Quei siciliani alla conquista di Roma

siciliani alla conquista di Roma

Un estratto dall’articolo di oggi su la Repubblica.

L’allarme lo ha lanciato Giorgia Meloni: “La giunta di Roma è senza romani”. E vai con l’elenco dei nomi, dei luoghi di nascita. E con qualche sorpresa. Il nuovo vicesindaco della Capitale è Marco Causi, palermitano figlio di palermitana illustre, quella Marina Marconi, deputata comunista all’Ars negli anni Settanta e assessore al Comune di Palermo nella Primavera orlandiana (…). Assessore alla Legalità è Alfonso Sabella, siciliano di Bivona, un tempo rude pm antimafia nel pool palermitano di Gian Carlo Caselli. Mentre, sempre nella giunta capitolina, all’Urbanistica resiste Giovanni Caudo, originario di Fiumefreddo di Sicilia in provincia di Catania. Per non dire del sindaco Ignazio Marino che sarà pure nato a Genova, ma che è di padre di Acireale e che ha svolto a lungo la sua attività di medico all’Ismett di Palermo (da lui fondato nel ’99).
Qui è la Sicilia, lì sono i siciliani. E non importa se è diaspora, se è fuga di cervelli, se è transumanza, o se è fuitina professionale. Roma titilla da sempre il nostro sentimento di capitale perduta, è il punto di riferimento più solidamente vacuo quando c’è da scrollarsi una responsabilità di dosso, quando c’è un dito da puntare nel cono d’ombra di un orizzonte: non c’è lavoro? Chiedete a Roma; la vera mafia? E’ a Roma. Continua a leggere Quei siciliani alla conquista di Roma

Questa Palermo, bella a sua insaputa

Un estratto dall’articolo di oggi su la Repubblica 

Mettiamo da parte la politica. Che sia stato Orlando o che sia stato Cammarata non importa, quel che emerge è il trionfo naturale, cioè privo di artifici, del bello. Ieri Repubblica ha raccontato il rifiorire di monumenti palermitani in un ventennio di riaperture, l’accresciuta appetibilità turistica della città. Una città che attrae lo straniero e respinge il residente, che alimenta il perenne dubbio pessimistico: c’è da gioire per un monumento recuperato o da lamentarsi perché prima era in abbandono? Eppure una certezza consolatrice deve esserci da qualche parte: c’è vita sotto la cenere di mille vacue promesse elettorali, la bellezza galleggia sull’incuria, l’arte come la natura si riprende a forza quel che la mano incauta le ha tolto. Palermo è una città che brilla di luce rubata: la forza delle sue bellezze costringe i curatori delle più importanti guide di viaggi del mondo ad aggiornare continuamente le mappe dei tesori salvati o rivelati. (…) Palermo si ribella a se stessa con un’inusitata schiera di abitanti in prima linea contro ogni forma di cambiamento. Cambiamento che invece è un valore culturale apprezzato dal viaggiatore, il quale arriva, parte e ritorna proprio per goderne appieno.
Niente politica, abbiamo promesso. Ma il sogno di una nuova visione della vita amministrativa, sì. Forse a questa Palermo non serve un sindaco di tutti i palermitani, ma un sindaco di tutti i non palermitani. Governare verso il futuro significa infatti  governare per chi apprezza il futuro col suo carico meraviglioso di cambiamenti. I turisti per esempio.

I bravi palermitani

imageIeri pomeriggio il Teatro Massimo di Palermo ha organizzato la diretta in video streaming dell’ultima replica di Le Toréador-Cavalleria Rusticana a piazza Magione. Era un’operazione ardita, portare la lirica nel cuore della città vecchia, in un quartiere che da qualunque parte lo guardi è simbolo di qualcosa (del degrado, della rinascita, della bellezza dura come il granito) era una scelta cruciale: poteva venire fuori una cosa bellissima così come poteva venire fuori un fallimento epocale.
È andata bene.
Centinaia di spettatori attenti, motivati, persino pazienti: quando per un problema col satellite c’è stato un black-out di pochi minuti, nessuno ha protestato e anzi il rapido ritorno delle immagini sullo schermo è stato salutato da un applauso. Giovani, anziani, turisti, gente del quartiere, tutti sdraiati sull’erba o appollaiati sulle sedie portate da casa hanno dato vita a un happening indimenticabile. Con una grazia e una delicatezza che non riconoscevo a questa città. Pensate, in tre ore di spettacolo non ho sentito squillare manco un telefonino. E ho detto tutto.
Bravi palermitani, veramente bravi.

