Nelle mani di un pilota arrapato

In questo periodo mi capita spesso di prendere l’aereo. Appena sono a bordo, il primo pensiero (ossessivo compulsivo, come sindrome mi impone) è rivolto ai piloti. Hanno riposato stanotte? A casa tutti bene? Pranzo e cena regolari? Sono abbastanza svegli? E via delirando.
Alle medie avevo un compagno di classe simpatico e pacioccone. Un tipo goffo che però, appena saliva in sella a un vespino, era capace di inventare le acrobazie più incredibili. Lo rividi ai primi degli anni Ottanta. L’occasione fu un reportage sui giovani che sceglievano un mestiere tra le nuvole. Lui era lì, in un piccolo aeroporto “tecnico”, a macinare brevetti su brevetti. Mi invitò a fare un giro su una di quelle trappole a elica che credo rientrino nella categoria degli aeroplani bimotori (non vorrei scrivere una corbelleria). Insomma un velivolo in cui io magro come un grissino torinese e lui sempre più pacioccone entravamo a stento.
Fu un’esperienza lisergica. Una serie di flash dove la terra stava al posto del cielo, il mare girava tutt’intorno, le montagne sparivano e riapparivano dietro la carlinga, il cuore batteva nelle caviglie e i capelli (allora lunghi e soprattutto presenti) penzolavano verso il tetto della cabina.
Non ho più rivisto quell’ex compagno di scuola, ma so che adesso lavora per un’importante compagnia aerea.
Ogni volta che salgo su un aereo sbircio in cabina di pilotaggio per vedere se c’è lui, pronto ad abbracciarlo, cazzeggiare quanto basta e chiedergli se ha riposato, se a casa stanno tutti bene, se ha pranzato e cenato regolarmente, se ha sonno…
Oggi ho visto questo filmato messo online dal Sun e ho rimpianto l’esperienza lisergica di cui sopra. Almeno il mio amico non staccava le mani dai comandi e soprattutto non pretendeva di girare filmetti spinti mentre cabrava verso un mare travestito da cielo.

Strano ma vero


Nino Strano, senatore di An, ha vissuto il suo momento di raffinata celebrità la scorsa settimana a Palazzo Madama quando ha urlato al traditore Cusumano il suo dissenso politico. Le argomentazioni scelte erano le seguenti: “Sei una merda”; “Sei una checca squallida”; “Cesso, sei un cesso”.
Nelle interviste del giorno dopo il senatore, tolti i minacciosi occhiali scuri e ripulitasi la bocca dal grasso di mortadella (ingoiata, ovviamente, in Senato al culmine della sua esemplare manifestazione di dissenso), si è affrettato a puntualizzare che del “checca squallida” andava valorizzato il senso dell’aggettivo e che lui adora le donne, il turpiloquio e le contraddizioni: “Con gli uomini mi fermo un attimo prima”, ha dichiarato riferendosi ai suoi gusti sessuali.
La caratura del personaggio – vero titano della politica più nobile – impone almeno quattro domande.
Primo: cosa ci fa in Alleanza Nazionale un caleidoscopio vivente come il senatore Strano?
Secondo: a quanto ammonta il suo cachet artistico?
Terzo: a quale commissariato hanno sporto denuncia i titolari del circo dal quale è fuggito?
Quarto: c’è una ricompensa per chi lo restituisce?

