Invece

E’ tutta colpa di Silvio Berlusconi.
Oggi, durante una giornata caotica e snervante, mi ero preparato una cosetta da scrivere: buone intenzioni, un po’ di geriatrica nostalgia, due o tre comandamenti sul “come affrontare i cambiamenti climatici al di sotto della cintola”. Una specie di bignamino della sopravvivenza nel millennio del condominio globale. Avrei voluto raccontarvi cosa succede nella minima quota attiva degli emisferi cerebrali di un ultraquarantenne quando le cose cambiano velocemente e gli unici strumenti per inseguirle sono le proprie gambe. Mi sarei inerpicato sui sentieri dell’amor proprio, schivando le frane dei sensi di colpa e ristorandomi nei ruscelli del menefreghismo. Avrei imbastito tesi fragili come un pensiero trasversale e controdeduzioni da Nobel per la bugia. Mi sarei mostrato nascondendomi, avrei confessato con reticente sincerità, avrei riempito queste righe svuotandomi. Invece…
Invece ho visto Silvio Berlusconi in tv che diceva a una studentessa: “Chi non ha un posto fisso sposi un milionario come mio figlio”. Allora mi sono incazzato e mi sono inghiottito tutto.

Forza Ciarra, viva il duce!

La tentazione di tifare per Giuseppe Ciarrapico è forte.
La pervicacia con cui quest’uomo ha trasformato l’acqua in petrolio e la carta in cemento – per bruciare gli avversari e per consolidare il proprio conto in banca – è, in essere e in divenire, un nuovo miracolo italiano.
Ciarrapico ha la lungimiranza politica di una porchetta di Ariccia. Gli basta recitare mezzo alfabeto coi rutti per scatenare un dibattito tra i suoi stessi alleati. Non è meraviglioso?
E’ il compagno di classe che molti vorrebbero e che nessuno confessa di aver invitato alla festa del sabato pomeriggio. Temuto come un ducetto, schifato dai fascisti perché apertamente fascista, Ciarrapico era l’ultimo capomastro rimasto fuori dal cantiere politico italiano: ora chi gli ha aperto ha nascosto mano e catenaccio.
Lui però è già dentro, affaccendato nell’ordinare operai e picconi, parole e badili, programmi e nostalgie.
E’ l’uomo che ci meritiamo, e vincerà. Tanto vale farsi trovare con la bandiera in mano (di carta): forza Ciarra! Viva il duce!
Forse sarà meno doloroso.

La frenata di Mastella

Mi piace pensare che dietro la rinuncia di Clemente Mastella alla corsa solitaria per le prossime Politiche ci sia un rigurgito di realismo. Un uomo corre da solo non solo quando ha le gambe per farlo: ci vogliono consapevolezza, coscienza, limiti (confini) ben chiari.
Mastella, quasi una settimana fa, aveva deciso di candidarsi a premier di una landa chiamata Italia. Mica Ceppaloni. Mica Clerville.
Per benevolo garantismo (l’aggettivo in questo caso è d’obbligo) prefiguro uno scenario in cui l’ex ministro della Giustizia (occhio alla maiuscola), che ha dato la spintarella finale per far precipitare il governo Prodi in un baratro ben meritato, risolva i suoi problemi con la Giustizia (sempre maiuscola) e possa riunirsi col suo comitato esecutivo, il suo consiglio di amministrazione, i suoi strateghi, i suoi elettori, i suoi estimatori, i suoi guardaspalle… insomma con la sua famiglia e decidere con serenità.
C’è ancora un paese in cui un politico può cambiare casacca ogni anno bisestile e pretendere di mostrarsi fedele a un antico ideale? E se sì, è immaginabile che gli abitanti di quel paese siano tutti ciechi, sordi, muti e rincoglioniti?
Temo che nell’ortografia di Mastella non esistano i punti interrogativi.

E’ finita

Canzoni così brutte un solo Sanremo non le aveva mai raccolte tutte insieme. Melodie telefonate, strofe ruffiane, gusto insipido per un immaginario palato unico, vuoto pneumatico di idee. Niente pagelline e voti, di quelli abbiamo fatto incetta in mondovisione. Solo una rapida trascrizione degli appunti presi con i miei amici Giacomo e Raffaella, nell’ultima estenuante serata del Festival.

