Il gigante addormentato

Il gigante dorme in una penombra e in un silenzio irreali. Stamattina sono rientrato in teatro dopo interminabili settimane di lontananza forzata, un po’ come gli amanti di Battisti, quelli di “cerca di evitare tutti i posti che frequento e che conosci anche tu”. Ma la mia, anzi la nostra, non è una storia d’amore finita, bensì un doloroso distacco imposto da un nemico invisibile. Quindi è sofferenza cruda, senza manco la consolazione del tempo o della sfida a singolar tenzone.

Immagino il disagio, quasi una crisi di astinenza, degli artisti che vivono sul e per il palcoscenico. Io, che artista non sono, quando mi sono ritrovato al cospetto del gigante addormentato ero tentato di gridare, applaudire da solo al centro della Sala Grande: volevo essere tutti gli occhi e tutte le mani del mondo per restituire ammirazione e applausi a quel luogo di gioia imbavagliata. Perché un teatro chiuso è rapina di tempo e bellezza, è un pizzo pagato all’odio del mondo che è fatto non solo di miserie umane ma anche di orribili e per nulla ammalianti vendette della natura.

Ci sono cose che ci mancano a tradimento, come certi amori che diventano solidi quando evaporano. A me è capitato con stanze secondarie del teatro, luoghi seminascosti dove scorre una vita anonima ma non meno importante delle altre: locali tecnici, la impervia regia televisiva, una sala prove caldissima d’estate e fredda d’inverno. E poi i corridoi, i palchi di proscenio, quelli dai quali uno spettacolo gli addetti ai lavori lo assorbono, godendoselo come una cosa propria: il fruscio delle vesti di un cantante, il soffio delle pagine di uno spartito, il respiro di un danzatore. Noi non-artisti di un teatro siamo morti mille volte in gloria sul palcoscenico, abbiamo suonato mille strumenti da solisti, siamo risorti tra gli applausi, abbiamo ucciso felicemente, abbiamo dichiarato guerre e siglato paci familiari con lo stesso effetto scenico, abbiamo saltato e piroettato leggiadri nelle nostre panze, abbiamo concesso bis tra i sorrisi e abbandonato le assi tra le lacrime. Noi non-artisti siamo il riverbero del soffio vitale di un teatro. Siamo Gianni Rivera e Marco Tardelli ai Mondiali. Siamo l’ingranaggio che sogna da motore. E che gode nel sentire un rombo che, per una piccola parte, è anche suo.

A tutto questo pensavo stamattina quando tutto era fermo, terribilmente fermo, intorno a me. Se volete sentire il vero rumore del silenzio, per mia esperienza, ci sono solo due luoghi in cui perdersi con cautela: le viscere di una montagna e l’interno di un teatro chiuso.

Dovremo ricominciare da qui, per raccontare questi tempi di prigionia democratica, di privazioni feconde, di assenza forte e presente. Dal non sentirci traditi dalle cose che si allontanano da noi, perché non è vero che l’anima ce l’abbiamo solo noi. L’anima è nel silenzio e nel buio di luoghi fatti per scacciare i mostri del silenzio e del buio. L’anima è nell’aria che attraversa gli spazi che ci dividono e che ci eravamo dimenticati di accorciare, quando tutto era più facile.

Il gigante si sveglierà. È sempre stato così, non sono bastate guerre e mafia, sciatteria e malamministrazione a spegnerlo. Solo che stavolta il risveglio sarà più lento e ci vorrà più cura per lasciarci accogliere tra le sue braccia.      

Che sia pioggia. E arcobaleno.

L’altro giorno, scrivendo una cosa destinata all’oblio, riflettevo sul fatto che chi desidera vedere l’arcobaleno deve imparare ad amare la pioggia.

