Abbordaggio a mezzo stampa

Il sindaco di Roma, nonché annunciato tenutario del nascente Partito Democratico, abborda a mezzo stampa Veronica Lario. E lo fa con tutti gli inglesismi e i luoghi comuni di cui è capace un polistrumentista della politica. Uno dei pregi della signora Lario – si legge nell’intervista al settimanale A – è quello di essere “open minded”. Poi c’è persino la certificazione veltroniana di garanzia: Veronica è una donna “di grande autonomia intellettuale”.
Il sindaco omnidichiarante, in pratica, ci comunica due concetti dirompenti: primo, Veronica parla (e/o pensa) in inglese; secondo, Veronica, nonostante sia femmina e per giunta moglie di Berlusconi, ha un cervello tutto suo.
L’ultima mossa dello stratega diessino prevede insomma l’entrata in gioco di un cavallo di Troia, una trappola, un trucco, un agguato in casa del nemico. Pur di vincere la guerra, si usano tutte le armi, anche i coltelli da cucina. Pur di convincere il popolo urlante, si arruolano personaggi simbolici, paciose signore comprese. Pur di spegnere i tumulti, si riconoscono doti straordinarie a persone ordinarie, si danno patenti di femminilità a chi femmina ci è nata.
Mi fa venire i brividi l’idea di pareggiare i conti delle quote rosa con questi espedienti patinati. Specialmente se si entra in casa altrui e si lascia fuori il buon gusto.

Veleno

Otto del mattino. Squilla il telefono.
– Svegliaaa! Buongiorno! Indovina chi sono!
Ma vaffanculo!
– Non… dormivo. Non… chi sei?
– Dai! Eravamo come fratelli trent’anni fa.
Trent’anni fa… Chissà che cosa ti avrò combinato.
– Dimmi chi sei.
– Sono Piero. Piero del vespino blu, come il tuo.
Ah sì, ti fregai la sella. Altro che fratelli!
– Ah sì… Piero. Come stai?
– Benissimo. E tu? Scrivi sempre? Ti leggo, ti leggo…
Hai imparato poi.
– Mi fa piacere. Tu che fai?
– Sono promotore finanziario, ho due figli. Mi sono sposato sai? Una moglie, una cagna…
Che culo!
– Sono felice per te (sbadiglio).
– Insomma… una ex moglie. Ci siamo lasciati da un anno.
La cagna se n’è andata.
– Mi dispiace (sbadiglio).
– Ci dobbiamo vedere, Gery.
Non ci penso nemmeno.
– Certo. Allora ci sentiamo…
– Sì, ma ti volevo dire una cosa.
Ti manca un quadrupede.
– Ti manca tua moglie.
– No! La mia nuova fidanzata… lei scrive, insomma vuole scrivere, sa scrivere.
Sugli assegni?
– Giornalista?
– No, estetista. Ha una bella attività.
Parallela immagino.
– Complimenti! E io…?
– Tu potresti aiutarla coi giornali, i libri…
I freni del vespino ti dovevo fregare.
– Non è facile: ci vuole passione, sacrificio. Ci sono pochi sbocchi. Ho qualche casino anche io.
– Ma figurati, Geryssimo! Ti faccio contattare, dai.
Non ti rischiare.
– Ma non per telefono, fammi scrivere via e-mail…
– Ok, così vedi come scrive, fantastico!
Sì sì.
– Segnati l’indirizzo del mio blog, lì trovi come contattarmi.
– Grazie, sei un amico.
No.
– Ciao Piero.

Il tressette di Bossi

Nel bar che frequentavo da ragazzo c’era un anziano, quasi sempre ubriaco, che borbottava tutta la giornata. A sera si alzava e, prima di tornarsene a casa, lanciava un anatema alcolico a tema libero: politica, sport, gioventù, parenti, eccetera.
Ho ripensato a quel vecchio quando ho letto le parole di Bossi sulla “lotta di liberazione del Nord” e sui “dieci milioni di padani disposti al sacrificio”. Il leader del Carroccio è un nostro cliente affezionato nel settore “cannonate di stupidaggini”. Prima o poi qualcuno dei suoi alleati dovrebbe parlargli: “Caro Umberto, tu sei bravino. Però adesso smettila con Pontida, i parlamenti alternativi e soprattutto con i soldatini verdi. Il prossimo fine settimana andiamo assieme ai giardinetti e ci facciamo un tressette”.
Invece, più che consolarlo e curarlo come si fa con un pugile suonato, lo giustificano: “Usa parole colorite, ma ha un grande senso di responsabilità”.
Il cameriere del bar che frequentavo da giovane, dopo che l’anziano ubriacone si era alzato, ripuliva il tavolo, si faceva una risata e chiudeva bottega.
Oggi mi basterebbe una risata.

Birmania

In un posto lontano adesso ci sono monaci che combattono a mani in alto contro i fucili dei militari. La nonviolenza contro la protervia di un regime che considera pericolosi rivoluzionari i nonviolenti.
Di quel posto lontano abbiamo poche immagini perché persino il web è stato oscurato. Ai giornalisti lì si spara.
Oggi tutto il mondo si veste di rosso contro quel regime malvagio che va estirpato senza esitazione.

