Schettino e il naufragio dell’informazione

Il caso della gaffe di Televideo su “Io capitano” associato alla storia di Schettino e del naufragio della Concordia rimanda a due considerazioni, che vi porgo in modo spero agile (perché il discorso potrebbe essere complesso).

La prima riguarda il disagio dei giornalisti come categoria in un Paese (verrebbe da dire in un mondo, ma restiamo circoscritti) che legge sempre meno e che, soprattutto, è sempre meno interessato alla qualità della lettura. E lettori pessimi si accontentano di giornali pessimi. Lo dimostra il fatto che esistono ottimi prodotti editoriali che nessuno compra, perché si preferisce la spazzatura gratuita dei social o di bassa lega.
Le redazioni sono svuotate per motivi economici, il lavoro che veniva fatto da dieci persone è oggi fatto da due, il che alimenta l’offerta di informazione scadente. In più ci si mette l’uso folle dell’intelligenza artificiale, che pare aver un ruolo nell’incidente di Televideo.

La seconda considerazione è figlia della prima. Nei giornali che vogliono essere troppo nuovi le decisioni editoriali sono guidate da statistiche che, analizzando ciò che genera più traffico, decretano la morte dell’idea originale, del guizzo, della bracciata controcorrente. In un loop paradossale (di cui stiamo già pagando le conseguenze) gli algoritmi non riflettono solo le tendenze, ma addirittura le creano incrementando la popolarità di temi già popolari e determinando una polarizzazione dei lettori che non riflette gli equilibri reali. Insomma – come scrissi qui qualche tempo fa – se a nessuno viene mai spiegato che la musica elettronica o l’architettura postmoderna sono argomenti importanti, è molto difficile che qualcuno li tratti come tali.
La verità è una sola: il ruolo del giornale come arbitro si sta perdendo. Se i dati dicono che gli argomenti provinciali sono i più rilevanti, anche il giornale diventerà provinciale. Morale storta: cercando di essere più grandi, si rischia di diventare più piccoli.
Il bello, o meglio il brutto, è che colpevolmente quasi nessuno nelle aziende editoriali italiane (e non) è mai stato colpito dall’idea che bisogna cambiare radicalmente il modo di lavorare, di scegliere le notizie, persino di reclutare giornalisti. Ma questo è un problema di conoscenza e di coraggio. E il coraggio viene dopo.

Come Keith Jarret

Ieri.
In una sera d’estate di quasi trentasei anni fa Keith Jarrett aveva cominciato a suonare (male) al Teatro di Verdura di Palermo quando uno spettatore lo fischiò. Il famoso pianista mollò tutto e minacciò di far saltare l’esibizione. Lo spettatore fu identificato e additato come un molestatore di arte pubblica. Mentre rischiava di essere ammanettato disse: “Amo troppo Jarret per sentirlo suonare così male”. Difesi pubblicamente quello spettatore, lui e il suo diritto di protesta. Perché non c’è contratto di consenso tra un artista e il pubblico pagante e perché, secondo me, nel merito aveva ragione.

Oggi.
Rientravo a piedi da una serata tra amici (fantastici, perché tutti loro rincasano allegramente a piedi come me e alla fine l’unico inquinamento prodotto da una simile adunata è quello acustico, per certe risate al di sopra di un’eventuale ordinanza). Lungo il tragitto ho incontrato un posto di blocco della polizia, in una zona dove spesso si posizionano le pattuglie per controlli.
Qualcosa ha attirato la mia attenzione. Ed era qualcosa di recondito.
La pattuglia aveva fermato una ragazza.

Reset.
Quante volte ho visto ragazze fermate a un posto di blocco?

Mi sono fermato, nel buio del marciapiede tipo maniaco dei giardinetti, senza l’impermeabile che cela nudità però.
E ho capito cosa c’era di recondito in questa mia esperienza.
Negli anni ho visto troppe ragazze e signore fermate ai posti di blocco. Infatti solo ieri sera, nel giro di pochi minuti, un’altra auto è stata fermata. E chi c’era alla guida?
Ora, io capisco che ci sono i controlli a campione, ma ‘sto campione lo vogliamo verificare, benedetto dio?

