Si chiamerà Natale

Torta in faccia

di Roberto Torta

Appunti di Natale e scusate il ritardo (per riprendermi c’è voluto tempo).


Si chiama Domenico Torta. Ha 79 anni, occhi piccoli e appuntiti, baffi neri, capelli lunghi e codino. E’ mio padre, ma non gli assomiglio per niente. Prendete una tunica nera, mettetegliela e avrete un inquisitore, di quelli che mandavano le streghe al rogo.
Come ogni Natale sono qui a casa sua, seduto davanti a lui, per il solito pranzo a cui non rinuncerei per niente al mondo perché ogni anno, da quando ne ho compiuti 15, aggiunge una riga al suo testamento. Il mio è vero affetto. Finita la parte dove mi ha lasciato la casa, siamo arrivati alla riga dove sta indicando me – e solo me – unico figlio devoto, erede della villetta di Pantelleria. L’anno scorso la riga si è interrotta a “Pant… “.
Io non potrei fare più a meno di questa festa – specchio, in cui guardo gli altri e mi guardo. Guardo soprattutto la badante rumena di mio padre, 30 anni, che ha il sedere più maestoso d’Europa,  isole comprese. Si chiama Julia. L’ho già castigata: l’anno scorso, sempre a Natale. Ora è incinta, e il fatto che porti in grembo un figlio non mio è la dimostrazione che Dio esiste e merita tutto il mio rispetto.
Siamo seduti a tavola. C’è anche quella simpaticona della mia ex moglie che ha fatto qualcosa al labbro superiore. Non ha più le sue micro rughe, testimonianza imperitura della sua maestria nel chiudere e aprire la bocca: e non solo per parlare.
Regali. A me arrivano quelli più brutti. Mentre io li faccio sempre “pensati”. Dalla mia segretaria – che mi conosce benissimo – alla quale do mille euro, una lista di nomi che si riduce sempre di più. E lei compra. Cose tipo questo massaggiatore da piedi per mio padre, che per un pelo non vomita solo guardandolo, e una trousse per la mia ex consorte che mi sta dando un pacchettino. Lo apro e che meraviglia! Un pezzo di sapone alla cannella. La bacio sulla guancia e lei mi sussurra “stronzo”. Poi do il regalo a mia figlia, una sciarpa viola. Non la scarta neanche e manda sms. Ma lei è mia figlia e so che mi vuole bene.
Ci siamo. Abbiamo mangiato il pandoro e mio padre estrae il testamento.  “La villetta di Pantelleria  la lascio a Julia e a suo figlio che poi è mio figlio. Nascerà tra 4 mesi. Se dovessi morire prima, per favore, non chiamatelo Roberto”.
Infatti si chiamerà Natale.

Al cuore, Ramon

L’attimino fuggente

di Giacomo Cacciatore

Apprendo che la pagina di “Facebook” a lui dedicata conta 21.534 membri. Molti sono giovanissimi. Un giornalista gli ha dedicato uno spettacolo viaggiante. Un economista l’ha citato di recente durante un forum internazionale, usando un’ancor vivida immagine della fantasia per riassumere la situazione finanziaria attuale. Registi di tutto il mondo l’hanno studiato. La UCLA l’ha preso per anni come punto di riferimento per una lezione di montaggio cinematografico.  La moglie, a fronte di tanto e tale amore incondizionato e senza confini e dell’indifferenza prevedibile delle reti televisive nazionali (commerciali e non), si è così espressa sul Corriere online: “Vedo che nessuno fa niente per ricordare Sergio. Secondo me molto dipende dal fatto che Sergio non era un uomo di sinistra e la sinistra non lo ha mai perdonato per questo. Gli davano dell’uomo di destra, quasi del fascista. E dire che il padre di Sergio, Vincenzo, anche lui regista, dovette lasciare l’Italia proprio perché accusato di essere un antifascista. Ma in fondo me ne importa poco. L’essenziale per me è aver creduto subito nell’estrosità, la fantasia, la genialità di un grande uomo che ha segnato un importante capitolo nella storia del cinema. Il resto, soprattutto la tv… non cambia niente”.
E’ Sergio Muniz? E’ un Sergio qualunque degli “amici” di Maria De Filippi? E’ Malgioglio sotto mentite spoglie? No.
Era ed è Sergio Leone. Regista.
Leggo che c’è pure un Facebook dedicato a Totò Riina. Conta membri (il termine in questo caso è riferibile all’organo sessuale maschile) che gli dedicano pensieri d’ammirazione.
In occasione delle festività, Canale 5  ha rimandato in onda, in prima serata, “Il capo dei capi”, frittata ispirata alle sue gesta, orgogliosamente replicata sul canale satellitare Premium. Un’eiezione filmica che non vale mezzo fotogramma bruciato dell’opera di Sergio Leone.
Al cuore, Ramon. Al cuore.

