L’uomo che non conosce vergogna

Se il neo ministro Brancher avesse voluto sottolineare la propria emancipazione da un vizio odioso come il sospetto di una nomina clientelare (una nomina a ministro, mica un incarico in una municipalizzata), tutto avrebbe dovuto fare tranne che pronunciare la consumata formula “contro di me solo odio”. Perché quello dell’odio fatto partito – come se un sentimento potesse essere ghettizzato a componente politica – è un grottesco ritornello del suo padrone e correo.  Insomma un modo – il più banale – per compromettersi definitivamente
Nei romanzi gialli,  il meccanismo più trito prevede che uno dei sospettati si tradisca pronunciando una frase o richiamando una circostanza che riporta al movente del delitto. E’ una sorta di ciambella di salvataggio che l’autore del libro lancia verso se stesso quando non sa come far quadrare una storia: ovviamente poi se ne vergogna.
Solo che Brancher non è uno scrittore, non è un personaggio di fantasia, e soprattutto non appare geneticamente in grado di provare vergogna.

Ai confini della realtà

Berlusconi s’inventa un ministero per inventarsi un ministro che s’inventi la balla del legittimo impedimento per evitarsi un processo. Napolitano s’inventa un atto eroico che blocca l’invenzione sfrontata del Sommo Inventore di Panzane.

La faccia, il culo e il metodo Lippi

Non riesco a pensare allo sport, penso all’economia. Nel senso che la figuraccia dell’Italia ai Mondiali non può essere liquidata con il volemose bene del “ci rifaremo la prossima volta” o il luogo comune del “tanto è un gioco”, ma va inquadrata in un contesto in cui gli equilibri economici e i flussi di moneta stanno alla base di ogni scelta.
Perdere una partita o essere eliminati da una competizione è fisiologico, altrimenti non si chiamerebbero gare ma conviviali. Perdere senza mai giocare ed essere eliminati ancor prima di scaldarsi, specie se si ha il titolo di campioni del mondo, è grave e, addirittura, patologico.
Di malattia si tratta, infatti.
Il calcio italiano, quello impersonato da Marcello Lippi, è molto malato. Soffre di schizofrenia: il paese che non ama gli stranieri li strapaga se sanno dare due calci a un pallone. Soffre di emiparesi: i club meno blasonati si muovono e producono nuove leve, quelli più ricchi dettano le leggi, sono immobili e producono animali da gossip.
Il succo del problema sta tutto nella dichiarazione di Fabrizio Miccoli. Di una squadra come il Palermo – tanto per fare un esempio – Lippi non sa nulla e, quel che è peggio, non vuole sapere nulla.
Perché?
Siamo alla materia economica.
Il Palermo ha giocatori giovani che hanno un valore che cresce sul mercato internazionale. Un’altra squadra a caso, la Juventus, ha giocatori decotti che dopo l’ultima stagione deludente, avevano bisogno di essere rivalutati.
E quale migliore occasione di un Mondiale? Dentro gli juventini e fuori i palermitani.
Ne avevamo parlato qualche tempo fa, ne aveva discusso l’Italia intera. Il metodo Lippi, ammantato da quel fascino evanescente che solo nel nostro Paese riescono ad avere – inspiegabilmente – le operazioni di cui è facile non capirci un tubo, consisteva nell’assemblare giocatori anziani e spacciarli per giocatori imbattibili. Errore gravissimo perché, soprattutto nello sport, l’età non è sempre sinonimo di qualità: pensateci, Gattuso non è un Barolo.
Quel teatrino di conferenze stampa fatte di spocchia, risolini, certezze ostentate come se fossero assi nella manica e frecciate ai detrattori, aveva già dato fastidio a chi, come il sottoscritto, riteneva la missione Mondiale una questione seria, come seria è qualsiasi competizione in cui una Nazione ci mette la sua faccia e il suo culo. Ecco, questa è la lezione che Lippi porta a casa oggi. Quando si ha il privilegio di rappresentare faccia e culo di un intero popolo bisogna evitare di confondere le due parti del corpo. Cioè di avere la prima come il secondo e, in fondo, esserne anche un po’ orgogliosi. Perché alla fine, quando ti hanno gonfiato la prima e imbottito il secondo, non basta chiedere scusa. No, serve un surplus di umiltà che da qualche parte deve essere stato accumulato e che per Marcello Lippi è qualcosa di lontano, anzi sconosciuto.