Modello americano

Si chiama pistola Taser ed è nota al grande pubblico italiano dalla scorsa settimana, da quando è stato diffuso il video di un giovane universitario della Florida “trattato” con questo metodo dalla polizia solo perché aveva rivolto qualche domanda scomoda al senatore democratico John Kerry. Pochi giorni dopo un altro video proposto dalla Cnn ci ha dato ulteriore dimostrazione dell’affidabilità di quest’arma: in questo caso una trentottenne è stata “trattata” da uno zelante agente dell’Hoio perché, dopo un alterco con un barista, non voleva farsi picchiare troppo volentieri dall’uomo in uniforme.
La pistola Taser è un’arma che lancia scariche elettriche ad alta tensione. E’ in dotazione alle forze di polizia americane dal Duemila ed è un marchio registrato dall’azienda omonima che, nel suo documentatissimo sito, spiega che il voltaggio non deve fare paura (50.000 volts) perché l’amperaggio (cioè l’intensità) è basso. Mi sarebbe utile il parere di un fisico.
Intanto leggo che, secondo Amnesty International, negli Usa solo nel 2007 si sono verificate 70 morti a causa della pistola elettrica. Per la Taser International Inc. ovviamente sono bugie. Il laboratorio di ricerca dell’Aviazione statunitense dice invece che, nei soggetti colpiti, si sono verificati casi di variazione del Ph sanguigno tali da provocare arresti cardiaci. La Taser International Inc. non si scompone: quelli dell’aviazione – che pure sono loro clienti – non capiscono un tubo di pistole.
Il battage pubblicitario messo su per il lancio di queste armi, disponibili in un’infinità di modelli, ha visto coinvolti molti personaggi dello star system hollywoodiano: tutti a farsi dare la scossa sul culetto, davanti alle telecamere, a gridare di dolore e a riprendersi prima possibile grazie all’anestetico del cachet.
Il sistema americano, che si inturgidisce se si parla di sicurezza tranne quando c’è da difendere vecchi amici di famiglia del Presidente, giustifica l’uso delle pistole Taser con la minore pericolosità rispetto alle armi tradizionali. Certo, le Beretta non sparano palline di pane, ma qualcuno dovrebbe pur riflettere sulla disinvoltura con la quale anonimi agenti sfogano la propria aggressività impugnando l’arnese da 50.000 volts e schiacciando il grilletto.
Giudicate dopo aver visto i filmati linkati sopra.

La lezione dei meetup

Avevo deciso di cercare un argomento diverso per il post di oggi, con fatica lo avevo anche trovato. Poi ho riletto i commenti al mio temino di ieri e ho capito che c’è ancora qualcosa che dobbiamo dirci. Il bello di un blog è la libertà assoluta di chi lo gestisce (io, nel mio piccolo) e di chi lo rende vivo (voi!). Allora proviamo a essere chiari, tanto siamo tutti maggiorenni e soprattutto resistenti agli incantatori.
L’onda populista che rischia di sommergere i partiti è più pericolosa della malapolitica che allaga il nostro Paese. E ciò non solo perché, come dice D’Alema, se spariscono i partiti arrivano i militari, ma perché, per parafrasare Napoletano, l’antipolitica è nemica di uno stato democratico. Ci sono due termini che, in questi giorni, puntellano la cronaca traballante di giornali e (alcune) tv: uno l’ho citato poco sopra ed è populismo, l’altro è qualunquismo. Il primo è riferito all’effetto, il secondo alla causa. Solo che il primo s’attaglia alla realtà, il secondo no. Se infatti il populismo è tragicamente palpabile nelle conferenze stampa, nelle chiacchiere da bar, nelle dichiarazioni pubbliche e nei dibattiti da tinello, il qualunquismo è lontano dal popolo dei meetup, vero motore della rivoluzione vaffanculista. Andatevi a rivedere la puntata di Primo Piano di due giorni fa e vi accorgerete che questa gente è impegnata da anni in lotte sociali e politiche, dal basso, con una sovrannaturale forza di volontà e soprattutto con o senza Grillo.
Come si possono bollare di qualunquismo persone così?
Ecco, di questa gente io mi fido. E’ questa la gente che voterei in qualsiasi lista civica. E’ questa la gente che conosce meglio di altri la realtà in cui vive e che meglio di altri può gestirla amministrativamente. E’ questa gente che può permettersi di prendere per un orecchio il premier Prodi quando spara che “la società non è migliore della sua classe politica”.
La classe politica deve essere migliore della società, per contratto, caro Presidente. Evidentemente lei ha le idee molto confuse o fa il birichino. Vada a scuola dai meetup di Napoli e stia dietro la lavagna per un po’.