L’onestà del giornale

Quello che un giornalista fa nasce dalle sue convinzioni e dai suoi principi. Per me, furono fissati dal direttore del Times che per la prima volta mi mandò all’estero nel 1976. A. M. Rosenthal. Abe chiedeva di “mantenere l’onestà del giornale”. Lo disse prima del mio primo incarico all’estero: l’apartheid in Sudafrica, un paese visto come un caso di evidente oppressione. Ma anche lì la necessità di mantenere l’onesta del giornale imponeva, disse Abe, che raccontassimo non solo la storia degli oppressi, ma anche quella di tutti gli altri principali protagonisti della grande tragedia sudafricana, compresi gli afrikaner he avevano fatto diventare il paese una fortezza del pregiudizio razziale. Quelle storie, disse, potrebbero sorprenderci e darci un senso più strutturato della verità.

Oggi su la Repubblica John F. Burns, nel ricordare Tiziano Terzani, ricorda a tutti noi il senso di un giornalismo antico e meraviglioso. Il giornale che ha una sua onestà, che ascolta tutti, oppressori e oppressi perché la verità è un puzzle e non una tesi blindata. Leggendo quelle righe e guardandoci intorno come sembrano piccoli e insignificanti i giornalucoli di casa nostra che sposano cause vincenti per comodità di pregiudizio…
Mi sono spesso imbattuto, purtroppo, in queste fosse comuni del buon senso: giornali che pontificano appoggiandosi sulle spalle del più forte e che non riescono a trovare l’indipendenza per narrare con dura franchezza, per sporcarsi le mani con la realtà. Sono i promulgatori di quelle che un tempo definii notizie a sentimento: che piacciono quindi vanno date (a differenza delle altre che invece vanno sepolte vive). Per fortuna il tempo, oltre a essere galantuomo, è anche discretamente crudele con chi spreca i tesori dell’esperienza e persevera nei propri errori.

La lezione della ragazza con la chemio nella borsetta

eleonora letizia futura marsalaUn estratto dall’articolo di oggi su la Repubblica.

A leggere le sue parole sembra che la morte più che spaventarla la annoiasse. Per questo Eleonora Marsala, anzi Eleonora Letizia Futura Marsala come si firmava sul suo blog, da quando il cancro al colon l’aveva colpita tre anni fa, aveva cominciato una battaglia parallela a quella medica, una battaglia per il diritto all’allegria.
Si faceva chiamare “la ragazza con la chemio nella borsetta” ed era diventata molto popolare nel web, specialmente dopo che la tv e i giornali si erano occupati di lei. (…)
Sembrava imbattibile Eleonora, forte di quel corpo indebolito, armata delle cicatrici che aveva messo in mostra su una pagina Facebook intitolata “le tacche della vittoria”. Sembrava potercela fare e invece non ce l’ha fatta, a conferma che il destino non ama la meritocrazia.
Però, andandosene, questa combattiva trentatreenne palermitana ci ha lasciato una lezione sull’importanza di chiamare le cose col loro nome. Troppe volte noi giornalisti ci siamo rifugiati nell’espressione “male incurabile” per narrare del cancro, come se ci fosse imbarazzo nel pronunciare la parola giusta. Lei invece è sempre andata dritta al cuore del problema. Si mostrava com’era, coi capelli rasati a zero, con la parrucca, con i tagli di sette operazioni colorati sul suo corpo da un’amica body painter. Continua a leggere La lezione della ragazza con la chemio nella borsetta

