finlandese è molto diverso da un norvegese: innanzitutto non è scandinavo per lingua e cultura. Poi il norvegese è considerato il montanaro della zona, semplice (estremamente) e rude, con risata franca ma senso dell’umorismo non abbondante, al contrario del danese (che è il più moderno e aperto, per definizione strisciante e non confermata). Il finlandese è diverso anche fisicamente, i suoi tratti somatici sono meno europei, il fisico è più largo e piantato, e in generale pare che il suo sguardo volga più a est che all’Europa sottostante.
Il cibo comunque è una bandiera comune nonostante io, per via del mio latente vegetarianesimo, sia poco attendibile in tal senso. Salmone ovunque (l’ho mangiato, well done, e mi piacque in quanto “pesce non a forma di pesce”) e insidiosissimo pane all’aglio (uno dei motivi per cui questo rischia di non essere un viaggio per coppie).
Insomma il grande nord è un insieme di piccoli nord, tutti diversi anche climaticamente. Oggi, arrivando da un po’ più su, dopo 600 e passa chilometri mi sono trovato a Helsinki in un clima siciliano, con tanto di traffico caotico e 26 gradi abbondanti. Nulla di che se non fossi stato abbigliato da spedizione al Polo, con quattro strati addosso e noiosissimi ma indispensabili accessori tecnici (pensate a quanto possano essere scomodi i guanti e il casco integrale col sole che vi martella a ogni metro). Mai avrei pensato di fare una doccia fredda in Finlandia. E invece.

6-continua

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Capo Nord, il freddo che scalda

Sono seduto al tavolo dell’Hotelli (non è un refuso) Inari, a Inari in Finlandia. Alla mia sinistra c’è una finestra che dà sul lago. Mentre sorseggio una birra sento un rumore, lì fuori. È un idrovolante che ormeggia con la stessa facilità con la quale ho parcheggiato la mia moto, venti metri più in là. Due tipi scendono al volo e me li ritrovo poco dopo nel tavolo accanto.
È tutto così incredibile a queste latitudini o sono io che mi sono incastrato in un’allucinazione da “mal di Nord”? Non è facile trovare una risposta se sei reduce da due giorni in cui non sei arrivato, ma sei allunato in un posto incredibile.
Provengo da Capo Nord (Nordkapp) è ho addosso le sensazioni di un motociclista che ha imparato che nulla è compiuto sin quando non si tira giù il cavalletto. Ma il bello sta in questo tremendo contrasto tra ciò che passa davanti e ai lati del tuo casco, mentre corri sul nastro di strada che cambia colore a seconda del cielo (quasi che fosse specchio), e ciò che prende forma quando ti fermi e rimetti le gambe al posto delle ruote. Capo Nord e il suo fascino estremo sono anche (e molto) la strada da percorrere, le intemperie da superare, la forza da trovare per galleggiare sul vento freddo e sull’asfalto che qui consuma pneumatici come se fossero burro in padella. I centomila metri che precedono la selvaggia rupe sul Mar Glaciale Artico – sempre dritto in fondo, dopo duemila e passa chilometri, c’è il Polo Nord – vanno vissuti come parte integrante della spedizione/missione. Per la maggior parte lunari, veloci e gelidi come il vento che solitamente ti soffia contro, quasi a gettarti un guanto di sfida (e i guanti qui si raccolgono sempre se non altro per motivi climatici). Poi, arrivati al mare, si imbocca il tunnel sottomarino per l’isola di Majeroia e il paesaggio si trasforma. Ci sono spiagge deserte e pietre levigate, rivoli di acqua che solcano la strada e rocce stratificate che sembrano volerti spingere via a ogni curva, c’è un surreale clima balneare senza bagnanti, di grigio multicolore, c’è il Nord che ti aspettavi e che un po’ temevi, con la fascinazione che ne consegue.
Arrivati alla rupe, tutto cambia.
Le foto, l’emozione di essere nel luogo più a nord del tuo continente – tu che vieni dall’estremo sud – lo sguardo fisso al Mar Glaciale Artico che sta centinaia di metri più giù. È un freddo che scalda, una risposta che non vuole domande. È bello per chi ama l’avventura, meraviglioso per chi ama essere cambiato dall’avventura. A dispetto del fatto che sei approdato a una metà turistica che nella sua brevissima estate fa centinaia di migliaia di visitatori, che la differenza la fa come e da dove sei arrivato, che i pochi alberghi nelle vicinanze in un raggio di 30 chilometri hanno la peggiore delle colazioni della Scandinavia (e qui la colazione conta più di una cena).
Ecco perché ora, 370 chilometri più a sud, in questo hotel finlandese sul lago con l’idrovolante parcheggiato alla mia sinistra scelgo di non dare risposta alla domanda: è tutto così incredibile o è un’allucinazione da “mal di Nord”?
Domani si riparte, è questo l’importante.

5-continua

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