Io corro da solo

Noi italiani passiamo per pigri. Sono sicuro che se potessimo aprire la mente di un tedesco o di un americano, alla piccola sottosezione “italiani” troveremmo immagini di Pulcinella lunghi distesi che si abboffano di spaghetti, suonatori di mandolino che socchiudono l’occhio al sole dell’alba e Sopranos che ammazzano i rivali senza scomporsi né allungare troppo la pistola. C’è un fondo di verità in tutto questo e una buonissima parte di approssimazione, come sempre accade nel reame dei luoghi comuni. Andiamo al fondo della (mia) verità. Se lo stesso straniero del pregiudizio decidesse di studiarci da vicino, probabilmente scoprirebbe che aveva ragione: la nostra pigrizia c’è, esiste, ma poco ha a che fare con lo spreco di acido lattico. È un’indolenza che investe piuttosto le idee di pronto uso – quelle che danno vita al colloquio quotidiano, anche banale – lo sforzo minimo necessario per formularle e soprattutto il linguaggio che serve a esprimerle. Funziona pressappoco così: qualcuno un giorno, plausibilmente in tv, risponde “assolutamente no/assolutamente sì” per comunicare consenso o negazione incondizionati a una domanda. Probabilmente suona bene. Probabilmente qualcuno penserà che è più moderno, nuovo e “fico” (ecco un’altro esempio di contagio linguistico risalente alla fine degli anni ‘70 che ha condizionato più coscienze del reverendo Jones). Più fico ed elegante dei semplici monosillabi cui siamo abituati. Deciderà così di usarlo in un’altra trasmissione. Il travaso dalla sacra ampolla del piccolo schermo alle tenere menti dell’italiano concettualmente pigro è, come sempre, cosa rapida. Implacabile. Presto ci saranno (o meglio, ci sono stati) migliaia di italiani che, dopo anni di salutare “sì, no, nì” e comodi cenni del capo, risponderanno: “Assolutamente sì. Assolutamente no”.
In questi giorni, il più papabile candidato al ruolo di idea di pronto uso e frase “fichissima” è l’“io corro da solo”. O almeno lo temo. Mi aspetto un “io corro da solo” detto dal mio fruttivendolo, un “io corro da solo” dal posteggiatore abusivo, eccetera. Perché chiedersi perché? L’ha lanciata Veltroni, la frase, l’ha ripetuta Casini, si litiga sul suo primato e ce ne offrono ripasso quotidiano tutti i giornali e le trasmissioni tv. Fico. Fichissimo. Proprio in questi giorni mi è capitato di leggere una notizia di pseudo-scienza: l’uomo in massa agisce come il gregge di pecore. Basta che qualcuno, in un luogo affollato, corra all’improvviso verso una direzione e tutti lo seguiranno senza nemmeno chiedersi come mai, o meglio ritagliandosi un perché immediato, su misura, che ovviamente poco avrà a che fare con quello di chi ha scatenato la corsa. Né sarà mai dato conoscerlo con chiarezza, questo perché scatenante. Ecco. Loro corrono da soli, ed è giusto che noi gli corriamo appresso. Insomma, noi corriamo da soli. Non si dica poi che gli italiani sono un popolo di pigri.

La vera fiera del libro… mastro.

