La privacy del moscerino

Perché gli scienziati stanno anni a violare la privacy di un moscerino? Perché allevano topi? Perché studiano una particolare tartaruga? Perché per ricerche che vanno dallo scorpione africano a una nuova navicella spaziale spendiamo un botto di soldi? Perché ci sono laureati pagati per scrutare il cielo di notte?
C’è una risposta breve che riguarda il nostro nuovo modo di comunicare: perché la scienza è il contrario di un social network in quanto guarda lontano, non è interessata alla compulsività e cerca dove nessuno ha trovato. Quindi in un mondo stratosfericamente diverso da una qualsiasi timeline.

La risposta più lunga invece riguarda la lungimiranza e la caparbietà. La dottoressa Katalin Karikò e il dottor Drew Wiessman iniziarono le loro ricerche sull’Rna messaggero una ventina di anni fa, quando il Covid non esisteva neanche nei nostri incubi peggiori. Nel 2023 hanno ricevuto il premio Nobel per una scoperta che fecero nel 2005. La loro ricerca, come quella di moltissimi altri scienziati, non si occupava di cose pratiche (brevetti, applicazioni immediate) ma di conoscenza e di comprensione dei fenomeni naturali. Funziona così nella scienza, lo sa chi ha studiato come sono stati scoperti i raggi X o gli antibiotici.
Guardare dove gli altri non hanno trovato.
Sopportare chi ti accusa di perdere tempo.
Schivare chi cerca la monetizzazione immediata.
Questo fanno gli scienziati e gli innovatori in generale, ma soprattutto gli scienziati, che stanno agli antipodi dei nuovi arroganti di cui parlavamo qualche settimana fa. Molto dobbiamo a questi discreti signori che spiano moscerini, allevano topi, seguono la vita di una tartaruga, tampinano lo scorpione africano perché hanno intravisto qualcosa. Sono persone che non solo hanno una testa (!!!), ma ce l’hanno che rimbomba di domande: come? Perché? E nel cercare una risposta costruiscono un mondo che può illudersi di essere migliore (dove chi studia sta al timone e chi non sa nulla prende ordini senza fiatare).

P.S.
L’ultima parentesi mi è scappata dalle mani, ma fate finta di niente…

Noi siamo Giorgia

Chi è passato per una frana sentimentale più o meno pubblica, chi ha assaggiato la polvere della maldicenza compiaciuta, chi non si è dovuto accontentare del naufragio amoroso ma ha dovuto sorbirsi pure la schiuma della sguaiatezza sa.
Sa quanto ha dovuto masticare acido Giorgia Meloni per le incaute scempiaggini del compagno. Sa che ci sono momenti in cui uno vorrebbe farsi disarcionare da ogni responsabilità e darsi all’oblio di un cielo terso e basta. E invece nuvole, nuvoloni bui.
Nessuno è esente dalla stoltezza e dall’imperizia, proprie e altrui. Per questo, concetti come normale e tradizionale per i sentimenti e i frutti di essi sono fallaci quando vengono branditi come bandiera o manifesto politico.
Perché normali e tradizionali sono anche il tradimento, l’odio, l’arroganza, l’ingratitudine.
Al di là delle indecorose ironie social, spero che finalmente oggi ci sia una Giorgia in più che, soffrendo per un brutto colpo alle spalle, possa sentirsi più donna, più mamma, più tollerante. E che possa ammettere con se stessa che la famiglia migliore è quella che regge alla prova dei fatti. Non conta il tipo di ingredienti (colore, sesso, religione), ma la loro qualità.
Per quel che so l’amore più resistente è fatto di rispetto tra i protagonisti e di tolleranza degli astanti.

La libertà non è una preda

Settore long form, al confine tra la regione dei cazzi miei e quella della mobilitazione civile. Ieri a Palermo c’era un appuntamento delle Famiglie Arcobaleno alle quali sono particolarmente affezionato per motivi che qui è inutile spiegare.
Per loro ho scritto un breve monologo – recitato da Gigi Borruso per le parole, e da Fabio Lannino per le note – liberamente ispirato all’opera “L’altro” che andrà in scena al Teatro Massimo di Palermo, il 22 giugno prossimo.
Per chi non c’era, e per chi c’era ma ama pensare di non esserci stato perché riassaporare è gustare due volte (ah, che meravigliosa debolezza!), ecco il testo.

