1979, musica a gentile richiesta

Ci sono cose importanti che stanno a margine.  Soprattutto nei ragionamenti, negli incastri della socialità vera, nel semplice rapporto tra una domanda e una risposta.

Così, dopo “1979”, la principale domanda che mi è stata rivolta (dopo “ma come ti è venuta ‘sta cosa?” o tipo “chi te lo fa fare?”) è stata: dove possiamo trovare la playlist dello spettacolo? E, elemento di gran soddisfazione, la maggior parte di quelli che me lo hanno chiesto sono giovani (mai visti tanti giovani a un mio spettacolo, uuuh!).

È l’inaspettata conferma di quel che dico della musica proprio nei primi minuti di “1979”:

“…Serve perché per raccontare bisogna essere liberi e per ascoltare bisogna essere pronti a mettere a frutto la libertà che qualcuno ci porge. Soprattutto lasciarsi tentare dalla realtà che non è sempre triste e nefasta”.

Quindi, come si diceva una volta “a gentile richiesta”, eccovi in rigoroso ordine di apparizione, l’elenco delle canzoni dello spettacolo. Mentre qui trovate i link per la playlist su Apple Music e su Spotify

That’s the Way of the World – Earth, Wind & Fire

Fatti più in là – Sorelle Bandiera

Love to Love You Baby – Donna Summer

My Sharona – The Knack

Bad Girls – Donna Summer

Higway to Hell – AC/DC

Le Freak – Chic

Boogie Wonderland –  Earth, Wind & Fire, The Emotions

Y.M.C.A – Village People

Ma come fanno i marinai – Lucio Dalla e Francesco De Gregori

Too Much Heaven – Bee Gees

Je so’ pazzo – Pino Daniele

Another Brick In The Wall, pt. 2 – Pink Floyd

Don’t Stop ‘til You Get Enough – Michael Jackson

London Calling – The Clash

Message in a Bottle – The Police

Buona Domenica – Antonello Venditti

Last Train to London – Electric Light Orchestra

I Will Survive – Gloria Gaynor

I Can’t Tell You Why – Eagles

All My Love – Led Zeppelin

The Logical Song – Supertramp

Goodbye Stranger – Supertramp

Take the Long Way Home – Supertramp

Breakfast in America – Supertramp

Viva l’Italia – Francesco De Gregori

Varie forme di “I Can’t Go For That”

Riprendiamo la sana abitudine di parlare di musica. I Can’t Go For That (No Can Do) di Daryl Hall & John Oates è una canzone che nasconde molte storie. La prima, quella più suggestiva, riguarda Michael Jackson che ammise di essersi ispirato a quel giro di basso per la sua Billie Jean: il pezzo di Hall & Oates è nel loro album capolavoro “Private Eyes” del 1981, quello di Jacko è dell’anno seguente inserito in “Thriller”, l’album più venduto di tutto i tempi.
La seconda storia è quella più laterale e riguarda il testo: si pensava in modo istintivo a una relazione d’amore che non poteva andar avanti, ma in realtà, spiegarono gli autori, erano parole ispirate all’esigenza di maggiore libertà in ambito discografico, imprenditoriale (un po’ come Easy dei Commodores per decenni immaginata come una canzone d’amore mentre è lo sfogo di uno che si è liberato di una partner che non sopportava più) . Si narra che I Can’t Go For That (No Can Do) venne fuori da un giro di basso composto da Daryl Hall utilizzando un organo Korg, annodato al ritmo di una drum machine, una delle prime batterie elettroniche usate in modo tosto.
Ma la cosa più interessante è l’uso dei campionamenti che di questa canzone è stato fatto nei decenni. Di seguito varie forme di I Can’t Go For That (No Can Do), ognuna col suo magico senso di unicità

Ti salvo io

C’è questa canzone che ogni anno in questi giorni riprende vita. La canzone è September degli Earth Wind & Fire e risale al 1978. Pensate, non ebbe neanche un album tutto suo dal momento che, assieme al rifacimento (peraltro fantastico) di Got to Get You into My Life dei Beatles,  era inclusa in un album di successi già pubblicati. September è un inno alla dance di quegli anni in cui tutto ci sembrava spensierato. Ballavamo e cantavamo, addentavamo la nostra adolescenza senza curarci del mondo che intorno a noi macinava le stesse tragedie di sempre – l’omicidio Moro e il disastro aereo di Punta Raisi, solo per restare in Italia –  e che, nonostante la lente deformante dei social di oggi, non era troppo diverso da quello in cui galleggiamo oggi. Le cose accadono, sono sempre accadute.
Comunque è dell’effetto September che voglio dire.
C’era questo sottile cinguettio di chitarre, il coro gioioso di femmine e falsetti, la sbornia di fiati. E poi c’era lui, Maurice White. Di una grandezza per noi incommensurabile, allora. Una grandezza di quelle di cui uno si accorge quando viene a mancare. Accade così con certi miti viventi: gli affibbiamo un ruolo talmente totalizzante che li mettiamo fuori dal tempo, dall’ordinarietà. E, ascoltando questa canzone, come mai vi potrebbe venire in mente il concetto di morte? È già accaduto con molti nostri punti di riferimento e accadrà ancora perché, come sappiamo, la vita è una infinita malattia mortale. L’unico antidoto – e lo dico dall’alto dei miei tot anni – è ballare, cantare e affidarsi a quelle quattro note incatenate che sopravvivono alle maree del mondo tendendoci una mano, come si fa coi naufraghi: stai tranquillo, ti tiro su io, nessun’onda, neanche quella sperimentata dal capitano Shackleton, potrà mai fermare la musica.
Vivi, sopravvivi. Balla.  