Il breve filmato è di Clarus Bartel

Un monumento agli anni Settanta

Un po’ di fatti miei.
Sto scrivendo una storia ambientata negli anni Settanta (almeno in parte). Ho raccolto foto, letto giornali e riviste dell’epoca, consultato archivi telematici, scartabellato tra i ricordi. Fine dei fatti miei.
Un po’ di fatti vostri o nostri.
Ho visto Ballarò, ieri sera, proprio perché la trasmissione era dedicata agli anni Settanta e si occupava dell’angolazione che mi interessa: quella sbagliata.
Gli anni Settanta sono stati l’epoca di una violenza legittimata, quasi giustificata. L’idea romantica di un decennio di grandi rivalse, di teste rialzate, di riscossa italica mi fa, oggi, schifo. Gli anni Settanta, nel nostro Paese, sono un libro riscritto con grafia incerta, giorno dopo giorno. Parole, pallottole, neri, rossi, carnefici, vittime, giustizia, rivoluzione: parole sovrapposte, pasticciate, senza storia.
La storia è il senso del tempo. E il tempo ha regalato la libertà a molti assassini di quegli anni: il killer di Walter Tobagi ha fatto solo due anni di carcere, lo sapevate? Ve lo hanno raccontato?
Ma il tempo può regalare molto di più. Sergio D’Elia era un terrorista di Prima Linea. E’ stato condannato per banda armata e concorso in omicidio. Su venticinque anni ne ha scontati dodici. Nel 2006 è stato eletto deputato alla Camera nelle fila della Rosa nel Pugno, è stato nominato segretario alla Presidenza della Camera e fa parte della III Commissione, Affari esteri e comunitari, e del Comitato di vigilanza sulle attività di documentazione.
Ci indigniamo per i cinque anni in primo grado a Cuffaro, nell’anno di grazia 2008. Cuffaro non ha tirato bombe, non ha ucciso nessuno, non ha tentato l’evasione dal carcere di Firenze (come D’Elia), non si è riciclato come intellettuale, non si è ripulito le mani sporche di sangue sulla camicia inamidata. Cuffaro è un discutibile politico dei giorni nostri. Ma lo è certamente meno di D’Elia. Eppure fa più notizia. Il Signore mi fulmini se voglio difendere il governatore della Sicilia (col videoclip che gli ho regalato…).
Quello che voglio dire è che siamo tutti figli dei fatti. Ma l’amnesia ha un grembo ancora più capiente.
Gli anni Settanta nel mondo hanno portato i Pink Floyd come la discomusic, i libri di Stephen King come quelli di Henri Charriere, i film di Martin Scorsese come quelli di Stanley Kubrick, la rivoluzione tecnologica (compact disc e walkman) come il nudismo. In Italia nulla o poco più di nulla.
Facciamo un monumento nel nostro Paese a quegli anni, facciamolo brutto, un monolito grezzo e oscuro. E cominciamo a studiare almeno la storia più recente.

Cannoli, per festeggiare

Va bene, quella di Cuffaro è una condanna di primo grado. Va bene, c’è la presunzione di innocenza. Va bene, c’è in giro un qualunquismo da brividi. Va bene, la frase malcitata del Gattopardo viene tirata fuori sempre a sproposito. Va bene, ho guardato vari blog e ci ho trovato il solito “armiamoci e partite” sconfortante. Va bene, però basta adesso.
Facciamo una moratoria della lamentela a basso costo e aspettiamo fino alle prossime elezioni, come semplicemente suggeriva Giacomo Cacciatore ieri.
Dato che carta e penna costano poco, però, annotiamo qualcosa.
1) Tra un presidente assolto per mafia e un presidente assolto e basta c’è differenza (citazione dall’intervista di Elisabetta Margonari per il Tg3).
2) Il festeggiare con cannoli si addice, in Sicilia, a uno sposalizio o a un annuncio di lieto evento, non a una condanna a 5 anni con interdizione perpetua dai pubblici uffici.
3) La piazza, dalla Cina a Milano nel ’45, dal g8 di Genova a San Pietro in Roma, risolve poco se non altro perché le stime dei partecipanti le fa la questura e non un istituto di rilevamento scientifico.
4) La confusione del “facciamo qualcosa” cozza con l’indolenza del “chi la fa per primo?”.
5) La coscienza non è più un primo motore immobile, ma un elemento di una massima andreottiama: “…come una camicia, per mantenerla pulita basta non usarla”.

Da domani culi e tette.