Doppio Natal

L’attimino fuggente

di Giacomo Cacciatore

Credo che esistano ancora due tipi di Natale italiano. Uno antropomorfo,  l’altro legato al meraviglioso mondo della flora. Nel primo caso si torna bambini: si gioca e si pasticcia col minuscolo, si ricreano universi in scala, mondi che vorremmo, profumo di mangiatoie, calore di fiamme nella notte di gelo. Nel secondo, si agisce sotto l’impulso di qualche antico culto totemico, forse ereditato da fantasmi con gli elmi cornuti e i piedi freddi, forse dagli indiani dei film di John Wayne. Insomma, sto parlando di chi, a Natale, perde la testa con il presepe e di chi invece si impelaga in studi di fisica ed estetica per arrangiare l’albero. Posso sbagliarmi ma, senza avventurarmi nelle solite classificazioni da sociologi d’accatto (il pandoro è di sinistra, il panettone di destra)  ho sempre avuto la sensazione che il presepio fosse cosa di vicolo, di case popolari, e l’albero appannaggio dei quartieri alti. Tralascio le novità del tipo “babbo natale che si arrampica sul balcone”: ho idea che li abbiano inventati per chi passa le feste agli arresti domiciliari.
Io un tempo ero “presepista”. Nel senso che appartenevo a quella categoria di bipedi che il giorno dopo l’otto di dicembre, ancora caldi di letto, in pigiama, con occhi bambini e gesti da vecchi, scivolano verso l’angolo del salotto o il ripiano del soggiorno per controllare il pasticcio di pastorelli, sugheri, laghetti di specchio circondati da muschio che hanno combinato la sera prima. Una mesta categoria di ossessivi e idealisti, nobilitata dal genio di Eduardo De Filippo. Il presepio, in quanto via di mezzo tra il bricolage e il rito apotropaico, a mio modo di vedere rispecchia – molto più dell’albero – non solo la classe sociale e la condizione economica di chi lo ha azzizzato, (per numero di pastori, qualità delle lampadine e imponenza delle montagne di sughero) ma anche il suo stato d’animo, il livello di serenità propria e di chi lo circonda, il grado di stabilità familiare.
Il mio presepio è sempre stato precario, sproporzionato, incurante della verosimiglianza prospettica: più simile a un’allucinazione espressionista che all’armonia oleografica della prima puntata del
Gesù di Zeffirelli.  Pastori zoppi, un bue formato brontosauro, un San Giuseppe minuscolo rispetto a una Madonna-matrona. Nei volti di plastica o di creta della mia natività si leggeva un velo di inquietudine. Sapevano di essere destinati, prima o poi, al tracollo. Quando i miei genitori litigavano – e spesso succedeva proprio a Natale –  il primo a subirne le conseguenze era il presepe. Una gomitata, uno sbattere di porta, un urlo più forte degli altri, e il paesaggio di Betlemme diventava uno scenario da dopobomba. Morti e feriti. Con pazienza, mi improvvisavo responsabile della protezione civile di magi, ciabattini e pecorai con l’agnello a tracolla finiti a gambe all’aria.
Ero presepista, sì, ed ero più triste di oggi. Ho sposato una donna che appartiene, per tradizione e condizione, alla categoria degli alberisti. E’ lei che mi ha introdotto nel magico, ordinato mondo dell’abete (ecologico).  Mi ha salvato la vita, credo. Ma la tentazione di mettere su un presepe che regga agli urti, mi resta.