Caro Gery, cari tutti E’ stata una settimana molto travagliata. Lo scioglimento delle Camere e le elezioni nazionali mi hanno posto un bivio.
Ho ricevuto non so quante centinaia di telefonate. “Roberto, candidati alle nazionali”. “Tu sei l’uomo giusto al posto giusto”. “Tu sei il Premier che tutti vogliono”. “Tu, solo tu, puoi ridare fiducia al Paese”.
C’ho pensato. Oh sì, se c’ho pensato. Mi sono detto: visto che si candidano cani e porci, perché non posso farlo io? Ebbene: non ho ceduto. E non pensate che io non sappia abbaiare. So farlo. E mi rotolo nel fango come pochi.
Ma io rimango qui. In questa Regione che ha bisogno di me, prima di tutto per combattere il vero male della Sicilia: la magistratura diabetica.
Io voglio portare fette di Colombia in Sicilia. Voglio fare in modo che, proprio perché si avvicina la Pasqua, tra questi due Stati negli stati ci siano scambi reali, veri. Ebbene: di fronte a questo progetto, che è stato suggerito da una mia elettrice, una magistratura diabetica dice di no. Ma noi dobbiamo combatterla, cari amici elettori. Noi dobbiamo dire basta a questa magistratura che anziché giocare negli uffici, che fa? Se ne va in giro, in America, costringendo uomini di elevata caratura morale a tornare in Sicilia. Ma Santo Dio, abbiamo fatto tanto per esportare questi uomini, questi cervelli, in America. Abbiamo fatto tanto perché rappresentassero oltreoceano il volto della nostra regione e ora ce li rimandano indietro. Su questo c’è tanto da lavorare, amici. E il mio programma non lascia dubbio: i magistrati devono giocare a Tetris o al solitario, e solo una volta superato il record si potrà pensare di dar loro il Pacman. Ma non prima. Su questo sarò irremovibile. Pensate che siano giochi vecchi e ci voglia la playstation? Ma noi daremo loro il Commodore 64.
Io voglio aggregare valori. Voglio regalare non più buoni benzina, ma certezze. Voglio fare in modo che la pasta, nelle periferie, non arrivi più cruda. Ma cotta. Che se ne fa un povero disoccupato di 12 chili di pasta cruda se poi non ha il gas? La pasta deve essere cotta, possibilmente a forno perché non si scuocia. Un team di esperti cuochi sta mettendo a punto una cucina. Non vi anticipo nulla, ma stiamo pensando di trasformare il velodromo e Pizzo sella. E per un grande Pizzo sella, ci vuole un grande cavallo…
E infine la fiera del libro. Smettiamola, per cortesia, con questi divieti, queste diatribe inutili. Nella fiera che ho in mente io possono partecipare tutti: palestinesi, israeliani, egiziani, catanesi, ennesi. Ammetteremo chiunque, basta che paghi. Sarà la più grande fiera del libro. La fiera del libro mastro. E’ inutile dire che ad ogni visitatore sarà regalato un contenitore in tetra pak.
Amici, non preoccupatevi se in questi giorni non vedete me, ma Micci. Che la stampa sia asservita lo sappiamo. Mi stanno boicottando. Ma voi non disperate così come non dispero io. Se sarò eletto la Rai si chiamerà RaiS.
E unificherò i tre giornali regionali sotto un’unica, grande testata: il Torta setteveline.
Vota Torta.