La bugia del bacio

Uno dice una bugia. Un altro si accoda. Qualcuno cerca di opporsi. Ma la bugia è talmente forte e grande da creare un movimento d’opinione. C’è sempre quel qualcuno che cerca di arginarla. Ma è inutile. Dietro quella bugia c’è ormai un popolo, non di bugiardi, ma di “fedeli alla linea”. La linea di una bugia.
C’è stata una levata di scudi per il caso dei due giovani omosessuali sorpresi e denunciati a Roma perché – a detta loro – si baciavano in pubblico. Oggi si scopre che i due non si baciavano, ma si intrattenevano in un rapporto orale in piena regola. E lo facevano in strada. Sulla loro bugia sono state costruite manifestazioni, si sono consumate tonnellate di carta, sprecate ore e ore di trasmissioni televisive.
Io li prenderei a schiaffoni e se fossi il capo dell’Arcigay (oltre agli schiaffoni) li citerei per danni.

Liberi da Libero (parte seconda)

Da più di sei mesi cerco di liberarmi di un contratto con Libero Infostrada. Ho regolarmente inviato la disdetta per raccomandata con ricevuta di ritorno, ho regolarmente aspettato una risposta, ho regolarmente fatto la figura del pollo continuando a farmi succhiare i soldi dell’abbonamento che non voglio più, ho regolarmente consumato il mio fegato passando da un call center all’altro, ho regolarmente maledetto la cattiva educazione delle stressatissime signorine che cinguettano falsamente “buonaserasonosamathaincosapossoesserleutile” e poi ti sbattono il telefono in faccia.
Già ad aprile ci eravamo confrontati sulle inadempienze di Libero Infostrada. Mi spiace, l’avventura non è finita. Quello che più mi interessa adesso è riuscire a parlare con un responsabile di questa società, una persona in carne e ossa, con un nome e cognome, che occupi un livello aziendale che non dia alibi a risposte vacue o a rinvii. Come si faceva una volta: se uno acquistava un bene o un servizio che non rispondeva alle aspettative, tornava dal rivenditore e gli piantava un casino. Oggi il meglio che possa capitare a chi ha un problema del genere è ritrovarsi con le falangi aggrovigliate sulla tastiera del telefono alla ricerca dell’opzione idonea a trasformare una voce preregistrata in una centralinista svogliata.
La missione continua.

Chi legge i libri?

Perché in uno dei maggiori premi letterari italiani, con eccezionale appendice televisiva, si sceglie di far leggere brani di libri italiani a una persona che non conosce bene l’italiano? Al premio Campiello 2007, sabato sera, è andato in onda un curioso esempio di inconcludenza tricolore. Nel nome di un anelito all’apertura del nostro mercato letterario nei confronti di altre nazioni (la Spagna in questo caso), gli organizzatori hanno tirato fuori dal cilindro l’invenzione più geniale: far declamare alcuni brani dei romanzi finalisti a una incolpevole lettrice ispanica che non ne ha azzeccata una.
Il problema non è di carattere nazionalistico: non ce n’è mai fregato niente delle nostre radici, figuriamoci degli accenti. La questione, secondo me, è invece puramente logica.
In nessun altro Paese del mondo – ne sono convinto – scelgono di far rappresentare un prodotto tipico a uno straniero. Per rispetto dello straniero, innanzitutto. In un premio letterario poi la questione diventa cruciale. Siamo una nazione che legge pochissimo e che per giunta, nei rari spazi in cui la diffusione mediatica potrebbe essere un massaggio cardiaco al torace immobile dell’editoria, si affida a un forestiero.
Tornando alla domanda d’apertura. Perché ci comportiamo così?
Semplice. Perché siamo stupidi, guidati da stupidi che ci trattano come ci meritiamo. Da stupidi.

Nella foto, Mariolina Venezia, vincitrice del Campiello 2007 con “Mille anni che sto qui” (Einaudi).

In miniera!

I ministri della sinistra radicale minacciano di scendere in piazza il 20 ottobre nella manifestazione nazionale contro l’accordo sul welfare. Il ministro Mastella (nella foto è quello col microfono in mano!) minaccia che se ciò accadrà sarà crisi. Veltroni minaccia di essere d’accordo con Mastella. Marini minaccia il voto anticipato. Rifondazione minaccia di agire senza minacciare più.
Nel tormentone estivo della sinistra divisa, la minaccia di fare qualcosa è la pura realizzazione di un programma di governo. Nell’accozzaglia rissosa che per convenzione è stata chiamata maggioranza, fin dalla campagna elettorale si era purtroppo capito che l’avvertimento avrebbe sommerso per importanza il provvedimento. La politica del mandare a dire contro la politica del fare: questo è lo stato delle cose.
Molti di noi, sostenitori incoscienti di Prodi e compagnetti discoli, ritengono che lo spettacolo sia noioso e minacciano di dimettersi dal ruolo di spettatori paganti.
Ricordo un urlo dalla folla, al termine di una commedia penosa, qualche anno fa: “In miniera!”. Oggi basterebbe: “A lavorare!”. Che forse suona come un’offesa.