Ancora su Sofri

Vi chiedo scusa, ma almeno per un giorno devo tornare sul caso Sofri. Alcune e-mail e post ricevuti mi impongono una precisazione.
Partiamo da un principio. Messi di fronte, Luigi Calabresi e Adriano Sofri non hanno lo stesso peso, non possono averlo: perché il primo è terra, il secondo è carne.
Per quanto riguarda Sofri, il mio amico Davide Camarrone mi rimprovera di piegare il mio giudizio alla “formalità di una condanna” molto controversa. Ho già detto che la vicenda è complicatissima, e ne ho piena contezza. Però credo che banalmente ci si debba piegare, a un certo punto, a una verità giudiziaria: altrimenti si va incontro alla destabilizzazione dei ruoli.
E’ un mio problema. E mi spiego: se io non riconoscessi la colpevolezza di Sofri – che è scritta in una sentenza che può apparire a molti detestabile – negherei l’esistenza di un giudizio terreno. E ciò si ripercuoterebbe in ogni ambito in cui sono chiamato a rispettare una regola. Perché non riconoscerei più una fine, un punto di arrivo. Sofri per la legge italiana è colpevole, pur essendo un intellettuale, pur professando la sua innocenza, pur affrontando la pena con dignità. Se lo Stato, l’istituzione somma, deciderà di alleggerire il suo fardello mi inchinerò alla decisione.
Il commissario Luigi Calabresi è stato scagionato post mortem da ogni responsabilità per la tragica fine dell’anarchico Pinelli: si è accertato che lui non era neanche in quella sua stanza quando quel povero ragazzo volò dalla finestra. Si continua – anche sui muri delle città, nei cortei, nelle discussioni da sedicenti post-sessantottini – a sommare i cognomi: Calabresi + Pinelli= giustificata vendetta.
Certi editoriali di Lotta Continua sono stati, come metafora di una violenza senza nessuna ragione storica, una vergogna di questo paese. Il revisionismo degli anni Settanta – e mi scuso per il linguaggio – è un grappolo di emorroidi in un deretano sfondato di menzogne travestite da rivoluzioni.
E’ possibile che Sofri sia una vittima innocente di un sonno della giustizia che partorisce mostri.
E’ certo che il commissario Calabresi e gli altri che hanno fatto la sua stessa fine (professori universitari, giornalisti, operai, sindacalisti, carabinieri, poliziotti…) sono vittime innocenti del sonno di una ragione malata.

Dietrofront su Sofri

Due giorni fa ho scritto in favore di Adriano Sofri.
Poi ho visto Sofri in tv.
E, nel contempo, ho letto “Spingendo la notte più in là” di Mario Calabresi: tutto in un pomeriggio, grazie a un prezioso suggerimento.
Mi sono preso un giorno per pensare, per digerire certe frasi, per commuovermi – lo confesso – e per cambiare radicalmente idea.
Il libro di Calabresi è un’altra visione del mondo, il lato buio della luna. E’ una rassegna di immagini senza intervallo. E’ una visione parziale, ma dolorosamente attendibile, di un sistema di privazioni vitali inaudito. La concatenazione dei fatti supera ogni barriera ideologica, si fa misura di quell’inganno chiamato uguaglianza, umanità, solidarietà. Se è giusto credere nelle sentenze di una giustizia terrena che amministra le nostre sorti, è giusto farlo per il commissario Calabresi come per Sofri. Uno assolto, l’altro condannato. Punto.
Andatevi a leggere le storie e le sentenze, ne parliamo quando volete.
L’intervista di Sofri è stata un conglomerato di umanità non confessate e tremendamente paludate. Sofri ha parlato di: vita, morte, futuro, generazioni, periferia della spazzatura, ombre, trionfo del buio sulla luce. Ha corretto il Papa e persino Fabio Fazio che lo ospitava. Ha sibillinamente attestato che “noi umani combiniamo guai quando abbiamo buonissime intenzioni e pretendiamo di tradurle in pratica”. Che – sempre noi umani – “quando compiamo un’azione non sappiamo dove va a finire”. Ha fatto un elogio dei galeotti, come se fossero la migliore parte del Paese. Ha più volte parlato di Gesù, lui che sembra illuminato. Ha detto, rimbalzando da una provocazione (autogestita) all’altra, che “diventare direttori di giornali non è una cosa straordinaria”.
Ordinare un omicidio?
Trovarsi a convivere su un pianeta con vittime di un’ideologia assassina di cui si è stati artefici?
Scrivere nero su bianco che – è testo di “Lotta continua”- Calabresi “dovrà rispondere di tutto. Gli siamo alle costole, ormai, è inutile che si dibatta come un bufalo inferocito… Il proletariato ha emesso la sua sentenza: Calabresi è responsabile dell’assassinio di Pinelli e dovrà pagarla cara…”?
Sono scelte tutelate dall’articolo 21 della Costituzione?
C’è una moratoria culturale che fugge alle leggi degli umani ordinari?
Ci sono sentimenti che lauree e specializzazioni aboliscono ontologicamente?
Nessuno ha chiesto a Sofri, né lui si è guardato bene di spendere una parola a proposito, del crimine di cui è accusato e per cui è condannato in sede definitiva, seppur dopo un iter giudiziario travagliato.
Ritenevo Adriano Sofri un intellettuale puro, me lo sono ritrovato davanti come un furbetto che impartisce lezioni sulla vita e sul senso che ne avanza, scremate convenienze e consigli per gli acquisti (il libro per Sellerio).
Scusate, ma la morale, odiosa per quanto sia, mi viene facile adesso: se devo scegliere un maestro, non me lo prendo pregiudicato per omicidio.