Per mestiere e per vocazione sono sempre stato gioiosamente abituato, quasi forgiato, al peggio: non certo per resistergli, ma per poterlo recensire da un angolo minimamente riparato, da un punto di osservazione elevato al punto giusto per non falsare la prospettiva e basso quanto basta per non impantanarsi, immobilizzarsi, annegare. Il meglio nei miei anni d’oro di giornalismo era spesso il peggio della cronaca. Capita a chi ha scelto il mestiere di raccontare, anche dalla cucina di un giornale (perché la cronaca non è fatta soprattutto di prime file, ma anche di braccia che impastano e teste che immaginano dove altre teste vogliono andare), capita soprattutto a chi sa che persino nel paese dei balocchi c’è un cattivo in agguato che fa di quel posto il luogo che tutti sogniamo. Siamo arcobaleno che nasce dalla pioggia.

In questi frangenti di paura epidermica, di starnuti che sembrano fucilate, di febbri da prime pagine, di anziani caduchi e di casuali untori, c’è un senso comune che va cercato, e possibilmente trovato, nelle piccole cose perdute. Che non sono la convivenza forzata con i figli che magari conoscevamo solo biologicamente o la confidenza recuperata con un libro sepolto per anni sotto le riviste sul comodino, ma sono proprio i nostri vicini di sempre: il/la collega dall’alito pesante ma, lo scopriamo solo ora, dal cuore accogliente; l’amica/o che si cura di noi oltre l’ordinarietà di un aperitivo; il parente che era foto sbiadita di un mondo in Polaroid e che si rivela nelle tre dimensioni fondamentali di un mondo in emergenza, ci sono – ci sono – ci sono.  

Grazie a un virus, e non a un mahatma, stiamo imparando che quando le ruote sono a terra il problema non è gonfiarle, ma riprendere a correre. Perché la grande crisi che potrebbe ammazzare il mondo non è energetica o nucleare, non è terroristica o ambientale. È la crisi più subdola e terrorizzante e scaturisce dalla ricchezza ingiusta, dal potere dell’ignoranza, dalla grettezza dei numeri, dalla dittatura del sentito dire.

È, ve lo confesso, la battaglia professionale più complicata che abbia mai combattuto poiché non ha schieramenti ufficiali ma solo partigiani, anarchici, truppe di volontari. È la battaglia per salvare l’entusiasmo in un mondo di fanatici.

Ecco perché oggi è importante sognare e garantire i sogni allo stesso modo dei farmaci e del cibo. Ecco perché le istituzioni culturali sono ospedali del sapere, che a loro modo salvano esistenze.

Ecco perché, come in uno Stargate, dobbiamo imparare a guardare la pioggia in modo diverso. “C’è chi aspetta la pioggia per non piangere da solo”, diceva De Andrè. Ma ancora l’arcobaleno non ci mancava maledettamente tanto.

Il tempo non torna e non perdona

Domenica 1 marzo andremo in scena al Real Teatro Santa Cecilia di Palermo con Butterfly Blues, una storia di amore e depistaggi, di illusioni e tecnologia, di passione e tradimenti. È un’opera corale di parole, musica e danza: una delle cose più complesse nelle quali mi sono imbarcato. Ancora ci sono dei posti disponibili, ma non è questo il motivo di questo post.
Scrivo perché viviamo tutti un momento molto difficile con un virus che ha fatto più tragedie nella psiche di molti che nella realtà scientifica. Il clima di follia collettiva di questi giorni ci ha indotto a mantenere la barra a dritta, nonostante una navigazione in piena burrasca. Nelle nostre scelte ci hanno guidato due solide certezze: il ferreo rispetto delle norme e la fede nella buona creanza. Quindi spettacolo sia. Perché l’arte ha anche il compito di gridare quando tutti stanno zitti, di nuotare controcorrente, di fare il primo passo quando gli altri esitano. E non è coraggio, è semplicemente il motivo per cui c’è.
Butterfly Blues ha anche un valore intrinseco che non dipende dalla qualità del nostro lavoro (quella la giudicherete voi) ma dalle forze vettoriali che in qualche modo convergono in questo progetto: il Brass Group che mette il cappello sull’evento, il Teatro Massimo che è un primo motore immobile di questo gruppo di lavoro, Piano City per cui quest’opera è nata. Tre eccellenze italiane che ci onoriamo di servire per dare a Palermo uno spettacolo, crediamo, interessante. Uno spettacolo che, vale la pena ribadirlo visto i tempi che corrono, non usufruisce di un solo centesimo di fondi pubblici.
Butterfly Blues è il nostro omaggio alla città, in un momento in cui è importante ricordare – come dice il nostro protagonista – che il tempo non torna e non perdona. E che alla fine i conti tornano, sempre.