Lo stato delle cose

da direttore a fondatore

Il miracolo di Francesco

Francesco Foresta funeraliHo visto ex nemici che piangevano insieme. Ho abbracciato persone che per anni avevo tenuto a distanza con la canna. Ho guardato negli occhi uomini che sino a ieri avrei azzannato, e invece li ho stretti a me come se si trattasse di vecchi amici.
E’ il miracolo di Francesco Foresta che da morto ha voluto attorno a sé, dettando istruzioni ben precise, un circo di gioia, e dando vita a una sorta di fiera campionaria dei valori: ognuno col suo, ben in mostra. C’eravamo davvero tutti a villa Filippina, in una giornata inutilmente luminosa. Bianchi e neri (e non per il colore della pelle), alti e bassi (e non per la statura), ricchi e poveri (e non quelli della brunetta), vittime ed esecutori materiali (e l’arma era perlopiù la penna).
Ho incontrato gente che non vedevo e non volevo vedere da anni e mi sono commosso nell’incrociare le mie mani con le loro, nel sorprendermi felice di essere lì in quella compagnia inusitata. Ci siamo detti cose bellissime e folli, inventandoci un’amicizia che non c’è mai stata e che invece serpeggiava tra i rovi di una vita bastarda. Ci siamo rivolti un sorriso dopo anni di denti stretti. Non abbiamo perso tempo a chiederci scusa, ci siamo ringraziati a vicenda per esserci, per esercitarci nel ricordo di quel che ci eravamo persi. Per parlare di Francesco.
Mai vista tanta energia positiva e tanta consonanza tra sconosciuti, in un funerale. Anzi mai vista e basta. Il fatto che sia debba passare attraverso la strettoia di una immensa mancanza, del buio della morte, per imbattersi in una serie così ricca di sorprese è la conferma del carisma di Francesco: stratega sino alla fine e oltre, direttore dall’alto, anzi dall’altissimo, inventore di feeling, bravo a far tutto anche quando non faceva niente. Un gran seminatore di fiducia.

Non sottovalutate i sentimenti

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Oggi ascoltavo alla radio questa canzone e mi è venuto in mente un mio caro amico d’infanzia. Che come per magia, mi ha chiamato poche ore dopo.
Oggi parlavo di un Natale lontano trascorso con un altro amico su una montagna impervia. Come per magia, anche lui mi ha chiamato.
Più invecchio e più mi rendo conto che il corretto esercizio della memoria non consiste nel rimpiangere ma nel ravvivare. Più si diventa grandi più si dà peso alle cose piccole. Ecco, se dovessi farmi e farvi un augurio per il tempo che verrà, penserei a un puzzle: mille tasselli minuscoli per mille minuscole soddisfazioni. Il resto – le grandi conquiste, l’olio nel complesso ingranaggio dell’ambizione – non conta niente, ma proprio niente.
Non distraetevi mai dalla minima gestione dei sentimenti, solo lì troverete la vostra colonna sonora. Non sottovalutate l’oblio e la comodità dell’utilitarismo, evitateli come la peste.
Ora siccome sto parlando come un Papa, mettendo a dura prova il mio senso del ridicolo, chiudo qui. Però poi non dite che non vi avevo avvertiti. Andate a caccia di sorrisi e mettetene sempre uno da parte come antidoto: perché lo sapete, l’infelicità è contagiosa.

E vaffanculo al cancro

mauro maniscalcoEsattamente due anni fa, pubblicai questa foto del mio amico Mauro, ritratto in una posa memorabile prima di sottoporsi a un trapianto di midollo.
Non mi dilungo adesso sulla sua battaglia contro il tumore, perché la sua esperienza merita una trattazione gioiosamente approfondita. Dico solo che oggi io e Mauro siamo andati a correre a Mondello: sei chilometri di riscaldamento e quattro ripetute a 3,30.
E vaffanculo al cancro.

Amico mio, mi spieghi?