Non sono uno che sbava per certi estremismi moderni, per cui se non chiami avvocata un avvocato donna ti devono venire a prendere i carabinieri (anzi le carabiniere). Sono uno che se pensa alla schwa nella lingua italiana gli passa la fame di scrivere (che non è detto che sia un male per l’umanità, ma per me sicuramente lo è). Sono anche uno al quale piace la magia della contrapposizione maschio femmina, con le sue derivazioni maschio maschio, femmina femmina o quel che è, ognuno per i suoi gusti. Perché è fecondità mentale, curiosità, gioia, vita.
Però quest’immagine serenamente tollerata di posti di blocco pieni di femmine presunte sospette controllate da maschi presunti integerrimi, mi insospettisce.
Anzi, da cittadino dico che non mi piace affatto.

Sarebbe bene dare una sbirciatina a campione negli elenchi delle persone controllate ogni sera nelle nostre città, sempre che questi passaggi di “favorisca i documenti” siano documentati. Perché le nostre forze dell’ordine sono garanti, da me ammirate, di forza gentile, e di ordine indiscusso anche se talvolta la mia fede vacilla. Fugare un sospetto quando si parla di cose così delicate è un sollievo o un miraggio, a seconda del gradi di ottimismo. Comunque fa bene a quell’anima comune e desueta che un tempo chiamavamo società.
Insomma come allora al Teatro di Verdura, oggi scrivo da fan e difendo chi fischia se sul palco si stecca.
Amo troppo le nostre forze dell’ordine per vederle cadere in fallo.
Le amo come Keith Jarrett.

Angeli, demoni e manganelli

Nel caso delle manganellate agli studenti di Pisa e Firenze (ma anche negli altri, perché i manganelli rompono ossa in ogni tempo) oltre agli errori innegabili di chi ha picchiato ragazzi inermi, di chi ha stabilito le regole di ingaggio, di chi ha comandato la carica, di chi la difende e di chi la ispira, ci sono alcuni passaggi chiave per capire che se persino Mattarella si è incazzato la situazione è davvero grave.
Il problema infatti non è il singolo evento, che non è singolo, ma l’ambito. Che poi influenza i modi.

L’ermeneutica del diritto a manifestare ve la liquido in poche righe, giacché il tema è talmente inscalfibile e ampiamente spalmato sulle cronache da stimarlo come assodato (almeno tra noi). È giusto tutelare il diritto di dissenso, ma è anche giusto attenersi alle regole che garantiscono questo diritto: ergo se manifesto per la foca mancina non devo rompere le vetrine dei fochisti destrorsi, non devo uscire dal tracciato concordato con chi tutela l’ordine pubblico, e magari non devo inventare che la foca mancina è vegetariana quando invece quattro pescioni se li mangia.

Il mondo in cui si muovono i giovani oggi è molto diverso da quello in cui ci muovevamo noi, quando comunque le violenze dei poliziotti esistevano già da tempo (i cortei operai degli anni Cinquanta e Sessanta non erano passeggiate turistiche). Oggi i ragazzi vagano in una rarefazione sociale polarizzata in modo grottesco. Pensate alla vecchia distinzione tra destra e sinistra e guardate come appare oggi desueta.
I ragazzi di questi cortei non sono in bilico tra fascismo e comunismo, ma tra guerra e pace, tra il divanismo e l’attivismo, tra l’informazione e le fake news, tra professori illuminati e professori cialtroni, tra chi li gasa di videoclip e chi li rincoglionisce di stories, tra esserci e selfarsi, tra ragione e microchip, tra verità e passaparola.
Di fronte hanno uno Stato che è sempre meno sensibile alle oscillazioni del sentire comune, sempre più blindato nella sua intransigenza gretta e retrograda.
È fin troppo scontato che quando queste due entità vengono a contatto, detonano.
Anche perché dall’altro lato, in quello che un tempo era il palazzo del potere e che oggi è il potere del palazzo, vige l’egemonia della cazzata al servizio della prepotenza e dell’incultura.
Dire, come è stato detto, che si sta sempre e comunque dalla parte delle forze dell’ordine perché rischiano la vita per pochi euro al mese equivale a difendere chiunque guadagni poco e rischi molto a prescindere dalle minchiate che combina: insomma un operaio che sbaglia con la ruspa e abbatte una palazzina pretende che si stia con lui sempre e comunque. Per non dire dell’incommentabile Salvini che si tira fuori dal cilindro frasi decontestualizzate come questa.