La superiorità del maschio

di Quarant’Ena

All’inizio furono Piccole donne. Io mi immedesimavo in quella malata che poi moriva. Però era amata.
Torturarmi mi è sempre sembrato un esercizio utile alla fortificazione spirituale.  Oggi ci sono le Casalinghe disperate e prima ancora Sex and the city, repliche comprese. Sono donne che, a volte, con dovizia di particolari raccontano le prestazioni sessuali degli uomini, e che mettono all’indice quelli poco dotati. E non solo di fantasia. Sfatano il tabù che le vuole sempre innamorate. Riconquistano una dignità orgasmica. Sono amiche per la pelle che anche quando hanno il cancro, si riducono senza capelli, il marito le cornifica con una più giovane e bella, sorridono. Si stringono la mano e dicono: “Io ce la farò perché tu sei con me”. E poi magari fanno un barbecue in giardino con posate che si intonano perfettamente al colore dell’erba bagnata di rugiada.  Perché in fondo la vera fortuna è trovarla un’amica che ti dica esattamente le cose che vuoi sentirti dire. Che ti guardi con ammirazione le cosce e, sfidando l’evidenza, ti rassicuri sul fatto che non hai un filo di cellulite e che quelle non sono smagliature ma illusioni ottiche. Che ascolti per mille volte il tuo silenzio sapendo che in quel momento non c’è niente di intelligente da dire.
Ora, nonostante la mia indole spiccatamente femminista, ho sempre pensato che gli uomini siano superiori. Riescono a indirizzare al loro cervello input precisi, raggiungono obiettivi che noi donne neanche ci sogniamo. Gli uomini intelligenti sono una categoria superiore. Vanno sulla luna, riescono a risolvere equazioni difficilissime, scrivono le mappe astronomiche.  Poi cucinano e lavano anche i piatti. Ma non c’è peggio di un uomo che prepara un manicaretto e ti dice: “Sono così bravo che potrei aprirmi un ristorante”. Ma come? Vuoi disperdere tutta questa maestria domestica in un locale popolato da sconosciuti? Fai di me la tua unica cliente, femmina ardente, palato esclusivo, carne da felice e privato macello…
Non è vero che gli uomini sono tutti uguali. Sono quasi tutti uguali. E’ diverso.  Degli uomini penso tutto il bene possibile. Mi chiedo: perché loro non fanno lo stesso con me?
Sarà che non so cucinare…

Lo specchio del barbiere

Storie minime

di Roberto Puglisi

Lo specchio del barbiere è il custode della nostra anima filosofica. Ti siedi e osservi quel tale, dall’altra parte del riflesso, mentre gli tagliano i capelli, mentre gli accorciano la barba, mentre gli cambiano il cuore. Che cosa è il cuore se non il riverbero della nostra immagine, la percezione emotiva di noi stessi, lo specchio d’acqua torbido o puro in cui guardiamo i sentimenti, pezzi di carne in bocca a un cane bavoso? Intorno a quella fetta di carne che ci pende dalle labbra, non sapendo mai cosa fare, se lasciarla cadere o addentarla, rimandiamo le scelte. Rimandando, le costruiamo intorno un castello di pensieri per renderla invisibile: è ghiotta la nostra filosofia.
Mi sono seduto ancora una volta, con supremo sprezzo del pericolo e del ridicolo, sullo scranno del barbiere. Quando ero bambino, c’era mio padre specchiato in lontananza su uno sgabello offerto al pubblico. Ogni tanto, mi sorprendo a cercarlo, nonostante l’evidenza. A dispetto dell’evidenza, mi sento abbandonato. Come se il mio volto di dodicenne appesantito fosse rimasto solo in un deserto crescente, in un nulla che tutto invade, spazzando via affetti e gioie. Non vedo più nemmeno il barbiere. Forse ha lasciato qui la sua mano forbicemunita, una finzione, il simulacro di un’eguaglianza dei giorni che non esiste. Di chi è la voce che parla del Palermo? E’ Dio? E’ un registratore nascosto, per meglio ingannare? Mi alzo confuso, gocciolante di dubbi e dopobarba. Non ho il coraggio di specchiarmi oltre. Al mio posto si siede Gianni che fu colpito dalla meningite quando era bambino e bambino è rimasto, a prescindere dal suo corpo. Gianni sorride. Recita una filastrocca a memoria. Io vorrei fare finta di leggere il giornale. Ma a un certo punto non ce la faccio più. Mi chino e gli poso un bacio sulla guancia.