Avete presente l’estintore del supermercato, incorniciato nella sua vetrinetta col megafono e la scritta: “Usare solo in caso di incendio”?
Ci avete mai pensato che in realtà vi sta dicendo: “Minchia, ho detto solo in caso di incendio!”
Ecco, il concetto è quello.
Il problema del “tempo di pace” è che funziona solo in funzione dei “tempi di guerra” in cui è incastonato, quindi si porta appresso una vagonata di incomprensioni.
Domande.
È giusto pensare al peggio quando si sta benissimo?
Esiste una zona franca delle intenzioni?
Chiunque si dia dato la pena di sopravvivere sa che il filo sul quale ci muoviamo, da acrobati improvvisati quali siamo, è solido.
Che il vero problema è la nostra capacità di rimanere in equilibrio. E l’equilibrio è solo un artifizio metaforico che non garantisce un bel nulla: esistono persone infide e disequilibrate che se la passano infinitamente meglio di esemplari umani corretti e ottimamente bilanciati. Questo è il labilissimo confine tra ingiustizia e figata, tra religione ed epopea della bestemmia.
Quando ci sono problemi che non ci interessano, nel senso che manco lambiscono il nostro orticello, generalmente ci rifacciamo a una parte intermedia del nostro corpo, che non è né capo né piedi, né arto né vessillo: le spalle.
Alziamo le spalle.
Voltiamo le spalle.
E ci trinceriamo dietro alle cinque parole più pericolose del nostro universo.

Non
Può
Succedere
A
Me

Credere nel “non può succedere a me” è come comprare le azioni di una società di cui non si conosce il prodotto, come salire su una macchina del tempo che ha le marce bloccate.
In realtà le cose accadono a tutti, nessuno escluso, e quelli che si ritengono in salvo, o sono incauti e lo sanno, o sono defunti e non lo sanno.
Se io non ho figli e non ho intenzione di averne, se sono eterosessuale e strafottente, se sono omosessuale ed egoista, se sono bianco o nero, alto o basso, vero o falso, se mi piaccio come normale in un mondo anormale o come anormale in un mondo normale, posso misurare tutti i passi incauti che mi separano dal mio pregiudizio, posso alzare o voltare le spalle e gridare:

Non
Può
Succedere
A
Me

Ma una cosa sola non posso fare: usare la libertà come una preda.  
I custodi della tradizione con la T maiuscola, i detentori del libretto di istruzioni della vita con la V maiuscola hanno un problema col tempo.
Il tempo non passa invano. E rendersene conto è già un bel regalo che possiamo farci.
Loro, quelli del libretto delle istruzioni, del manuale Cencelli applicato al sentimento non sanno che comunque sia, qualcosa ci ha lasciato detto, il tempo.
Non sanno che non è vero che si stava meglio quando si stava peggio: quando si sta peggio ci vuole poco a sentirsi meglio e non c’è vergogna a spogliarsi delle solite, trite, visioni nostalgiche.
La nostalgia è il vizio dei pigri: i pigri usano il passato per riverniciare gli ostacoli che non sono riusciti a superare e spacciarli per buone intenzioni.
Ci hanno fatto credere che servono nemici per mostrarsi uniti: che sia famiglia, religione, coalizione politica.
Qui a Palermo abbiamo una grande fortuna che sta proprio nelle nostre contraddizioni. Viviamo in una città in cui accadono cose complesse e semplici al tempo stesso, e non c’è da stupirsi di questa mistura logica in salsa agrodolce perché complessità e semplicità sono categorie soggettive della nostra visione sociale. L’una non esclude l’altra. Come altre categorie meno soggettive: la munnizza e la cultura, il traffico e la libertà di manifestare, lo straniero e il nativo. Siamo terreno fertile per far germogliare la preziosa pianta delle differenze.
Bambini e amore. Servono anime nuove e sentimenti antichi.
Per dipingere un nuovo mondo non basta requisire tutti i pennelli e pasticciare qualcosa sulla tavolozza davanti alla folla plaudente, sui balconi del potere. Servono piuttosto una sana allergia alla noia e la felicità intellettuale di chi sa che l’unica uguaglianza alberga nelle diversità. In tutte le diversità.
C’è un’espressione molto in voga in questo presente storto dove, ironia della sorte, ci riempiamo la bocca di parole inutili come “intelligenza artificiale” (una cosa che non è né intelligenzaartificiale).