  • I vincitori. Giò di Tonno e Lola Ponce nel loro trionfo di zigomi lucidi e mandibole americane mi ricordano i Jalisse. Solo che Giò e Lola (che sembrano i nomi di un fumetto porno) hanno un passato da musical, mentre i Jalisse avevano un passato che avrebbe fatto pendent col loro futuro, il niente. La musica è pressoché la stessa.
  • Fede e compagni. La giuria di qualità che discute e discetta dei voti appena affibbiati o elargiti mi è sembrato un basso espediente per innescare la scintilla dello scontro in diretta. Quindi per fare ascolti. E poi avete visto chi rappresentava la “qualità”?
  • L’Aura. Mi resteranno impresse le sue scarpe medioevali. Il resto, per fortuna, passa.
  • Mario Venuti. Un marziano in un mondo in cui, ad esempio, Martina Colombari gli preferisce Toto Cutugno.
  • Tiromancino. Premio per il testo più didascalico. Oscar per l’antipatia a Federico Zampaglione: una faccia orfana di schiaffi.
  • Max Gazzè. L’unica goccia di stile.
  • Anna Tatangelo. Una finta bona che fa la finta diva e che recita un finto copione e canta finte canzoni.
  • Carlo Verdone. Il mega super spottone del film in uscita chi lo ha pagato?
  • Piero Chiambretti. Divertente anche se talvolta ossessivo.
  • Elio e le storie tese. Indimenticabili.
  • Pippo Baudo. Faccia il presentatore, ma non più il direttore artistico. Sa tutto della macchina del palco, è desueto per le scelte musicali e strategiche.

Musica e surgelati

Volevo scrivere di robe personali, allegoriche, quasi metafisiche… invece mi tocca tornare su Sanremo. Se avete seguito la discussione di ieri sapete il perché.
Appunti di festival, anche oggi. Eualà.

  • Pastori tedeschi. Dieci cani sul palco dell’Ariston tutti in una volta non si erano mai visti. Senza microfono poi…
  • Scansione degli spot. Qualcuno dovrà pur lamentarsi per queste fastidiose canzoni che interrompono la pubblicità.
  • Amedeo Minghi. L’unico surgelato al mondo che si può scongelare e ricongelare ogni anno.
  • Little Tony. L’unico surgelato al mondo che canta senza bisogno di scongelamento.
  • Jacopo Troiani. Uno che a 17 anni ha girato un film, si esibisce a Sanremo e si muove come la buonanima di Sergio Endrigo può viaggiare comodamente in autobus. Appena lo vedono, tutti gli cedono il posto a sedere.
  • Mietta. Più dell’ugola potè la gengiva.
  • Loredana Bertè. Per fortuna, a dispetto di quanto ha biascicato la barcollante diva vestita da Obi-Wan Kenobi, la musica non è lo sport. Infatti nello sport c’è l’antidoping.
  • Duran Duran. Resta la battuta di Chiambretti: “Ah, i Duran Duran, quelli degli anni Ottanta. Sono sempre loro o nel frattempo qualcuno è morto?”.

Canzoni stonate

Trascrivo alcuni rapidi appunti sulla prima serata del festival di Sanremo (vedo poca tv, ma quando lo faccio ho sempre carta e penna con me perché mi piace farmi male sino in fondo).

  • Il culto del passato di cui la manifestazione si nutre ha innescato una specie di Alzheimer catodico: i continui rimandi al bel tempo canzonettistico che fu appesantiscono la struttura del programma causandone una demenza progressiva.
  • Nonostante ciò, l’omaggio a Modugno e al suo “Nel blu dipinto di blu” è stato il momento migliore della serata, se non altro per l’originalità del montaggio.
  • Perché Cutugno e Zarrillo (sono mie fissazioni, lo so) continuano a essere stelle della bandiera italiana che non ha né stelle né striscie? In più, Cutugno ha presentato una canzone dal testo stratosfericamente banale, con palesi difficoltà di sillabazione: un’offesa allegorica alla rima baciata, un tritato di luoghi comuni da mal di testa.
  • Alcune battute di Chiambretti sono state divertenti. Il comico ha comunque il dono della leggerezza e anche quando affonda i finti denti nelle carni frollate dell’apparato ci fa perdonare (ma solo per un attimo) la stucchevolezza di un copione nel quale anche le virgole vanno declamate.
  • Frankie Hi NRG si è meritato il premio “migliore delusione” della serata: da un rapper originale e dissacrante mi aspettavo almeno un’idea. Invece la canzone è orribile e il testo sembra scritto da Fabri Fibra.