Butterfly Blues
di Gery Palazzotto
Interpretato da Gigi Borruso
Musiche scritte e eseguite da Marco Betta, Vito Giordano, Fabio Lannino e Diego Spitaleri
Coreografie di Alessandro Cascioli eseguite da Alessandro Cascioli e Yuriko Nishihara
Grafica di Luca Orlando
Ufficio stampa: Rosanna Minafò

Anche le sardine nel loro piccolo…

L’articolo pubblicato su Repubblica Palermo.

Una cosa è certa. Una folla come quella di venerdì sera in piazza Verdi a Palermo non si vedeva da anni. Se la quantità non dice mai nulla del prodotto, almeno dice qualcosa sullo scaffale sul quale quel prodotto è riposto. C’è spazio da riempire, ci sono vuoti imbarazzanti da colmare. Le sardine, con tutto il corredo di metafore volute o no, sono un fenomeno da osservare con grande attenzione. Non serve derubricarle a ennesima mutazione movimentista poiché la rivoluzione politica e sociale che attraversa oggi il Paese rende incompatibile qualsiasi sovrapposizione con altre storie di piazza. Siamo a un punto e a capo, ma la svolta non è garantita: troppi pericoli incombono su quella folla pacifica ed entusiasta, la maggior parte dei quali si annidano proprio nel tessuto connettivo di questa frangia civile e composta.

Il web innanzitutto. Nate e pasturate tramite i social network, le sardine sono già davanti a un bivio: sopravvivere in mare aperto o morire nella rete della Rete. Lo spettro è quello di finire nei flutti dell’illusione grillina (democrazia diretta a mezzo smartphone, un quarto vale un quarto, e via chattando), di venire fagocitati dalla tragica illusione che una ribellione civile si regga su un paio di polpastrelli. La piazza è quella che conta, il contatto fisico, l’essere presenti, la condivisione di sguardi e sospiri. Il resto è onanismo da tastiera.

E poi il ruolo politico. Qualunque atto pubblico che tende a dare un indirizzo, a sostenere un’opinione, è politica. Le sardine non devono averne paura e soprattutto hanno l’obbligo morale di tenersi a distanza di sicurezza dalle sirene dell’antipolitica. Il loro ruolo ideale, in quest’epoca di navigazione a vista, è quello di vedette. Contro odio, discriminazioni, coltivazione estensiva dell’incultura servono anime buone, ma non cuori teneri. Chiedere “toni pacati” (come hanno fatto alcuni di loro) nell’era dell’urlo e della sguaiatezza istituzionali è un felicissimo principio rivoluzionario.

Infine il simbolismo. Ogni movimento ha avuto il suo lenzuolo, i suoi arti (mani, braccia, gambe), i suoi animali di riferimento. Le sardine hanno una forza evocativa di grande impatto, come pesce che vive in banchi molto fitti, che si riproduce tutto l’anno, che è anche un cibo salutare. Ciò che si chiede ai simboli è di alimentare almeno una suggestione. Quella di un movimento arrabbiato ma con calma, risoluto ma con civiltà, potrebbe essere vincente.

Lo Zen e l’arte della manutenzione della civiltà

L’articolo pubblicato su la Repubblica.

Che allo Zen una processione religiosa faccia l’inchino non davanti alla casa di un boss ma davanti alla caserma dei carabinieri è un fatto, è l’apertura di un sentiero alternativo rispetto alla strada battuta sinora. E che ogni forma di trionfalismo dovrebbe essere vietata per decreto è un punto di partenza imprescindibile nel cercare di ragionare su un prototipo di coscienza civile collettiva. Però qualcosa è accaduto nel quartiere dormitorio palermitano, anche se considerando l’esiguo numero di partecipanti al corteo si può tranquillamente parafrasare Neil Armstrong: un piccolo inchino per l’uomo, un discreto balzo per la comunità.