Non è un paese per giovani

Se ne accorgeranno in molti: ho preso a prestito e storpiato il titolo di un recente romanzo di Cormac McCarthy che non ho ancora letto ma che leggerò. Innanzitutto per espiare le colpe dell’indebita modifica (sulla copertina del vero romanzo si legge “vecchi” al posto di “giovani”); in secondo luogo perché ci sono titoli che, come questo, quasi ti costringono a rapire un libro dalla polvere dello scaffale. Infine, m’interessava l’alchimia delle parole: un fenomeno che non finisce mai di stupirmi. Lasciate “vecchi” in coda alla frase “non è un paese per” e, per quel pochissimo che so degli Stati Uniti, avrete una spietata sintesi dell’America attuale. Metteteci “giovani” e la frase si trasforma in un pensierino sull’Italia d’oggi e di ieri. Sono stato (e mi illudo di essere ancora, finché le candeline sulla torta non mi sveglieranno bruciandomi una manica) un giovane con la vocazione per la scrittura. Lascio perdere il lato lacrimevole della storia, che credo di aver già raccontato (non mi capivano, ero un illuso, mi consigliavano di fare i concorsi per aspirante usciere e insegnante sottopagato). Sono passati anni e la vocazione bizzarra, nel nostro paese, continua a non far dormire sonni tranquilli ai genitori (forse un po’ meno dopo l’avvento di Maria De Filippi). L’ambizioso, in mancanza di una definizione più pacificante, resta uno strano soggetto di cui prendersi cura. Ma si noti una significativa differenza: l’ambizioso in età matura è una miccia spenta. Non c’è bisogno di pestargli l’amor proprio dissuadendolo dal prendere un treno che è già passato. Basta una pacca sulla spalla, e si è tranquilli che la scintilla non si riaccenderà più di quanto ha già fatto. L’ambizioso giovane è una carica innescata. Potrebbe esplodere in una nuvola di fumo innocuo, ma anche riservare qualche sorpresa. E allora, mano agli estintori dell’orgoglio, ai sacchi di sabbia che seppelliscono i “vorrei” e i “tenterò di”. Ci si potrebbe mettere una pietra sopra, registrarlo come un retaggio culturale inestinguibile della nostra penisola (l’incubo delle macerie al posto del sogno americano) ma solo se la cosa restasse in famiglia. Invece questo è il paese con la più alta percentuale di ultracinquantenni tra le file della politica che conta. Questo è il paese in cui i ricercatori universitari restano tali fino alla vecchiaia e i docenti già vecchi da anni restano tali fino alla morte e forse anche dopo. Questo è il paese del “si qualifichi”, e dello “a che titolo lei”; del “ si faccia servire da chi ha i capelli bianchi”, e dei “non è fattibile” e “le faremo sapere”. Questo è il paese delle anticamere infinite e dei ghigni paterni. Questo non è un paese per giovani.

Day-after fashion

Ieri notte ho schiacciato con la pantofola sul muro l’ennesima zanzara di questo gennaio. Era in piena attività, tant’è che la chiazza dell’“insetticidio” è grande come una moneta da dieci centesimi. Sul mio balcone germogliano (ora!?) un mango e un avocado di cui avevo sotterrato i semi dopo una scorpacciata tropicale natalizia. E una candela che tengo vicino alla finestra si è liquefatta qualche giorno fa come se fossimo ad agosto. Era (orribilmente, lo ammetto) decorata a chiazze di leopardo. Adesso è zebrata, causa scolature.
Forse aveva ragione Stefano Benni quando nel ’93, in tempi non sospetti, o comunque molto meno sospetti di oggi, scriveva:
“Il nostro futuro è a una drammatica stretta. Ho visto un panda con la mia faccia sulla maglietta”.
E se al cataclisma ambiental-meteorologico-ecomostruoso sopravvivessero solo i politici? Loro sì che sanno come scampare sempre a tutto. Vedremo presto Mastella, Cuffaro, Prodi e Nino Strano con la faccia nostra, sulla maglietta?

(citazione da “Allarme di scienziato”, tratta da “Ballate” di Stefano Benni, Feltrinelli)