L’immagine riproduce l’acrilico su tela “Cronaca” di Gianni Allegra, per gentile concessione dell’autore.

Noi siamo le colonne

Erano anni che non pensavo all’università. E’ un periodo della mia vita che ho in parte rimosso, forse in piena coscienza, se mai è possibile, e senza troppo rammarico. Della mia iscrizione all’Ateneo di lettere (preceduto da un inutile anno a Giurisprudenza: non avevo la vocazione, e ancora credevo nel binomio università -vocazione), rammento il “prima”. Il complesso universitario di Viale delle Scienze, a Palermo, ricorda vagamente un campus americano. Ci sono praticelli, alberi spinosi, moderne palazzine e distributori automatici di bibite. Fresco di versamento in segreteria, andai a sedermi su una delle panchine e mi vidi percorrere quella meraviglia in una mattina autunnale, sotto una nevicata di foglie rossastre: jeans, scarpe da tennis, felpa grigia e libri sottobraccio. Tormentato ed energico, combattivo e meritevole, come Dustin Hoffmann ne “Il maratoneta”. Riguardo al “dopo”, la mia fantasia virava verso il grottesco: la laurea era un tripudio di toghe e cappelli romboidali, con allegrie e scivoloni degni di Stanlio e Ollio nel vecchio film “Noi siamo le colonne”. Insomma, per me l’università era questo: fatica premiata e goliardia. Prova del fuoco e periodo di formazione. Quel viale conduceva a un mondo pieno di possibilità. Fine del primo tempo.
A volte sono gli stimoli più banali, come sfogliare un quotidiano o sonnecchiare davanti a una trasmissione tv, a darti uno scossone, a risvegliare delusioni sopite o scovare da sotto il tappeto i cocci dei sogni infranti. Qualche sera fa seguivo un’intervista della brava Daria Bignardi all’altrettanto bravo (e simpatico) Beppe Severgnini. Da uomo che ha visto il mondo, Severgnini sottolineava come il clientelismo, il nepotismo e la negazione della meritocrazia che infestano gli atenei italiani (senza eccezioni, assicurava lui, e io ho più di una ragione per credergli) sono fenomeni inconcepibili in qualsiasi altra parte del mondo civilizzato. E ho motivo di credergli anche su questo. Il giorno dopo, leggo di un concorso universitario a Messina per un solo candidato. A vincerlo è stato il figlio di un professore di quello stesso Ateneo. Il prof., intervistato, esibisce fastidio.
Due stimoli. La carezza seguita dallo schiaffo. Così, eccomi a rievocare il periodo dimenticato della mia carriera da studente: il “durante”. Mi sono laureato in lingue e letterature straniere agli inizi degli anni novanta (ero uno studente bravo ma pigro), e ho rischiato una seconda laurea in lettere moderne prima di rendermi conto che non volevo dare questa soddisfazione a me stesso. La mia tesi contava quasi 400 pagine, verteva su un argomento allora impensabile per Palermo (il cinema di Scorsese e la cultura dei siculo-americani) e, immodestamente, dico che era ben scritta, arguta e straordinariamente documentata. Mi toccò un centodieci, mentre la mia media esigeva una lode (assegnata invece a una tesi sui burattini inglesi: argomento allora scontatissimo per “Lingue” a Palermo). Siccome sono un candido, provai a informarmi su come si potesse accedere – legalmente – alla carriera universitaria. Collezionai pacche compassionevoli sulle spalle, mezze parole che dicevano moltissimo, qualche risata. A ridere, invariabilmente, erano quei professori che nell’arco di un anno avevo visto materializzarsi in aula soltanto una o due volte, magari quando i loro assistenti avevano il raffreddore o un lutto in famiglia. Ottenni un breve lavoro part-time fra libri e scaffali in virtù dei trenta sul libretto e del portafoglio mezzo vuoto, spalai tesi muffite in uno scantinato, affrontai l’odio di una bibliotecaria che vedeva in me un inesistente pericolo per la carriera già spianata della figlia, e da quella stessa figlia mi vidi rimpiazzare in graduatoria nella seconda selezione per il part-time. Mi misi a fare lo scrittore: tanto valeva…
Oggi, da viale delle scienze, ci passo solo per andare a comprare le arancine in un bar che le prepara benissimo. E, tra me e me, leggero e un po’ triste per chi mette piede in segreteria, canticchio: “Oooh…Stenlio! Noi siamo le colonne”.