Il vero dibattito è adesso sul contesto in cui questo evento si è verificato e sulla maniera di narrarlo e/o interpretarlo. Esistono due scuole di pensiero, il cui contrasto è ancora più evidente dopo il successo del nuovo film di Franco Maresco, “La mafia non è più quella di una volta”. La crudezza dello Zen – che è la cristallizzazione della crudezza palermitana per impatto metaforico e valore simbolico – va esposta senza altri filtri che non siano quelli del linguaggio cinematografico, che è comunque un elemento di finzione, oppure esiste una narrazione che può descrivere il lato buio della luna senza per forza oscurarla tutta?

La partita sul rilancio della credibilità di una città che si specchia nel suo quartiere simbolo per degrado e divieto di speranza, si gioca non solo sui fatti ma anche su come incatenarli logicamente. Palermo ha uno strabismo narrativo di se stessa che ha pochi termini di confronto in tutto il mondo. Una visione laica dell’apparente miracolo è l’unico modo per smetterla di scolpire il pregiudizio sulla roccia di confine tra città-bene e città in abbandono.

Questa foto non è solo una foto

L’articolo pubblicato su Repubblica.

Avrebbero potuto non dirsi niente, mettersi l’uno a fianco all’altra, posare immobili davanti alla macchina fotografica. Avrebbero potuto raccontare, muti, la storia di un’inaspettata addizione: drag queen più carabiniere. E scommettere sul risultato: simbolo di tolleranza o precipizio di indecenza?

E invece hanno pure chiacchierato, a margine del Gay Pride palermitano: lui, carabiniere nordico, e lei, drag queen nota come Lady Greg.

La foto che li ritrae insieme a piazza Virgilio, finita nel vortice di una viralità telematica che contagia molto e coinvolge poco, ci tramanda una strana urgenza perché, per dirla con Paul Cézanne, è necessario affrettarsi se si vuole vedere qualcosa, poiché tutto scompare. Nel tritacarne del nuovo sentire comune in cui i brandelli del diverso – per censo, natura, indole, religione, sesso, pensiero, persino intenzione – sono destinati a diventare poltiglia da smaltire, manco da riutilizzare, il tempo gioca un ruolo fondamentale. Bisogna far presto per mettere al riparo i simboli e cristallizzarne il significato. Prima che l’onda del nuovo ordine confonda schiuma e pesci. Prima che il carabiniere e la drag queen siano costretti a ripensarci, magari a scusarsi ciascuno col suo copricapo in mano.

Eppure il costume e l’uniforme, con lo sfondo ordinario di un pomeriggio cittadino caldo e sudista, sarebbero una perfetta narrazione per un sistema sociale che anela alla sicurezza come un naufrago guarda la barca di salvataggio (certo magari questo non è il paragone più opportuno, dati i tempi…). Sembrerebbero esser messi lì apposta per dire: tranquilli, non è questione di colore, persino l’arcobaleno finisce per poggiarsi sul grigio della terra. Invece, siccome Cézanne non era un fesso, è bene conservarlo in fretta, quello scatto, per gustarsi una novella trasversale su ciò che è e ciò che avrebbe potuto essere. Quella foto a Palermo, non una città a caso, la città che accoglie per vocazione in un Paese che respinge per decreto. Accogliere non significa solo aprire un porto o firmare una petizione, bensì aprirsi al confronto: che sia drag queen, ministro o carabiniere poco conta, ciò che importa e che si dovrebbe insegnare in tutte le scuole (compresa la famosa, affollatissima, università del web) è lasciarsi raccontare una storia nel senso più classico. A seconda delle nostre predilezioni, il carabiniere e la drag queen possono rappresentare un esempio di quanto sia potente la calamita della curiosità, oppure essere lo spauracchio per spacciatori di falsità a tutti i livelli. Ciò che è strano, stupefacente, esiste in natura ben prima di Facebook, ergo un’immagine vera e insolita può essere il miglior modo di combattere le realtà drogate. E per dire che nella nostra città accadono cose complesse e semplici al tempo stesso, e non c’è da stupirsi di questa mistura logica in salsa agrodolce perché complessità e semplicità sono categorie soggettive della nostra visione sociale. L’una non esclude l’altra. Come altre categorie meno soggettive: la munnizza e la cultura, il traffico e la libertà di manifestare, lo straniero e il nativo.