Io, futuro governatore della Sicilia

Caro Gery, cari tutti,
scrivo queste parole mentre fuori non c’è nessuna luce. Ogni notte il nero ha il sopravvento solo per pochi minuti, poi i fari delle auto o una stella più luminosa rompono questo colore così incolore.
Non dormo da quattro giorni perché ho riflettuto e solo stanotte la nebbia si è diradata.
Ho preso una decisione. Lo dico a voi e so di dirlo ad amici: mi candido alla Presidenza della Regione Siciliana.
E non lo faccio, credetemi, perché sono un politico, ma perché, nel momento in cui mi è stato chiesto, ho avuto la netta percezione che potevo, che posso rappresentare il volto della Sicilia.
Non è stato facile neanche pensare a cosa posso fare per questa terra. Io, provinciale peggio di una strada. Io, senza neanche una macchia nella fedina penale, nessun processo, nessun amico. Io che odio baciare se non con la lingua (e nemmeno chiunque).
Ecco, anche da questo può partire il cambiamento. Nel momento in cui ho scelto, subito si sono affollate idee per un programma di Governo che provo a sintetizzare.
Famiglia e giustizia: i temi del confronto politico che hanno assediato lo scenario italiano e siciliano. La famiglia prima di tutto. E’ inutile dire quanto conti la famiglia in questa Regione. Sì, io penso che la famiglia vada tutelata sopra ogni cosa con un’azione seria di spionaggio. Penso ad un’istituzione come i “LO DICO” . Un servizio gratuito a cui tutti si possono rivolgere per ottenere prove concrete del tradimento. Quante spie ci sono in giro disoccupate? Quanta professionalità sprecata, sottopagata che deve limitarsi a spiare senza alcuna funzione sociale? Lo spionaggio dev’essere libero e paDrocinato con fondi di un Assessorato al bene comune.
Sulla legge e ammennicoli vari ho le idee chiare: sto ragionando a una diversa collocazione del Palazzo di Giustizia di Palermo. Perché lasciarlo in centro città? L’ubicazione più ovvia mi sembra Bellolampo. Al posto di quelle colonne così brutte, così fasciste, io creerò un termovalorizzatore dove chiunque entri possa essere valorizzato. Entri spazzatura ed esci con un mestiere. Non importa quale, importa che sarà caldo caldo. Entri giudice? Esci Mastella. Cosa vogliamo di più?
Ma un Presidente vero non può limitare la sua azione al capoluogo. E’ indispensabile una politica fiscale che attui una vera redistribuzione della ricchezza dal basso. Sgravi sul riso per gli arancini, sul grano per la cuccìa, sul sesamo per i panini. E se tutti noi sappiamo quanto incidono le accise sul sesamo, ancor di più conosciamo il costo della ricotta. La liberalizzazione della ricotta è il punto da cui partire: una ricotta libera per tutti.