Santo subito!

di L’Avvelenata

Credevamo che i processi di beatificazione e, poi, l’ascensione al soglio della santità fossero lunghissimi, complessi, caratterizzati dalla ricerca di prove a conferma, di miracoli a suggello.
Ci siamo sbagliati.
E’ vero, nel caso che sto per affrontare ci sono gli indizi, ci sono le testimonianze, ci sono le prove e ci sono addirittura le sentenze. Allora sembra tutto a posto, e nulla osta affinché il de cuius assurga come minimo al rango di beato. Si tratta di Vittorio Mangano. Il quale, mentre attende il sommo riconoscimento, ha già i suoi santi in paradiso che spendono per lui più di una buona parola. D’altronde con due sponsor come Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi si arriva dove si vuole. Loro di promozione e di comunicazione se ne intendono.
Da una notizia recentissima apprendiamo che Dell’Utri ha definito “un eroe” il signor Mangano: palermitano, morto nel 2000, ex stalliere di Arcore. Dove, secondo le accuse, più che occuparsi di cavalli si occupava di droga e, in virtù delle sue aderenze mafiose, anche di tutelare da eventuali rapimenti i figli del Berlusca.
E dell’eroe, in effetti, Mangano ha il tipico curriculum: la sua prima condanna, a 10 anni di carcere, per droga, risale agli anni ’80. Nel ’95 finisce di nuovo arrestato. Nel ’99 gli infliggono 15 anni per traffico di stupefacenti e altri 15 nel 2000, stavolta per estorsione. Poi l’ex stalliere si ammala gravemente e i giudici gli consentono di lasciare il carcere. Ma mentre è agli arresti domiciliari gli arriva una nuova condanna: la più pesante, l’ergastolo, per omicidio.
Proprio un eroe. Un santo. Talmente eroe e santo che, mentre era in fin di vita e detenuto in casa, invece di accusare e tirarsi dietro negli impicci giudiziari il duo Berlusconi-Dell’Utri (quest’ultimo processato e poi condannato a 9 anni in primo grado a Palermo per concorso esterno in associazione mafiosa, nel 2004), ha religiosamente tenuto la bocca chiusa. Mentre, secondo Dell’Utri, parlando avrebbe potuto levarsi dai guai e riguadagnare la libertà. Ma da eroe – è sempre l’opinione di Dell’Utri – non lo ha fatto. E l’ex senatore di Forza Italia gliene ha reso pubblico tributo durante un’intervista con Klaus Davi, poi ripresa da tutti i media. “Un eroe, a suo modo”, ha sottolineato. Che stia in questo imperscrutabile “suo modo” la chiave della potenziale santità?