Fine degli appunti.

Contro i call center

Avete fatto caso come gran parte della nostra vita sociale sia regolata dai call center? Non c’è servizio che non sia filtrato da una voce sintetica, monocorde e falsamente rassicurante. Unica variante la musichetta di sottofondo.
Dopo un tempo estenuante di attesa e dopo essere stati costretti a prendere appunti per azzeccare l’opzione giusta, se si è nati con l’ascendente giusto, si riesce a parlare con un operatore in carne e ossa (e corde vocali). E qui si sfiora l’esaurimento nervoso.
Il principio di anonimato – anche se dall’altro lato del filo vi vengono forniti talvolta nomi di battesimo o codici identificativi a sette cifre – è la tomba di ogni speranza. Mi sono imbattuto in operatori che mi rimproveravano perché richiamavo nel giro di due ore: “E perché richiama? Deve seguire le istruzioni che le abbiamo dato la prima volta”, “L’ho fatto, ma non funziona”, “Non è possibile, chissà che ha combinato”, “Ma le dico…”, “Non dica, faccia!”, “Faccio!”, “Ha fatto male allora”.
Oppure ci sono quelli che quando si trovano alle strette (cioè quando sono costretti a dare risposte univoche) fanno cadere la linea.
O ancora trovi quelli esauriti in vena di confidenze: “Sapesse quante persone mi hanno chiamato oggi col suo stesso problema”, “E… lei che ha detto. Lo dica anche a me così risolvo tutto”, “Ho detto quello che le sto dicendo: che siete in molti con questo problema!”.
La casistica è infinita, come la lista dei numeri verdi.
Se ci fosse un partito per l’abolizione dei call center mi ci iscriverei col solo obiettivo di diventarne segretario nazionale.

La lezione del procuratore

C’era una notizia molto importante su alcuni giornali di ieri. Il procuratore di Palermo, Francesco Messineo, in una lezione ai giornalisti praticanti della scuola universitaria Mario Francese ha attaccato due giornalisti di Repubblica, Alessandra Ziniti e Francesco Viviano, per aver pubblicato in anteprima il contenuto del libro mastro del boss Salvatore Lo Piccolo. Il procuratore, non contento di aver messo sotto inchiesta i due cronisti addirittura per favoreggiamento aggravato a Cosa nostra, li ha definiti “apprendisti stregoni” per il loro supposto intento di stimolare una rivolta civile contro il racket delle estorsioni.
Non dovrebbe sfuggire la pericolosità su più fronti di tale ragionamento.
Primo, credere a un giornalismo che chiede il permesso di pubblicare le notizie significa rimpiangere per lo meno la Pravda degli anni Settanta.
Secondo, accusare di contiguità con la mafia Repubblica e i suoi giornalisti – piacciano o non piacciano Repubblica e i suoi giornalisti – è un’enormità che neanche Berlusconi finora aveva accarezzato col pensiero.
Terzo, una simile lezioni a una platea di giovani aspiranti cronisti è – a mio modesto parere – educativa quanto dieci gocce di Tavor a un neonato.
Quarto, parlare in questo modo in una scuola intitolata a un eroe (anche se purtroppo dimenticato) che ha sacrificato la sua vita proprio per un’informazione libera e coraggiosa richiede almeno delle scuse pubbliche.
Ammiro il lavoro che svolge la Procura di Palermo e sono molto felice per i risultati che ha conseguito contro la mafia e il malaffare. Ciò però non costituisce un lasciapassare per le stupidaggini che singoli magistrati possono dire e\o fare. Se il procuratore Messineo ritiene che certe fughe di notizie danneggino il lavoro dei suoi sostituti, non abbia la presunzione di impartire lezioni di un mestiere che non è il suo. Semplicemente avvii un’indagine all’interno dei suoi uffici, indaghi i suoi pm, perquisisca le case di carabinieri e poliziotti che lavorano con loro, intercetti le telefonate che partono dal palazzo di giustizia. Pensi al segreto professionale dei giornalisti, che è garanzia assoluta innanzitutto dei lettori. Pensi al dovere di riservatezza della sua categoria, che è garanzia assoluta innanzitutto degli indagati. E non provi a calpestare il diritto costituzionale della libertà di stampa.
Non è alzando la voce e facendo valere il proprio potere coercitivo che si insegna e si riscuote il rispetto. Questa è la lezione più importante che dovrebbe essere impartita a quegli apprendisti giornalisti.
OT Per qualche giorno faccio un pit stop. Il tempo di gonfiare le gomme, rabboccare l’olio del motore, fare il pieno di carburante… Alla prossima settimana.