Sempre nell’ambito di vera politica economica dico con forza: “Aboliamo i bilanci delle aziende”. A che servono questi numeri incolonnati? Quale funzione ha conoscere quanto fattura un’azienda? A chi può mai interessare il costo economico di un’industria? Perché bisogna spiattellare i segreti? Meno bilanci significa non usare pesi e misure. Significa poter pagare il pizzo liberamente e non sopportare più la nascita di associazioni contro questo basilare controllo della liquidità. Le associazioni stanno facendo male alla crescita degli adolescenti siciliani. Ne parlo spesso con i genitori sempre più preoccupati: i giovani hanno ormai il seme della legalità. E stiamo attenti: quando attecchisce nessuno può estirparlo.
Pensiamoci in tempo.
Non posso dimenticarmi dei poveri. Ce ne sono troppo pochi ancora. Utilizziamoli, rendiamoli partecipi della vita dei ricchi. Creiamo un centro di stoccaggio di organi vitali. Che se ne fa un povero di due reni o di due cornee? Penso ad un ufficio dove chiunque, sulla base di una autocertificazione, possa utilizzare l’organo di una persona meno abbiente. Il tutto in case di cura multifunzionali, dotate di attrezzature all’avanguardia, da fare sorgere ovunque. Le case di cura costose sono il nostro futuro. E gli ospedali pubblici? Bella domanda. La risposta è semplice: trasformiamoli in sale bingo. Del resto che cos’è oggi un ospedale se non una lotteria? Legalizziamoli, allora. Restituiamo a queste strutture la loro essenza.
Dobbiamo colmare il gap infrastrutturale che ci ha così tanto penalizzati. Abbiamo un progetto del ponte: utilizziamolo. Pensiamo in grande: dal ponte sullo stretto, passiamo al ponte sul largo. Allunghiamolo. Facciamo in modo che da Messina arrivi a Palermo e prosegua verso Catania. A Mulinello potremo creare un sopra–ponte che favorirà lo snellimento del traffico verso Ragusa e Siracusa. Qui, lo so, lo so, è ovvio…. da Capo Passero all’Africa, che ci vuole? Con una piccola rampa arriviamo in un altro continente. Andiamo in quel Paese. Facciamo in modo che i clandestini arrivino via terra.
Sto già lavorando a un altro progetto serio che riguarda l’immagine della Sicilia. Ho scelto una delle città meno travagliate: Gela. Facciamo di questa cittadina la zona di rappresentanza della Regione. Viene un capo di Stato? Che palle portarlo a Palazzo dei Normanni! Stucchi, arte.. ma non se ne può più! Portiamolo a Gela. Facciamogli respirare un po’ di quell’aria nuova. Gela non va bene? Abbiamo anche Priolo.
A questo punto vi starete chiedendo: come diffondere queste innovazioni? Semplice, attraverso un buon ufficio stampa. Ammettiamolo: è una vergogna che abbia ventitrè giornalisti. Soltanto? Basta svoltare l’angolo – magari passando sul sovra-ponte – e arrivare in Burundi per scoprire che l’ufficio stampa del Presidente è composto da 145 giornalisti seri. Io non dico di arrivare al livello del Burundi, per noi assolutamente impensabile. Ma almeno proviamoci: portiamo il numero di professionisti della carta stampata a 100. Sarebbe un successo. Sarebbe un sogno che ci avvicinerebbe al Burundi a grandi passi.
Sto anche lavorando ad un inno: la colonna sonora di Chocolat. Mi sembra perfetta.
Ecco, vedete, piccoli gesti, nessuna grande pretesa. Questi sono i primi punti di un programma che crescerà. C’è un Presidente in ognuno di noi. Liberiamolo. Votate per Torta: ce n’è per tutti.