Sarà una favola o forse no, di certo c’è una morale. Per dipingere un nuovo mondo non basta requisire tutti i pennelli e pasticciare qualcosa sulla tavolozza davanti alla folla plaudente. Servono piuttosto una sana allergia alla noia e la felicità intellettuale di chi sa che l’unica uguaglianza alberga nelle diversità. Tutte.

Prima i migliori

L’articolo di oggi su Repubblica.

C’è una cosa che tendiamo a sottovalutare quando, risvegliatici dalla nostra ordinaria disattenzione, scopriamo che l’Università di Palermo ha accolto il primo immigrato ancora non regolare tra i suoi studenti, consentendogli di iscriversi al corso di Scienze umanistiche. Ed è la stessa cosa che dovrebbe indurci a guardare il mondo senza pregiudizi: quel ragazzo del Camerun, arrivato con un barcone, parla l’italiano meglio di molti di noi e avrà la possibilità di diventare migliore di noi. Perché la classifica della buona volontà non si stila con una legge. Il “prima gli italiani” è declinabile in mille aberranti maniere: prima i fuoricorso italiani, prima i fannulloni italiani, prima i depressi italiani e via primeggiando. Questa cosa che sottovalutiamo e che ci renderebbe impermeabili a certi assolutismi del “pensiero social”, tipo quelli che mettono in concorrenza la munnizza con il trionfo di un evento culturale o, nello specifico, i disagi amministrativi di un ateneo con una sua iniziativa coraggiosa e lungimirante ha un nome semplice. Si chiama sensibilità.    

Il maratoneta solidale

L’articolo pubblicato oggi su Repubblica Palermo.

L’uomo che fa correre le maratone ai disabili è un alieno. E non perché ci vogliono forza e resistenza pazzesche per spingere qualcuno in carrozzella per decine di chilometri, ma perché solo un extraterrestre della solidarietà poteva inventarsi un altruismo così concreto e divertente nel Paese dei porti chiusi e delle bocche aperte.

L’esempio di Vito Massimo Catania, da Regalbuto, è di un fulgore imbarazzante per noi italiani rimbambiti dall’opacità di un sentire comune che ha paura delle differenze. Lui, il runner solidale premiato da quell’altro alieno del presidente Mattarella, si è stufato di vincere gare da solo poiché ha capito che la condivisione è ben altro che un tasto di Facebook. E allora corre, corre per regalare passi a chi non li ha. Taglia traguardi per donare soddisfazioni a chi a un certo punto si è trovato a corto di speranze. Ebbene sì, Vito Massimo Catania, l’uomo che spinge in silenzio le carrozzelle al limite dell’umanamente possibile, è il perfetto contraltare di una nazione governata da panzoni bulimici ed egoisti.   

Il miracolo del clochard ammazzato

L’articolo pubblicato oggi su Repubblica.


C’era una volta un clochard francese che stava a Palermo sotto i portici di Piazzale Ungheria. Si chiamava Aid Abdellah ma per tutti era Aldo, un uomo gentile, un artista che viveva in simbiosi col suo gatto Helios. Non era un disperato, era uno che aveva fatto una scelta di felice determinazione, quindi era esattamente l’opposto di un disperato. Parlava tre lingue ed era colto. Quando s’imbatteva in ragazzini storti, e capitava vivendo per strada, li ammoniva ma sempre col sorriso: “Andate a scuola”. Aldo aveva un solo difetto: era un uomo buono.

Una notte un paio di quei ragazzini storti cercarono di rubargli dei soldi, lui si oppose e loro lo uccisero con una spranga di ferro portando via il bottino: 25 euro.