Questione di Fedez

Quella per cui “i musicisti facciano i musicisti e la politica faccia la politica” è una scusa lunga un secolo tirata fuori, come se fosse nuova, non appena un cantante osa pisciare fuori dal pitale dei temi consentiti. E non è censura – che quella almeno aveva una sua ragion di stato, non accettabile ma almeno chiara, esplicita nella sua granitica impenetrabilità – ma un pericoloso mix di grettezza, superficialità, incultura e arroganza.

Il cantante che spettina la realtà mette la sua arte al servizio della cronaca e, può piacere o meno, fa ciò che un pittore o uno scrittore fanno quando rielaborano il visibile o descrivono l’invisibile. Ripeto, può piacere o meno e per questo esistono sedi e modi appropriati per esprimere un giudizio (classifiche, indici di gradimento, eccetera), ma richiamare all’ordine un artista per un parere che quell’artista esprime proprio nelle sue vesti è un atto degno del mix di cui sopra.
Fedez fa esattamente Fedez, lo sai quando lo inviti. Se non ti piace non inviti, semplice.

Pensare di invitarlo solo per fargli fare ciò che gli riesce peggio, cioè cantare, è una follia.

La sua invettiva sulla legge Zan, su cui qui non mi dilungo (ne ho già brevemente discusso stamattina su Facebook), è semplicemente il frutto del suo lavoro di artista. Lui questo fa: sposa cause, le legge a modo suo, le cavalca, le fa entrare in un circuito mediatico che rispecchia in fondo la sua vena creativa. Non c’è da imbavagliarlo ma, se si vuole, lo si può recensire. Come si fa con tutti i cantanti.  

Un’obiezione, guardando al passato, potrebbe essere: sì, ma le grandi canzoni di protesta erano appunto canzoni, mentre questo Fedez declama. È vero, non siamo a We Shall Overcame, (l’inno del movimento per i diritti civili degli afroamericani e delle lotte sindacali, studentesche e pacifiste di mezzo mondo, dalla Spagna franchista al Sudafrica segregazionista), né a The Star – Spangled Banner suonata da Jimi Hendrix a Woodstock (quando il chitarrista inserì nel brano i suoni che richiamavano la guerra del Vietnam), ma ogni tempo ha i cantori che si merita e oggi la musica ha bisogno di nuovi mezzi, anche logici e verbali, attraverso cui essere veicolata.

Molto modestamente penso che un artista è tale in ogni sua visione della vita, non gli si può chiedere di guardare alle cose del mondo soltanto quando indossa l’abito di scena, altrimenti diventa un’altra cosa. Un ragioniere (con rispetto per i ragionieri). O un giullare della politica (con rispetto per i giullari e per la politica, a patto che stiano in banchi separati).

Varie forme di “I’m not in love”

“I’m not in love” è una canzone che ha segnato la mia adolescenza. Quando fu pubblicata, nel 1975, avevo dodici anni e pur non avendo idea del significato rimasi colpito dall’atmosfera sognante, estatica. In realtà i “10 cc”, cioè gli autori del brano, erano tutt’altro che una band dalle sonorità soffuse. Me ne sarei accorto qualche decennio dopo apprendendo, ad esempio, che l’ispirazione per il nome del gruppo veniva dalla quantità di sperma prodotta durante l’eiaculazione. Fulminazioni improvvise, tipo quando ti accorgi all’improvviso che Babbo Natale non esiste.

Ma “I’m not in love” è soprattutto una canzone incisa molto faticosamente. La band impiegò tre settimane solo per registrare l’ahhhhh sedici volte per ogni nota della scala cromatica, costruendo un edificio di quarantotto voci.

A parte la versione originale, qui quella restaurata, ne esistono molte altre: vi propongo quelle mi sembrano migliori. La mia preferita è quella dei Pretenders, ma anche la versione dal vivo del 2011 degli stessi 10 cc non è male. Con quella dei Fun Lovin’ Criminals invece ci ho fatto un bel pezzo di Cammino. Enjoy.