L’espressione è “Veri Genitori”, degna scempiaggine di chi confonde la biologia con gli affetti, la scienza con il sentimento.
Non c’è peggior forma di controllo (governativo e non) di quella costruita sulle bugie.
I bambini sanno benissimo che i “Veri Genitori” sono una scemenza di alcuni adulti che vogliono mettere le mutande alla loro felicità, senza sapere che la felicità è nuda, che la felicità non tollera finzioni e travestimenti.
Esistono solo bambini che crescono nell’amore e bambini meno fortunati: il resto è grottesca ipocrisia.
Ecco perché alzare le spalle e fottersene dinanzi a un diritto negato agli altri e non a noi, dinanzi a un’ingiustizia che non sporca il nostro tinello è un peccato grave (in religione per chi ci crede, o in cuor nostro, per chi un cuore ce l’ha).
Se non siamo in grado di amare, perché purtroppo la borsa dei sentimenti non ha sempre i cordoni allentati, si può sempre provare a godere di riflesso dell’amore degli altri per gli altri. Vietarlo per decreto è una forma di violenza strisciante che non riscatta nessuno, ma fa solo ostaggi innocenti.
Vi siete mai chiesti da dove deriva la prosperità?
Io un’idea ce l’ho: la prosperità deriva dall’uguaglianza e dall’istruzione. Dalla libertà di guardarci allo specchio che ci spia dall’anta dell’armadio, di leggere i libri che non abbiamo scritto, di ascoltare frasi che non abbiamo pronunciato, di visitare luoghi che non abbiamo conosciuto e di esplorare emozioni che abbiamo fatto finta di conoscere, di guardare l’altro che fa cose che tu non sai fare, che dà baci che tu non hai dato, che accoglie chi hai lasciato fuori.

La libertà non è una preda.

Fatti miei, fatti vostri (e grazie)

Contrariamente a quanto fatto in passato, quest’anno ho deciso di elencare gli articoli più letti di questo blog. E l’ho fatto perché dicono molto di me e soprattutto di voi. Come potete vedere, tra i temi che vi hanno interessato molti appartengono al settore “cazzi miei” e ciò non può che consolarmi: se la narrazione prende il sopravvento sulla cronaca vuol dire che la sete di suggestioni, di fantasia è forte, e che i cervelli vanno a buon regime.
Per questo nei miei sogni vorrei ringraziare uno per uno le migliaia di lettori che, da sedici anni, mi seguono con curiosità e alcuni – addirittura – con affetto. Ovviamente ciò è impossibile, ma l’ho detto e non per caso: chissà che un giorno non si possa organizzare qualcosa…

Comunque ecco la classifica e siccome i miei titoli non sempre sono esplicativi metto anche un brevissimo riassunto per rinfrescare la memoria di chi ha già letto e titillare quella di chi magari quel post se lo è perso. Del resto qui è tutto gratis e un clic in più non vi costa nulla.

1 Colleghi e guardati su una lettera ritrovata e su quello che accadde in un importante giornale siciliano.

2 La politica, l’informazione e la merda sulla violenza verbale di un politico rozzo e sguaiato, ergo premiato dell’elettorato.

3 Siamo merde su una donna che un giorno si denuda al balcone e butta giù pezzi della sua vita.

4 Poi sono successe due cose su un toccante incrocio di destini durante il cammino sulla Via Francigena.

5 Per via di due culi su una storia che inizia duemila anni fa e arriva ai giorni nostri (podcast).

6 La magistrata Cuffaro sulla forza e la determinazione di chi non conosce la parola “arrendersi”.

7 Materia Prima sulla storia dimenticata (ma stracitata a casaccio) di Libero Grassi (podcast).

8 Sedici su quando arriva il momento in cui devi cambiare tutto anche a rischio di perdere tutto.

9 Katia (e non è una donna) sul file di un romanzo nato per rimanere nascosto in un file.

10 Il tempo e il lusso dei sogni su “Cenere” l’opera inchiesta scritta per il Teatro Massimo di Palermo e sulla fatica di raccontare oggi.