Il sistema solare

Fra le mille opportunità che la televisione ormai offre al famoso uomo della strada ce n’è una che passa quasi sotto silenzio. Forse in virtù della sua funzione accessoria: è un po’ come la postilla di un contratto sulla quale l’occhio cade pigramente, tanto se ne dà per scontato il contenuto, una sorta di “compreso nel prezzo” che, mancando, scatenerebbe ricorsi. E che, essendoci, non manca di scatenare imbarazzo.
In tv si va per vari motivi. Innanzitutto per partecipare ai quiz, ai reality, oppure, se ci si è impegnati a fondo, a un talk show nel quale un gruppo di cervelloni cerca di capire se hai ammazzato o no moglie, figli e il labrador del vicino di casa.
Questi i fattori esterni, le motivazioni oggettive che danno l’occasione al signor Pinco Palla di sorridere o piangere da uno schermo televisivo. A un livello più profondo, l’unica ragione per cui si cerca di andare in tv, è che in tv si appare. Ma è una considerazione suscettibile di varianti. A seconda del grado di anonimato dal quale si proviene (e dal livello di mestizia interiore e vuoti d’aria che ci si porta appresso) si potrebbe anche concludere che in tv si “diventa”. O, più semplicemente, in tv, finalmente, “si è”. Niente di più naturale che, una volta arrivati davanti alla telecamera, ci si senta rivolgere dal conduttore o dal giornalista famoso la richiesta fatale. La postilla della partecipazione al veloce banchetto della celebrità. Presentarsi. In poche parole. Possibilmente con degli aggettivi. Insomma, ora che ti si vede, parlaci di te. C’è una variante ancora più perversa del “descriviti” televisivo. L’ho notata in un telequiz che mi capita di seguire qualche volta. Non è il concorrente che deve presentarsi, ma sono i suoi cari in studio che devono farlo per lui. Anche qui si annaspa, si cerca e, in qualche modo, si risolve. Ho notato che l’aggettivo di pronto uso che si sente sempre più spesso alla domanda “descriviti/descrivi” è “solare”. Dice la mamma della figlia appesa al bancone del quiz: è una ragazza solare. Dice il marito della giovane moglie: l’ho sposata perché è un tipo solare. Dice la zia ancora piacente della nipotina con l’apparecchio per i denti: è una bambina solare. Lunare no. Non l’hanno ancora sdoganato.
Il punto è: se non mi è facile mettere in dubbio la sincerità dei sentimenti di queste persone verso il loro caro riscaldato dalle luci della ribalta, mi è ancora più difficile immaginare che chi ti vuole bene non riesca a fare uno sforzo affettivo e – perché no, linguistico – in più. Se amare significa non dover mai dire “mi dispiace”, voglio pensare che di cose da dire quando si ama ci sia ampissima scelta. Per conto mio, preferirei che mia moglie davanti a un Carlo Conti o a un Gerry Scotti, mi descrivesse come “normale”, “scocciatore” o “stronzo” piuttosto che proiettarmi, di prepotenza, nel “sistema solare” degli affetti che non conoscono i vantaggi di un vocabolario.

Forza Sandokan

Vi sembra che stiano tutti dalla parte di Saviano? A parole, forse. Invece navigano sulla scialuppa di Sandokan il boss della Malesia. In superficie, Roberto Saviano è l’eroe che ciascuno difende a retorica spianata. Eppure, nel profondo, gli intellettuali e i politici, i giornalisti e gli uomini di macchina del consenso, tutti insieme appassionatamente lo detestano nel confessionale dei loro risentimenti. Due domande: perché lo detestano? E perché se lo detestano non lo dicono apertamente, visto che (ancora) c’è la democrazia?
Provo a rispondere e resto aperto ad altre risposte. Lo detestano per il successo, per la faccia antipatica, perché i moralisti in questo Paese sono considerati alla stregua dei Grilli Parlanti. Bisogna curarli a martellate. Appena appena si tollerano i grilli fasulli, quelli che moraleggiano sulla pubblica piazza e in privato indulgono ai piaceri della corruzione, astenendosi rispettosamente dal lanciare pietruzze nei gangli di un meccanismo consolidato. Il Sistema Italia prevede una doppia carburazione perfettamente coerente all’ingranaggio. Servono le parole dell’indignazione che ne alimentino la facciata rispettabile, per nascondere la polvere del sospetto sotto il tappeto. Serve il fiume carsico degli affarucci, dei compromessucci, delle cosucce individuali che ognuno di noi ben conosce – dal più alto in carica all’ultimo degli sfigati – e coltiva nel suo orticello di nonsenso civico. Uno come Saviano non si piega. Non si ferma davanti ai distinguo e per questo, qualche volta, sbaglia in eccesso di guerre sante. Ma sarebbe osteggiato, nel più sincero ventre dell’Italia, pure se per avventura ci azzeccasse sempre.
Altro bivio. Perché se lo detestano non lo dicono? Perché Giovanni Falcone, per esempio, è stato tanto sgarbato da morire dopo una vita integerrima passata a schivare attacchi più o meno frontali. E quelli che lo divorarono sono stati costretti ad andare a piangere al suo funerale, col torto scolpito sui lineamenti da Capataz. Meglio coccodrilli che mafiosi.
Ecco perché odiano Saviano nei sotterranei e nei sottoscala della coscienza. Per il trauma antico di Falcone che fu massacrato perfino da la Repubblica, ai tempi di Martelli ministro. Per non dovere correre, battendosi il petto, all’ennesimo funerale di Stato. E’ più funzionale la schizofrenia, la divisione equilibrata tra una fasulla solidarietà pubblica e un inguaribile astio intimo. In questa trama, il vero eroe popolare e segreto è il pirata di turno. E se solo potessero lo griderebbero ad ogni angolo: abbasso Saviano, Forza Sandokan. E Yanez.