Questa foto

Guardate questa foto. Turisti per le strade di New York. Giovani con le loro fidanzate. Una vacanza, uno scatto per ricordo, poi il ritorno a casa, alla vita di ogni giorno.
Shopping in una città straniera, cena al ristorante, dollari, calcoli sul cambio: “Ti ricordi quando c’era la lira? Ma quant’è un dollaro? Alla fine ci abbiamo pure guadagnato?”.
Amici da incontrare negli States. “Frank. Te lo ricordi? Dice che ha una casa bellissima”.
Il giro in limousine, perché New York è un’altra cosa vista dai vetri scuri di una macchina lunga quanto tre Fiat Panda.
La foto ci dice pressappoco questo. Ma c’è dell’altro che sta nascosto tra quei pixel. E’ un messaggio generazionale, una scheda sociologica, o più semplicemente una notizia.
La mafia è cambiata.
Le facce sono qualunque. Le compagnie sono mimetizzate. Anche i sorrisi sono diversi.
Ricordate l’espressione diabolica di una celebre foto di trent’anni fa in cui Totò Riina si fa ritrarre in piazza San Marco coi piccioni sulle mani? O le sequenze rarefatte del matrimonio di Leoluca Bagarella? O la posa enigmatica di Matteo Messina Denaro?
Passato.
Questa è l’immagine della nuova Cosa nostra.
Turisti per le strade di New York. Giovani con le loro fidanzate. Una vacanza, uno scatto per ricordo, poi il ritorno a casa, alla vita di ogni giorno.
Una vita di traffici, delitti, guerra allo Stato.

L’intolleranza e l’idiozia

Una minoranza contundente che ha l’ardire di definirsi, a cortei sguainati, pacifista ha scatenato negli ultimi giorni un attacco inusitato contro gli organizzatori della Fiera del libro di Torino, il massimo evento letterario nazionale. Motivo? Il posto di ospite d’onore assegnato quest’anno a Israele.
L’argomento ha già suscitato molte autorevoli prese di posizione, da Claudio Magris a Magdi Allam, da Aldo Grasso a Fausto Bertinotti. Ho firmato il documento stilato da Raul Montanari (che riporto in coda a questo post), ma avrei voluto aggiungere alcune righe accanto al mio nome e cognome. Queste.
La tutela delle diversità è l’unico modo che abbiamo per dare un po’ d’acqua al giardino della cultura. La cultura non può avere colore, non si vernicia l’aria che respiriamo. L’intolleranza è la più inaccettabile forma di violenza imposta alle idee. E le idee sono gli unici ponti a prova di bombe intelligenti che uniscono New York a Bagdad, Londra a Kabul, Palermo a Berlino.
Chi vuole boicottare scrittori del rango di Abraham Yehoshua, solo perché non è nato a Liverpool, è un idiota che gode ancora nel farsi sodomizzare da un’ideologia defunta: potenza del rigor mortis.

Israele ospite del Salone del Libro di Torino 2008

Con questa firma esprimiamo una solidarietà senza riserve nei confronti degli organizzatori della Fiera del libro di Torino, nel momento in cui questo evento di prima grandezza della vita letteraria nazionale viene attaccato per aver scelto Israele come paese ospite dell’edizione 2008. L’appello a cui aderiamo s’intende apartitico, e politico solo nell’accezione più alta e radicale del termine. Non intende affatto definire uno schieramento, se non alla luce di poche idee semplici e profondamente vissute. In particolare, l’idea che le opinioni critiche, che chiunque fra noi è libero di avere nei confronti di aspetti specifici della politica dell’attuale amministrazione israeliana, possono tranquillamente, diremmo perfino banalmente!, coesistere con il più grande affetto e riconoscimento per la cultura ebraica e le sue manifestazioni letterarie dentro e fuori Israele. Queste manifestazioni sono da sempre così strettamente intrecciate con la cultura occidentale nel suo insieme, rappresentano una voce talmente indistinguibile da quella di tutti noi, che qualsiasi aggressione nei loro confronti va considerata un atto di cieco e ottuso autolesionismo.