La magistrata Cuffaro

C’è una ragazza che ha studiato, che ha fatto un mestiere difficile: superare esami, concorsi, vincere dottorati senza santi in Paradiso. E anzi nel suo personale Paradiso era più facile che le tagliasse la strada qualche demonio. Ha nuotato controcorrente e lo ha fatto come è giusto in silenzio, risparmiando il fiato. Neanche quando l’hanno fischiata a mezzo social lei si è distratta. Aveva qualcosa di infinitamente più importante da fare: studiare, macinare prove, risparmiare il fiato. La sua è stata una corsa a ostacoli poiché la vita è semplice per chi si dà per vinto e complicatissima per chi si dà sempre nuovi obiettivi.

Questa ragazza oggi ha un mestiere per il quale ha lottato più dei suoi coetanei. Il suo handicap era il più complicato da superare dato che aveva a che fare con gli affetti più intimi e col conflitto che questi, ogni tanto, possono generare con la ragione, col sentire comune, con gli  umanissimi momenti di sconforto. Solo chi ha provato le asperità della vita, quelle vere, sa che ci sono ultimi anche tra i primi, che ci può essere povertà anche nella ricchezza e solitudine nella folla. Siamo tutti molto bravi a distribuire patenti, un po’ meno a meritarle.
Oggi questa ragazza è magistrato.
Che sia la figlia di Totò Cuffaro, di un uomo che ha sbagliato gravemente, non la rende una professionista migliore. Ma rende migliore un contesto in cui caparbietà, impegno e spirito di sacrificio ogni tanto contano.

Fiabe da narrar

Non me lo aspettavo, ma ho ricevuto molti messaggi per il podcast su Libero Grassi, un podcast nato incidentalmente per via di una congerie di incolpevoli mediocrità (era un testo che doveva essere altro e che per fortuna altro non è stato). Mi ha sorpreso la dovizia di particolari con cui le persone mi hanno scritto personalmente, argomentando la loro sfiducia nel presente, appigliandosi al dono della memoria, ripromettendosi di fare qualcosa per il futuro.
E ringrazio tutti: lo sto facendo personalmente e privatamente perché credo che sia dovere di chi scrive, scrivere anche senza il dovere di farlo.  

Il punto è un altro.

C’è una fame forte e crescente di storie. Che è una fame letteraria, artistica e sociale. Ogni volta che mi capita di raccontare in pubblico vengo travolto da questa esigenza (quando lo faccio qui è normale avere feedback ma spesso è solo illusione, c’è gente che mette like senza manco leggere due righe): e capisco che non è una cosa che riguarda nello specifico me come narratore, ma è una necessità generalizzata.
Quando il mondo si complica, la narrazione soccorre. E non è semplificazione, ma rassicurazione.

I migliori momenti della mia vita sono stati quelli in cui qualcuno mi prendeva da parte e attaccava: “C’era una volta…”. Perché il “c’era una volta” è la scialuppa del naufrago nel mare dell’insonnia, l’abbraccio dell’orfano degli affetti più immediati, la consolazione dell’esausto, il riscatto dell’umiliato, ma anche la gioia del primo della classe, la celebrazione del vincitore, l’occhio lungo del creativo.
Non c’è mai un momento sbagliato per raccontare una storia, figuriamoci ascoltarla.

Le persone peggiori che ho incontrato – e che incontro – vivono solo della loro narrazione, concentrate sulla bidimensionalità di una vita che sembra appassionante ma che invece è un film scialbo di una pellicola vecchia e noiosa.
Le persone migliori invece stanno lì tra la loro strada e quella di chiunque la incroci per raccogliere testimonianze, per incuriosirsi, per raggranellare il tempo che serve a inseguire la migliore storia della loro vita: quella che ancora non hanno ascoltato.

Le “fiabe da narrar” sono un modo di dare fiducia e al contempo di riscuoterla.

Schegge di verità

Un estratto dall’articolo di Helmut Failoni “Falcone & Borsellino: il teatro della verità”, pubblicato su “la Lettura” del Corriere della sera.