Perdono benefico

Leggo la summa di diversi studi scientifici secondo i quali il perdono fa bene alla salute. Addirittura arrivare ad augurarsi il bene di chi ci ha fatto soffrire avrebbe effetti miracolosi su pressione, depressione e sarebbe un vero toccasana per tutto l’organismo. Soprattutto per chi se l’è fatta franca scampando a una meritata vendetta.

Palermo, la mia città

Sono palermitano, nato e cresciuto a Palermo (con una lontanissima parentesi padovana) da genitori palermitani. Ho un legame forte con la mia città, non l’ho lasciata e non la lascio nonostante al nord abbia più di un interesse (lavorativo, culturale, persino sportivo…). Sono palermitano, ma non considero Palermo il fulcro del mio mondo né un crogiuolo di debolezze da esaltare. Va bene la salvaguardia dell’identità, ma farne una bandiera – specie se i colori non sono altro che chiazze di unto e spruzzi di ignoranza –, quello no.
C’è, da qualche anno, una tendenza all’esaltazione del palermitanismo, del palermitanesimo, della palermitanitudine, intesi come sublimazione dei luoghi comuni, che non mi piace affatto. Parliamoci chiaro: l’elogio della panella (tipico cibo palermitano), la glorificazione del vicolo come specchio della realtà, l’amalgama di rutti e peti, l’uso del dialetto come slang di moda, mi hanno rotto le scatole. Eppure io mangio le panelle, adoro certi vicoli, parlo in dialetto e… tralascio il resto.
Palermo, come qualunque altra città con una fortissima identità storica, culturale e sociale, non può essere solo il suo passato (peraltro non troppo glorioso). E’ anche altro: cambiamento, multirazzialità, innovazione, trasversalità, contaminazione. Eppure sfoglio libri (che si vendono!) pieni di cumpà, comu si’?, chiddici?, bbuoano, e si affrettano verso una conclusione più che scontata. Leggo blog con opinionisti che fanno del pani ca mieusa un tema da sviluppare a puntate. Assisto a trasmissioni televisive che, pur di fare l’elogio di un provincialismo retrò e popolare, schierano ospiti che non conoscono i congiuntivi, ma che si professano sacerdoti della saggezza antica, quella del vicolo naturalmente.
A Palermo, la mia città, non c’è discorso più impopolare di questo. Puoi schierarti con la destra o con la sinistra, puoi pagare il pizzo o no, puoi rimpiangere la vecchia antimafia o celebrare il nuovo corso. Se tocchi la panella, i suoi profeti, il cumpà comu si’ o l’elogio del rutto, sei bell’e ammazzato. Con proiettili di crocché.