Barca-menandosi

Raffaella Catalano è un’anima di questo blog. Un passato da giornalista giudiziaria, è oggi editor di successo. Ha scoperto o rivalutato molti scrittori, alcuni dei quali oggi vincono importanti concorsi letterari nazionali. (Perentoria eppure paziente, è riuscita a guidarmi, e soprattutto a non prendermi a schiaffi, durante la messa a punto dei miei romanzi)
Oggi s’inaugura la sua rubrica. Stringata ed efficace, come lei.

Se siete certi di aver fatto bene un lavoro, ma il vostro capo vi accusa di scarsa professionalità, potete rispondergli così:
“L’Arca di Noè è stata costruita da dilettanti e il Titanic da professionisti”.
E sappiamo com’è andata a finire.

(la frase virgolettata è tratta dal web)

Esserci o non esserci

Ho una fortuna. Un mio grande amico è anche mio collega di lavoro. E soprattutto è uno dei miei scrittori preferiti. Si chiama Giacomo Cacciatore e da oggi ha una rubrica, “L’attimino fuggente”, su questo blog. Buona lettura.

Il giorno dopo la sentenza di condanna al Governatore di Sicilia Salvatore Cuffaro (mi piace la parola governatore, quanto mai appropriata: mi ricorda gli scenari riarsi e gaglioffi della Monterey dei telefilm di Zorro, il tenente Garcia, il servo muto Bernardo) una zia per la quale nutro sconfinata stima mi ha invitato a partecipare alla manifestazione di protesta in piazza Politeama. Ci si doveva riunire, far numero e alzare una simbolica mano alla domanda: “chi ritiene indispensabile che il governatore si dimetta?”. Ci ho pensato su. Mi sono chiesto se fosse giusto manifestare. Lo era. Mi sono chiesto se fosse significativo. Lo era, certo. Mi sono persino domandato se la mia improvvisa titubanza fosse un sicilianissimo rigurgito di timor sacro verso il potere e la sua arroganza; un residuo enzimatico del mio essere “di qui”, un fiotto di vigliaccheria inconfessata – da ometto quale a volte mi capita di essere – e con cui, in fondo, chi vive in Sicilia deve fare i conti. Secoli di attenzione a non azzardare il passo più lungo della gamba, di voci fantasmatiche che fin dalla tenera infanzia ti invitano alla cautela – pena oscure ritorsioni, cadute in disgrazia e inevitabili sconfitte – non sono acqua fresca. L’inconscio collettivo non si smacchia facilmente. Ho preso la penna. Se devo essere ominicchio, preferisco esserlo a metà. E mentre scrivo queste righe, tiro all’improvviso un sospiro di sollievo. Sono stato severo con me stesso. L’enzima di ominicchitudine ha battuto in ritirata, chiedendo scusa per l’incomodo. Sono qui a scrivere perché ci credo di più. Sono qui a scrivere perché credo che uno slogan fuori tempo non possa cambiare la storia, né potrà mai farlo una sentenza a carico di un solo uomo, con tutta l’indignazione – o, a seconda dei casi, – l’esultanza che questa si porta dietro. Sono qui perché credo che la storia, a volte, è possibile cambiarla proprio scrivendo. Non sto parlando di romanzi, non in questo caso. Sto parlando di una “x” tracciata su una scheda che, debitamente ripiegata, pioverà dentro un’urna.
Mi arriva notizia che alla manifestazione c’era tantissima gente, il giorno dopo la sentenza di favoreggiamento (non aggravato) del governatore Salvatore Cuffaro. Ci vediamo in cabina, signori, alle prossime elezioni per il presidente della Regione. E cerchiamo di esserci davvero. È lì che si chiedono le dimissioni di qualcuno.

Un nuovo inizio

Con questo articolo Roberto Torta inaugura la sua rubrica settimanale (o chissà) su questo blog: Torta in faccia. Che dio me la mandi buona.

di Roberto Torta

Lucia ha 38 anni, è insegnante, non è mai stata sposata. Ieri sera, a cena, parlava di una nuova sua fiamma: Giovanni, assicuratore. Diceva quanto è bello e quanto le fa bene avere un nuovo inizio. “Perché – spiegava – iniziare una storia, uno sport, un’attività, è una vera e propria ginnastica per il cervello”.

Scoprire un nuovo odore, un nuovo timbro di voce, nuove inflessioni dialettali, nuovi modi di baciare, di guardare le cose, occhi a cui non siamo abituati: tutto questo stimola la nostra fantasia.
La discussione è stata ampia e articolata. Mia moglie, intelligente ma gelosa come un Otello, diceva che iniziare sempre significa non avere un punto fermo e credo che Lucia non verrà più a casa mia.
Mio cognato aveva la bava alla bocca solo al pensiero di poter stare lontano da sua moglie.
Altri amici, noti e assertori della teoria “basta che respirano”, con accanto le loro compagne si esibivano in salti mortali di dichiarazioni su quanto sia importante avere una relazione stabile. Io li guardavo allibiti e notavo gli occhi scintillanti di queste compagne, proprietarie di così tante corna che solo Dio sa (oltre me e almeno un centinaio di persone).
Lucia insisteva e passando dal personale al generale diceva: “Quando conosci una persona nuova, ti viene voglia di farti la ceretta anche all’inguine, vai dal parrucchiere più spesso, cerchi di essere originale e di condividere i suoi interessi. Diventi gradevole fuori ma anche dentro. Poi, certo, la delusione può essere dietro l’angolo, ma in quel caso si può rimanere semplicemente amici o non frequentarsi più. La vita dev’essere una serie continua di inizi”.
Tutti aspettavano il mio parere e, lo confesso, ho detto una cosa di cui mi vergogno spudoratamente: “Io inizio ad amare mia moglie ogni mattina”.
Ma l’ho fatto solo perché non mi va di iniziare le pratiche per il divorzio.
P.S. E’ inutile che mi chiedete il numero di Lucia, tanto non ve lo darò mai.