La violenza è la morte dell’anima e l’arte richiede esattamente il contrario. Lo spiega a «la Lettura» il compositore — e da poco anche sovrintendente del Teatro Massimo di Palermo — Marco Betta (1964). Lo dice introducendo un concetto che è certamente generale, ma nel caso specifico, riferito a Cenere di Gery Palazzotto, uno spettacolo — «no, anzi un’opera-inchiesta», sottolinea — che proprio di violenza parla. Andrà in scena al Teatro Massimo di Palermo (che ha dedicato la stagione 2022 al trentennale delle stragi di mafia) il 13 e il 14 maggio. È la storia delle stragi di Capaci e di via D’Amelio, in cui morirono i magistrati Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Francesca Morvillo e gli agenti delle scorte Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Rocco Dicillo, Vincenzo Li Muli, Emanuela Loi, Antonio Montinaro, Vito Schifani e Claudio Traina.
«Cenere — spiega a “la Lettura” Palazzotto — chiude la trilogia prodotta dal Massimo sui misteri di quegli eccidi, che ho iniziato nel 2017 (con Salvo Palazzolo, nda) con Le parole rubate e portato poi avanti nel 2019 con I traditori». Qui, oltre al testo, «c’è la musica, scritta ed eseguita da tre compositori con un violoncellista. Ci sono due danzatori, elaborazioni grafiche, artwork, video».
Palazzotto definisce questo lavoro, appunto, un’«opera-inchiesta». Ma è più opera o più inchiesta? Non esita neanche un secondo: «Più opera. Le prime due puntate erano maggiormente legate all’idea di inchiesta. Avevo fatto davvero un’indagine sul palcoscenico: siamo entrati dentro i file del computer violato di Falcone. Abbiamo ricostruito una danza macabra di mani attorno alla borsa di Borsellino, mentre questa viene presa e rimessa nella macchina che sta bruciando…». Cenere è l’atto finale, «una sorta di nemesi. Sono passati trent’anni e la Cenere è quel che resta».
Due i protagonisti in un faccia a faccia, «per il quale uso però un solo attore (Gigi Borruso, ndr), che rappresenta due verità diverse. Il primo protagonista è un uomo che si fa delle domande e che si dà delle risposte, avendo fiducia nella giustizia, leggendo, documentandosi, guardando ai fatti. L’altro, che è la novità, è l’alter ego negativo, il siciliano convinto che la mafia dia lavoro. Non intendo i due protagonisti come il bene e il male a tutti i costi, ma come portatori di due visioni opposte. In questo senso Cenere è la celebrazione della verità del dubbio.
(…)
«Con il mio testo vorrei riuscire a portare le persone, il pubblico, a ragionare e a provare lo stesso imbarazzo che ho provato io, da giornalista, sulle carte di questi processi. Che cosa bisogna pensare dopo aver scoperto che l’indagine che hai seguito per 16 anni è stata depistata e governata da due collaboratori di giustizia e che ci sono stati dieci processi, d-i-e-c-i, Borsellino 1, Borsellino 2, Borsellino 3, tutti viziati da falsità? I giudici di Caltanissetta lo hanno definito “il più grande depistaggio della storia giudiziaria italiana”. Nello spettacolo io non devo dimostrare che Vincenzo Scarantino, falso pentito, è un farabutto perché lo sanno tutti già, ma io devo portare lo spettatore a rendersi conto che la verità di Scarantino è stata la verità per 16 anni».
(…)
Per Cenere, con Betta, che è di «estrazione classica», hanno lavorato Fabio Lannino, «bassista e chitarrista che si muove in universi sonori incrociati» e Diego Spitaleri, «jazzista e compositore». La cosa più bella — prosegue Betta — è stata «il nostro lavorare insieme, ascoltandoci l’un l’altro. Un segno contro ogni individualismo. La scrittura dei brani, passando da un genere all’altro, è avvenuta in maniera assolutamente naturale e poi ognuno di noi ha migliorato il lavoro dell’altro…». In scena — rivela e conclude Palazzotto — «i due danzatori (Alessandro Cascioli e Yuriko Nishihara, nda) rappresenteranno le schegge dell’esplosione».