I lottizzati

C’è qualcosa di divertente nella concatenazione logica che spinge Berlusconi a dichiarare che “in Rai lavora solo chi si prostituisce oppure è di sinistra”. Conosco molte persone che lavorano nell’azienda televisiva di stato e poche sono di sinistra. Sui costumi sessuali di costoro non sono informato, tranne qualche pettegolezzo che colpisce (credo ingiustamente) colleghe – guarda un po’ – destrorse. La lottizzazione, come si sa, è un’architettura che poggia sull’intero arco costituzionale: l’ultimo elenco attendibile di assunti con targa politica lo pubblicò, molti anni fa, il Giornale di Indro Montanelli. C’erano tutti, il Psi, la Dc, il Pci, persino i liberali: ricordo ancora molti nomi di illustri colleghi giornalisti inclusi in quegli elenchi, mai smentiti, che oggi sventolano le bandiere del sindacato e starnutiscono indignazioni contro l’invadenza dei partiti nel campo dell’informazione.
Berlusconi non dice una fesseria, nel senso che se non fosse un pugile suonato avrebbe potuto evitare i riferimenti atavici ai “rossi” e alle puttane. La frase più corretta sarebbe stata: “In Rai lavora prevalentemente chi decide di farsi scopare dal capostruttura di turno oppure chi ha uno sponsor politico”. Però chi dice una cosa del genere subito dopo aver raccomandato un’attricetta al responsabile di Rai Fiction è come minimo un incosciente. O tutt’al più una fesseria ambulante.
Sì, c’è qualcosa di divertente nella concatenazione logica che spinge il Cavaliere a fare questa dichiarazione. Ma improvvisamente mi sfugge.

Libri chiusi, bocche aperte

Si leggono meno libri in Italia. Secondo i dati diffusi dall’Istat, 43 connazionali su 100 hanno letto almeno un libro (UNO!) in tutto il 2007. In un anno si sono persi quasi 400 mila lettori, 33 mila al mese. Dati aridi, si dirà. Effettivamente l’analisi di queste cifre (andate al capitolo 8 se avete coraggio) è complessa.
Chi infatti legge, legge ancora più: cresce la lettura “forte” (più di 12 libri all’anno), passando dal 12,9% al 13,3%. Chi leggeva poco invece (da 1 a 3 libri) ha letto ancora meno. Leggono molto di più le donne e primeggia il nord, ultimo il sud. A parte invocare leggi a sostegno del settore, come fanno gli editori, ci vorrebbe una rivoluzione domestica. Via i televisori dalle camere da letto, innanzi tutto. Inoltre la sera, invece di perdersi in chiacchiere sterili con amici e familiari, si potrebbe provare a raccontare storie, a leggere brani. Gli stessi addetti ai lavori (critici, scrittori) potrebbero evitare di rompersi e rompere le palle in pretestuose teorie puriste: scrivere, leggere, diffondere, questo è il loro mestiere. Mi sono stufato di partecipare a dibattiti in cui si inventano scuole di pensiero per poi demolirle con un soffio di parole. Da anni in Italia ci si interroga sulla sorte del “romanzo sociale”, con un appiattimento fantozziano davanti ai bestselleristi. Che noia!
Se uno scrive una cazzata di 160 pagine e ha la fortuna di finire nelle grazie del super recensore di turno vende ed è osannato, altrimenti finisce nel fango. Più delle storie valgono i temi, più della lingua vale la corrente delle emergenze. Oggi un pamphlet sulla prima organizzazione criminale che prolifera all’angolo sotto casa si riverbera su ogni quotidiano, mentre la narrativa pura (nel senso di invenzione, spremuta di fantasia) è quasi tutta affidata ad autori che hanno residenza all’estero.
Se si legge poco, insomma, la colpa non è dei lettori.

P.S.

Data la scarsa popolarità dell’argomento sono costretto a introdurre alcune parole chiave posticce in questo post, in modo da attirare qualche lettore in più: sesso, porno, culi nudi… Ah, dimenticavo: SODOMIA PENSIONATI!