C’è un mio amico che sta male e io vorrei aiutarlo, come si fa tra amici veri quando c’è bisogno di darsi una mano sul serio, non per cazzeggiare. Lui, come me, è lontano milioni di anni luce da quel sentimento discutibile che chiamo “egoismo del dolore”, che è una sorta di contrappasso per quella che invece mio padre chiama “invadenza affettiva”. Il primo giustifica inopinatamente la condivisione dei propri problemi perché così – da strano assioma – si diluiscono, la seconda è un passepartout sentimentale per ogni porta chiusa, causa disagi interiori.
Il mio amico non sente ragioni, non vuole contaminare col suo dolore il resto del mondo. E forse non ha torto, ma per un motivo molto diverso dal suo egoismo (che in realtà è una forma sublime di altruismo).
Forse restando un po’ da solo apprezzerà che quel che tra noi umani non si dice e , spesso, ha più valore di quel che si pronuncia reiteratamente. E si sorprenderà a rivalutare i propri pensieri senza la contaminazione dell’ordinario, quella forma di inquinamento strisciante che ci rende tutti un po’ uguali e quindi un po’ qualunque.
Quando uscirà da questa quarantena anarchica, il mio amico avrà una nuova bilancia con la quale pesare i rapporti umani: niente apparenze, dentro abbiamo cellule che lavorano tutte allo stesso modo, ma non abbiamo tutti le stesse cabine di regia. E la regia è importante quando si va in scena nel teatro della vita, caro amico mio. Perché siamo tutti bravi attori, basta avere il palcoscenico giusto e c’è chi se lo è meritato e chi no. Ma degli usurpatori di scena non si avverte la mancanza quando si astengono: questo fa la differenza tra quelli come te e gli altri.
Tu hai faticato per conquistare il tuo ruolo quindi prenditi una vacanza, ok, ma il posto resta occupato. E’ una questione di equità sociale, gli scemi non li possiamo debellare, ma nemmeno consentirgli di prendere il posto di chi è in ferie.
Per aiutarti, a distanza come mi hai imposto ora (non demordo, eh), ti dirò che il tuo momentaneo distacco dal mondo ti sta risparmiando il sacrificio delle piccole beghe. Lavoro, soldi, appuntamenti, scadenze: cazzate, come cazzate sono generalmente tutte quelle cose che ci tormentano quando non abbiamo nulla di meglio da fare che lasciarci tormentare dalle cazzate.
Perché tu lo sai che nella vita che hai vissuto sino a ieri, prima di questo esilio volontario, gli sguardi di ammirazione sono, al netto dell’invidia e della ruffianeria, direttamente collegati al ruolo momentaneo di chi li riscuote. Sai anche che il tormento non è dei più deboli, ma dei più sensibili. E che il mondo non è di chi taglia per primo il traguardo, ma di chi ha tracciato il percorso. Sai inoltre che non c’è rimorso senza colpa ma che le colpe si cancellano, i rimorsi no: e il momento del raccoglimento (che sia religioso o umanissimamente laico) può fare il miracolo, con una tabula rasa che ci rende nuovi e intonsi. Sai, amico mio, che i conti li chiediamo malvolentieri, ma che non sempre ingrassano l’oste: spesso migliorano la nostra vita, perché più leggeri si viaggia meglio. Sai che perdere qualche partita non significa essere retrocessi e che vincere non significa spadroneggiare. Chiudo qui perché se continuo così alla fine il mondo si capovolgerà, l’”egoismo del dolore” andrà a farsi benedire, la teoria dell’”invadenza affettiva” avrà la stessa attendibilità di quella sulle scie chimiche e il dolore, più che contaminare il mondo, contaminerà la prima serata del pacchetto Sky con la De Filippi e la D’Urso al posto di House of Cards (e questo non lo tollereremmo).
Amico mio, sai tutto questo e molto altro, ora più di ieri avvolto in questo cazzo di isolamento che ti arricchisce ma rompe un po’ le scatole di chi resta fuori, quindi concedimi una sola cruciale domanda: perché non mi apri il portone e spieghi qualcosa anche a me?