Forza Italia

Aggiornamento.

Fabrizio Miccoli: “Ditemi voi perché in questa squadra azzurra non ci sia nemmeno uno del Palermo. Sapete perché? Perché Lippi non è mai venuto a vederci, non è mai sceso a Palermo. Gli stranieri del Palermo fanno il mondiale, noi italiani del Palermo no, siamo arrivati quinti e siamo a casa mentre gli juventini sono in gruppo”.

La Rai e il pizzo

Pago il canone Rai. Non siamo in molti.
Seguo i Mondiali di calcio. Siamo in molti.
Domandina semplice semplice: perché devo avere dalla tv di Stato un servizio inefficiente che si è obbligati a pagare (basta avere un televisore), e invidiare chi ha un servizio perfetto da parte di una tv privata e magari non paga un bel niente alla Rai?
Il succo è questo: oggi io non conto nulla nelle scelte del palinsesto della Rai, di cui pure sono cliente con quel che ne consegue, ma se verso qualche centinaio di euro in più posso avere sul mio televisore tutto quello che vorrei e che non ho. Se ci pensate bene è il principio del pizzo: la normale sorveglianza costa quanto costano le tasse (le forze dell’ordine sono nel bilancio dello Stato), se vuoi di più devi sganciare.
Ora, non mi sogno di accostare Sky a un mercato illegale di servizi, però credo che questa Rai, inefficiente e clientelare, vada messa sul mercato. In modo che io possa scegliere tra le varie offerte senza dover essere obbligato a pagare un servizio scadente.
Insomma – tanto per fare un esempio – a me e a molti altri non ce ne frega niente di avere ogni pomeriggio Monica Setta che ostenta il suo banale davanzale a tot migliaio di euro a puntata, a noi interessa che la Rai (che paghiamo in anticipo e in moneta sonante) sia presente degnamente nei due o tre fondamentali appuntamenti di cronaca annuali.
E i Mondiali di calcio fino a prova contraria sono un evento di una certa importanza.

Giornalisti e rapporti plurimi

C’è una singolare crociata del Giornale di Sicilia per il rispetto del contratto di lavoro dei giornalisti, anzi per il rispetto di un articolo in particolare, il numero otto, che riguarda i cosiddetti “rapporti plurimi” (niente a che fare col sesso). L’articolo in questione recita nella sua parte finale:

… In ogni caso il giornalista non potrà assumere incarichi in contrasto con gli interessi morali e materiali dell’azienda alla quale appartiene.

E quali sono questi incarichi che arrivano a intaccare gli interessi morali e materiali dell’amorevole azienda mamma, mammella e chioccia? Si chiamano collaborazioni e rappresentano la principale (o spesso unica) forma di guadagno per centinaia di giovani giornalisti che non hanno un’assunzione.

Funziona così: siccome un articolo il GdS lo paga due, tre o quattro euro, il povero collaboratore si fa un mazzo così per arrivare a pubblicarne – quando è bravo e benvoluto – una decina ogni due settimane e per raggranellare i suoi ottanta euro mensili lordi. Va da sé che il medesimo collaboratore non campa d’aria ed è lecito che abbia lo stesso appetito di un caporedattore o di un direttore: deve mangiare pure lui, magari non le aragoste appena arrivate da Mazara, ma un piatto di pasta e un panino al giorno gli devono essere concessi. Diciamo che, se non esagera, se la cava con una spesa di centocinquanta euro al mese. Soldi che bastano – è bene ricordarlo –  soltanto per un panino e un piatto di pasta. Roba da “Boccone del povero”.

Gli euro pagati dal Giornale di Sicilia coprono appena il cinquanta per cento delle spese vitali.