Cenere – Teatro Massimo – Sala grande 13 e 14 maggio 2022
di Gery Palazzotto

con Gigi Borruso
musiche di Marco Betta, Fabio Lannino, Diego Spitaleri
al violoncello Antonino Saladino
coreografie ideate ed eseguite da Alessandro Cascioli e Yuriko Nishihara
artworks di Francesco De Grandi
elaborazioni grafiche di Azzurra Messina
videomaking di Antonio Di Giovanni e Davide Vallone

Figli di un dio esploratore

https://twitter.com/HistoryHit/status/1501463185903206407?s=20&t=bLlB-7Lpy28lo1Z9zXiUYw

Dovreste sapere con quanta maniacale ammirazione seguo tutto ciò che riguarda il capitano Ernest Henry Shackleton (leggete qui se avete qualche minuto da dedicare all’ebbrezza dell’avventura narrata). Ebbene qualche giorno fa è stato annunciato il ritrovamento del relitto del suo Endurance, una delle navi più importanti della storia delle esplorazioni, a tremila metri di profondità nel Mare di Weddell, più di un secolo dopo il suo naufragio tra i ghiacci.
Ecco, sopra, le immagini registrate dal drone subacqueo: la nave è ben conservata per motivi scientifici che mi interessano poco. Io so che è stata preservata dal dio dell’umano ardimento che premia il coraggio, la curiosità, l’altruismo e l’abnegazione. Quel dio che oggi mi manca maledettamente e nel quale ripongo la poca fede che mi ritrovo. Perché se un dio esiste, è con gli intrepidi, con gli esploratori, con i sognatori che riconoscono la preziosità del sogno.

C’è chi dice no

L’articolo pubblicato su Repubblica Palermo.

Nell’aprile del 1991, quattro mesi prima di essere ammazzato da Cosa Nostra, Libero Grassi spiegò meglio di tanti Soloni dell’Antimafia che la lotta alla criminalità partiva dalle competizioni elettorali. “Ciò che davvero conta è la qualità del consenso, la formazione del consenso”, disse. “A una cattiva raccolta di voti corrisponde una cattiva democrazia”. Ne avevo parlato già qui.

L’universalità di quel concetto, solida come la moralità di chi lo espresse, e non è mai stata messa in dubbio dallo scorrere del tempo, dal cambiamento degli scenari politici, sociali, criminali. L’ultimo allarme sulle estorsioni a Palermo e in Sicilia proprio in coincidenza con le elezioni prossime venture è un’occasione utile per riannodare il filo di un ragionamento che ormai sembra interessare solo i sopravvissuti della cosiddetta società civile e gli addetti ai lavori (ivi compresi i mafiosi). Il commerciante che si rivolge al boss non perché ha subito una minaccia, ma perché vuole farsi aiutare a sbrigare una “pratica” è il paradigma di un sistema storto. Un sistema in cui la mafia è sempre ceto dominante e in quanto tale dispone di soldi, di mezzi, di inserimenti nell’amministrazione. E di voti. La politica, che il consenso lo coltiva per poi nutrirsene, ha in ogni tornata elettorale la preziosa occasione di scardinare questo sistema. Non servono sindaci sceriffi, ne convegnisti compulsivi. Servono buoni esempi di ordinaria amministrazione, servono squadre blindate sui programmi, serve soprattutto una nuova cultura di muri. Proprio così, muri: contro il qualunquismo, contro il negazionismo, contro le scorciatoie sociali.
Un consenso di qualità è fatto anche di no.    

Viva la Rai

In questi due giorni di televisione pubblica ci sono due eventi di grande importanza. Il Festival di Sanremo e l’intervista di Papa Francesco a Che tempo che fa. Mi dicono che Amadeus se la sta giocando alla grande (forse stasera darò finalmente un’occhiata), ma da quel che ho letto grazie a fonti qualificate il suo spettacolo è stato ben congegnato, ben strutturato e ben condotto. Domani Fabio Fazio – uno che ha intervistato Obama, Macron, Morricone e via celebrando, solo per dire quelli più recenti – dialogherà col Papa in diretta. E c’è da sciacquarsi la bocca prima di alzare un ditino: Fazio non è Vespa, e la sua Italia non è un plastico di Porta a Porta. Questi due eventi da soli – aggiunti a una rinnovata attendibilità del Tg1 grazie alla direttrice Maggioni, ma questa è una pulsione professionale – finalmente contribuiscono a mettere in nuova luce la Rai. Sono sempre stato molto critico nei confronti della televisione pubblica, qui e altrove, però adesso mi pare che ci siano risultati dinanzi ai quali bisogna fermarsi e fare quel che nei teatri, da secoli, si fa per approvare una rivoluzione o per celebrare un tentativo fallito di restaurazione, per omaggiare gli artisti talentuosi, per scacciare l’idea imbarazzante che la cultura è solo quella che non si capisce un cazzo, o che parla una lingua per pochi correi.
Applaudire.
E basta.