Né Tears né Fears

Sono uno fortunato. Nella mia vita, per passione e soprattutto per mestiere, ho assistito a molti concerti dal vivo. Quello che ho visto sabato scorso al Forum di Assago lo ricorderò per due motivi contrastanti: era in cima alla lista di quelli che mi mancavano (e dovevo assolutamente mettere nel carniere) ed è stato qualcosa di molto diverso da ciò che mi aspettavo.
Parliamo dei Tears for Fears e del loro “Rule the World Tour”, (la tappa milanese che doveva essere recuperata dallo scorso anno quando fu annullata per indisposizione e/o bizze degli artisti). La mia avventura non era iniziata benissimo dato che il biglietto acquistato per oltre il triplo del suo valore, a causa di un secondary ticketing selvaggio che ho provveduto a segnalare per tempo alla Guardia di Finanza, aveva già messo a dura prova la mia pazienza. Tuttavia mi sono presentato all’appuntamento con passione e curiosità di ordinanza e, da un punto di vista strettamente musicale, non sono rimasto deluso. Il fatto è che Roland Orzabal e Curt Smith propongono uno spettacolo molto serrato e, diciamolo, abbastanza breve: un’oretta e mezza scarsa (bis compreso) di musica con quel repertorio lì è un antipasto, altro che cena completa. I Tears for Fears mettono su una macchina molto professionale – troppo, al limite del freddo – per concentrare in un tempo relativamente breve una carriera di successi stellari. Gli arrangiamenti poco lasciano all’emozione live poiché raccontano esattamente la storia che conosciamo tramite il prodotto discografico: precisione, compostezza e rapidità. Anche nella scenografia, uno schermo grande ma non troppo propone il déjà-vu di immagini note (e apprezzate) nei loro prodotti e quasi ostenta la pigrizia di tralasciare telecamere a favore di chi, in uno spazio così ampio, vede il palcoscenico da troppo lontano pagando un biglietto salato.
Insomma ci si diverte, si balla e si canta per la forza delle canzoni, non certo per quella dei loro autori e interpreti che probabilmente nascondono una stanchezza sotto una corazza di solida imperturbabile professionalità. Un compitino ben fatto, un sano artigianato di larga scala.
Voto 7+, si poteva fare meglio.

Padre e figlio, una lezione

Padre e figlio sul palco. Chitarristi. Ti aspetti – da indemoniato della musica – una minestrina tiepida condita di buone intenzioni, brodaglia familiare, emozioni insipide. Del resto quale padre non sogna di poter suonare col proprio pargolo, costi quel che costi? E invece l’altra sera al Blue Brass, grazie a un assist di Fabio Lannino, Vincenzo e Matteo Mancuso hanno frullato e sconvolto tutte le aspettative.
Papà Vincenzo, musicista di lungo corso dalle collaborazioni che valgono da sole almeno un paio di vite vissute, ha fatto sì il papà, ma senza far mai pesare il ruolo. Il giovane Matteo, promettente virtuoso della chitarra, ha fatto il figlio accelerando senza mai sollevare polvere. Il risultato è stato un concerto godibile e coinvolgente come pochi di questo genere: anche tecnicamente perfetto.
Sono molto sensibile ai messaggi criptati della musica poiché, come ho già abbondantemente scritto, la musica mi ha salvato la vita più volte. Nei momenti difficili come in quelli felici, c’è sempre stata una canzone che stendeva un tappeto sotto i miei pensieri e mi faceva sdraiare lì, da solo anche quando ero tra la folla, nudo anche quando ero bardato di tutto punto sul Monte Bianco, sorridente anche quando piangevo a fontane.
Ecco, nella musica di questo padre e di questo figlio c’è tutto il segreto impenetrabile dell’armonia indotta da tre accordi, una pentatonica (che è un po’ l’esperanto dell’improvvisazione) e dal feeling conseguente.
Felicità è anche sapersi regalare una colonna sonora. A sorpresa.
Però in questo caso siete avvisati. Cercateli.

Cantala ancora Chrissie

La canzone di Natale che vi consiglio quest’anno è questa. La versione dei Pretenders di un brano degli anni ’40 merita un ascolto non distratto perché la voce al limite del calante di Chrissie Hynde è toccante e struggente. Insomma prendetevi ‘sti quattro minuti e mezzo e provate a non farvi venire i lucciconi…

Cose di insana passione musicale/2

Ancora Steely Dan, ancora quell’album, Aja, ancora il 1977. Questa è la title track: orecchio al finale.

Cose di insana passione musicale

Sapete della mia sfrenata passione per Donald Fagen e per gli Steely Dan. È (anche) per questo e (anche) perché di musica ultimamente abbiamo parlato poco che mi permetto di iniziare una serie di suggerimenti d’ascolto su questi due geni della musica contemporanea (più Fagen di Becker, a mio modesto parere). Comincio con questa Home at Last (dall’album Aja): sentite quanto jazz, quanta eleganza… E, pensate un po’, siamo nel 1977.