Il collaboratore è quindi costretto a intensificare le sue collaborazioni. E mica può andarsele a cercare in giro per il mondo o nei grandi gruppi editoriali. Lui non è (ancora) una grande firma, deve farsi le ossa con le realtà locali.
Se è fortunato riesce a inserirsi in altre redazioni, di mensili e siti web, che lo pagano e gli consentono di raggiungere i famosi centocinquanta euro del minimo vitale.

Bene, sapete cosa fa il Giornale di Sicilia?

Diffida il collaboratore, in virtù del contratto di lavoro, a scegliere:  il GdS o il mensile,  ottanta miseri euro al mese o pussa via.
In tal modo il collaboratore si ritrova, come si dice, cornuto e bastonato: viene trattato come un giornalista assunto a tempo indeterminato pur non essendolo; gli viene caricato sul groppone un dovere che non corrisponde a un diritto che lo ripaghi adeguatamente.

L’enormità dell’ingiustizia è talmente palese che non servono sommi sindacalisti o giuslavoristi blasonati per dirimere la questione. Ci vogliono soltanto un Ordine dei giornalisti  e un’Associazione della stampa che capiscano che questa da oggi è la loro missione principale: tutelare i deboli, schierarsi in modo chiaro ed efficace, mettere in coda le beghe da cortile e agire su tutti i fronti. Su quello sindacale, su quello politico e su quello giudiziario.

Il contratto di lavoro non è stato scritto per affamare la gente, ma per evitare le ingiustizie.

Svestire gli ignudi

Palermo è sommersa dai rifiuti. E la giunta del famoso sindaco in contumacia che fa? Aumenta la Tarsu del 54 per cento, per risolvere i problemi del carrozzone Amia.
Salti di gioia da parte dell’opposizione che ha sventato un aumento del 75 per cento.
E’ come foste al ristorante, vi servissero in modo penoso piatti vomitevoli e alla fine vi presentassero un conto maggiorato per premiare cuochi e camerieri.

Cesa (io ricordo)

Certo, uno è tentato di accogliere con sorpresa la decisione del segretario dell’Udc di cacciare via un adepto in odor di droga: un atto così estremo in un partito così conservatore rischia persino di far piacere, se non altro per la novità. Se però poi si riacquista un minimo di memoria, l’entusiasmo si spegne. E tutto torna tragicamente a posto.

Cammarata mondiale

Pare che l’evanescente sindaco di Palermo sia in Sudafrica per assistere alle partite dei Mondiali. A nessuno si nega una vacanza, né la possibilità di uno svago. Ma Cammarata è ormai il catalizzatore delle pochezze di Palermo. Svogliato, superficiale, inefficiente, questo sindaco è l’immagine riflessa di una città che galleggia davanti a un orizzonte di eutanasia civile e che non ha la forza, o il coraggio, di buttare via l’ultimo respiro e calarsi giù, a fondo.
Diego Cammarata può ovviamente andare in Sudafrica, come alle Maldive o chissà dove senza che nessuno gli chieda conto e ragione. Il problema è che poi ritorna, allungando l’agonia di una città che rischia di estinguersi prima di lui. E questo non è bello.

Il dio dei calli


“Nella vita privata, uno può fare quello che vuole”.
“Tutti  gli altri, quelli della sinistra, non è che sono meglio”.
“Basta con i fatti personali che vengono spiattellati sui giornali”.
“Mi dà fiducia perché è un imprenditore capace”.
“E’ stato costretto a scendere in campo, sennò lo avrebbero massacrato”.

Questo è un minimo campionario di frasi ricorrenti che potete ascoltare quando vi trovate al cospetto di un berlusconiano convinto. Inutile entrare nel dettaglio dei modi con cui smontare ogni singola affermazione: sarebbe come stilare un manualetto in cui si spiega a un bambino che il fuoco brucia. Meglio lasciare che l’incauto tenda la mano verso il tizzone e che impari sulla propria pelle. Noi confidiamo nei nostri calli e nella Provvidenza.