Quando leggi un bravo giornalista ricorda…

Mi è capitata tra le mani una poesia di Bukowski sulla vita di un artista.
(La prossima volta che ascolti Borodin ricorda che era solo un farmacista che scriveva musica per distrarsi; la sua casa era piena di gente: studenti, artisti, barboni, ubriaconi, e lui non sapeva mai dire di no. La prossima volta che ascolti Borodin ricorda che sua moglie usava le sue composizioni per foderare la cuccia del gatto o coprire i vasi di latte acido; aveva l’asma e l’insonnia e gli dava da mangiare uova à la coque e quando lui voleva coprirsi la testa per non sentire i rumori della casa gli lasciava usare soltanto il lenzuolo; per giunta c’era sempre qualcuno nel suo letto – dormivano separati quando proprio dormivano – e siccome tutte le sedie erano sempre occupate spesso lui dormiva sulle scale avvolto in un vecchio scialle; era lei a dirgli di tagliarsi le unghie, di non cantare o fischiare di non mettere troppo limone nel tè di non schiacciarlo col cucchiaino. Sinfonia n. 2 in si minore Il principe Igor Nelle steppe dell’Asia centrale…)
Mi viene voglia di scrivere una parafrasi blasfema, ma per me essenziale.
La prossima volta che leggi un bravo giornalista, ricorda che è sicuramente un precario, che magari vorrebbe sposarsi ma non può, che è entrato nel mestiere per salvarsi l’anima ed ha scoperto che è difficilissimo farlo, se devi salvarti pure il culo. La prossima volta che leggi un giornalista bravo, ricorda che un tempo amava le parole, ma adesso ha smesso perchè non crede più al mondo e all’onestà. Perciò ha cominciato a guardarle come si guardano vecchie puttane che non ti incantano. La prossima volta che leggi, ricorda che il precario dei giornali scade come le mozzarelle e che ha tanti padroni. L’editore è il suo padrone assoluto, colui che può prolungare l’agonia o levargli la croce dalle spalle. Il resto appartiene ai sensi di colpa che traumatizzano il malcapitato, rammentandogli quanto sarebbe stato meglio provare con l’odiato posto in banca, dopo l’ottimo diploma al liceo. Già che ci sei, la prossima volta che leggi un bravo giornalista, ricorda che, da ragazzo, era un sognatore e voleva bene agli altri. Ed era convinto che gli altri condividessero il suo ideale di amore e giustizia. Troppo tardi si è accorto delle risate, degli sfottò e dell’abisso. Troppo tardi ha capito che il precariato dei giornalisti non è un accidente, è un’alchimia della politica per controllarli e tenerli alla catena. Eppure, nonostante tutto – con l’aiuto di qualche capitano coraggioso che pure c’è – tentiamo di spezzare il cerchio di fuoco. Anche se spesso stiamo malissimo.
Già, ma come finisce la storia di Borodin? Ecco, finisce così.
Riusciva a dormire solo mettendosi
un pezzo di stoffa scura sopra gli occhi;
nel 1887 partecipò a un ballo
all’Accademia di medicina
indossando un allegro costume nazionale;
sembrava finalmente di un’insolita gaiezza
e quando cadde sul pavimento,
pensarono che volesse fare il pagliaccio.
la prossima volta che ascolti Borodin,
ricorda…