Con la sua morte si compì un miracolo di cui si parlerà per lungo tempo, se è vero che gli saranno intitolati i portici che erano la sua casa. Il miracolo di una comunità di palermitani che quando Aldo era ancora in vita, quindi fuori dalla comoda scia dell’emozione post mortem, si occupavano di lui con la discrezione che lui stesso esigeva senza chiederla. Vero altruismo fatto di parole – ma non altruismo a parole –, del caffè che la mattina una barista gli portava, della chiacchiera disinteressata, del sorriso sincero tra amici che non si sono mai detti amici per non inciampare nel formalismo di un rapporto codificato. La Palermo che si muoveva silenziosamente attorno ad Aldo, e a quelli come lui, è una città nella città: gente intellettualmente operosa e non importa se con la laurea o con la licenza elementare; artigiani del buon fare; nemici della lamentela che nasconde l’inerzia. La città della tolleranza silenziosa che non ostenta, non urla nemmeno davanti alla morte perché sa che è facile amare qualcuno quando quello è due metri sottoterra.

Questa comunità venne alla luce quando Aldo non ci fu più. E fu un miracolo nelle lande dell’ira on demand e della desertificazione di buone azioni selfie-free. L’emergere dalle viscere di un sentimento antico come il rispetto, di un manipolo di sopravvissuti al cattivismo imperante che, come zombie felici e discreti, si ripresero qualche metro di marciapiede e lo illuminarono di vero altruismo. Questo per Aid Abdellah che per tutti era Aldo e che non era un disperato.

Niente, grazie

L’extended version dell’articolo pubblicato su Repubblica.

C’è sempre un mistero insondabile nel cuore di un clochard, nell’ultimo degli ultimi che sopravvive di carità quindi di una solidificazione dell’amore. Riguarda un inizio o una fine, uno spettro o un traguardo, una fuga o un riparo. Le storie di chi ha scelto di vivere senza storia sono la crosta più insondabile del pianeta della mente dove ricchezza e povertà hanno lo stesso valore, amore e odio si annullano a vicenda, fiducia e incredulità evaporano nel calore artificiale dell’alcol o chissà quale altro additivo. E invece, nonostante noi e i nostri filtri di benessere a portata di mano inguantata, c’è un livello di libertà tra il tutto e il nulla, lo Yin e Yang del sistema di relazione convenzionale, che rende possibile e affascinante ciò che altrimenti potrebbe essere catalogato come follia.

Il mistero di Aldo, il barbone ucciso sotto i portici di piazzale Ungheria a Palermo, si è disvelato subito dopo la sua morte quando una piccola processione di cittadini non griffati socialmente ha lasciato trasparire l’affetto per quell’uomo che passava le notti in un giaciglio di cartone. La barista che ogni giorno gli portava la colazione, l’artista che gli chiedeva cosa gli servisse per poi sentirsi rispondere “niente grazie”, il negoziante che ogni mattina scambiava quattro chiacchiere con lui.

In un miracoloso do ut des di dignità, Aldo e le persone che gli elargivano attenzioni erano attenti ciascuno a non invadere la coscienza dell’altro. Solo chi non conosce la landa del disagio interiore, chi non è mai incappato nel buio della mente, chi non ha mai ascoltato le domande mute di chi invoca rispetto per una scelta anche folle, può derubricare tutto in emergenza abitativa o assistenziale. Non c’è nulla di più difficile che aiutare chi non chiede l’aiuto che merita, non c’è nulla di più meraviglioso che dare una mano senza che la mano si veda (a patto di non simulare).

Il mistero di Aldo si è disvelato tranciando i cavi del perbenismo più becero, quello che elemosina ma non nutre, e configurando una forma altissima di rispetto, quella per la scelta in sé qualunque essa sia. Sapete una cosa? La gente è migliore di quanto possiamo pensare. Il male della menzogna, il rifiuto inorganico del pensiero (quello più inquinante), la violenza dell’ignoranza hanno un impatto fortissimo sul tono emotivo dell’opinione pubblica. Perché un popolo preoccupato, soprattutto se artificialmente, è più sensibile a rassicurazioni basic che non necessitano di troppi argomenti.

La carovana di umanità garbata al capezzale di cartone del clochard ammazzato (pare da due balordi minorenni) ci rivela oggi che si può marciare silenziosamente in ordine sparso per un ideale di carità discreta. Nell’Italia del “prima gli italiani” c’è un manipolo di anarchici che guardano l’altro, il più debole, senza ostentare sui social, che non si trincerano dietro un’elemosina di cittadinanza ma chiedono semplicemente “che ti serve?”. E come epitaffio la risposta: niente, grazie.