Dopo le inaudite violenze del G8 di Genova si cambiarono le regole per evitare al massimo il contatto tra manifestanti e forze dell’ordine proprio per arginare gli abusi e per limitare la violenza di impeto. Oggi la sensazione è che l’impeto sia instillato da chi crede che la violenza sia l’unico modo di guidare una Nazione. È un concetto che ha avuto una sua evoluzione nel ventennio Berlusconiano dove però lì il pifferaio magico faceva ampio uso di fascinazione: insomma c’era della delicatezza nella brutalità dei temi e delle azioni.
Oggi no.

Diciamolo con chiarezza. Nessuna persona di buona creanza può tollerare che si inneggi ad Hamas, una banda di terroristi crudeli, o che si bruci il manichino che raffigura la premier. Siamo al famoso vegetarianesimo della foca mancina di cui sopra: bisogna aver cura di manifestare per una verità, non per una menzogna, anche se si è minorenni. Ed è bene che ovunque si spieghi, senza risparmiarsi, che Hamas è una cosa, il regime di Netanyahu è un’altra, la Palestina un’altra, Israele un’altra ancora.
Leggo appelli di insegnanti in difesa della libertà e della tolleranza. Il problema è che una buona parte rischiano di essere catene di Sant’Antonio al collo incipriato dei social.
La realtà è cruda e inequivoca.
Serve cultura. Serve informazione. Servono libri e dipinti. Servono cantori e scienziati, filosofi e storici. E servono menti da nutrire.

Il mondo migliore lo ha costruito l’arte ed è quello senza polarizzazioni, ma con sfumature, chiaroscuri, infinite scale di grigi. È dall’arte che abbiamo imparato la saggezza di un paradosso cruciale contro tutti gli squadrismi, i totalitarismi, i fascismi: esistono angeli all’inferno e diavoli in paradiso.

Colpi di spugna e colpi di teatro

Le sentenze, anche quelle della Suprema Corte, si devono rispettare ma si possono criticare”. La frase, con sicurezza lapidaria, la scrive il magistrato Nino Di Matteo nel suo ultimo libro che ha un titolo spoiler, “Il colpo di spugna. Trattativa Stato-mafia: il processo che non si doveva fare”. Se mai si cercassero frasi dipinte su un personaggio, o in questo caso sull’autore (che comunque è anche personaggio), che meglio ne rispecchiano le caratteristiche, di migliori e più calzanti non se potrebbero trovare.
Quindi le sentenze si possono criticare, persino quelle della Cassazione, ce lo dice Di Matteo, tutto a posto. Postilla: magari sono criticabili solo quando non rispecchiano le nostre aspettative fermo restando la nostra facoltà, negli altri casi, di impugnare la spada in difesa della magistratura e soprattutto del suo verbo fatto sentenza.

Nino Di Matteo è un coraggioso magistrato da anni nel mirino delle cosche mafiose. Ma nei suoi confronti si è sviluppato un paradosso tutto italiano. Quello del dibattito abortito per timore reverenziale. I pochi che si azzardano a criticarlo o a cercare di porre domande sul suo umano operato – sul resto vige l’impalpabilità di una sorta di divinità – vengono marchiati a fuoco che manco i vitelli di Yellowstone (la serie): solo che lì è senso di proprietà, qui è senso di infamia.
Insomma Di Matteo può dire quello che vuole perché è coraggioso (che è vero) e sotto scorta (che è vero). E chi osa non essere d’accordo con lui non è uno che dissente normalmente come accade col restante della popolazione mondiale (che è vero), ma uno che delegittima.
Ci ha provato più volte, in un’aula di giustizia, l’avvocato della famiglia Borsellino, Fabio Trizzino, a cercare di mettere in fila le responsabilità di Di Matteo nella gestione del pentito farlocco Scarantino. Il magistrato, insieme con tutti i suoi colleghi di allora, non è stato ritenuto responsabile dell’indecente depistaggio della strage di via D’Amelio. Anzi, lui e tutti gli altri, hanno riscosso promozioni e si sono mossi agevolmente nel sotto vuoto spinto del clima di distrazione collettiva che ha caratterizzato le indagini sull’eccidio e sulla sistematica deviazione dell’inchiesta.

Disse Trizzino: “Il Pm Di Matteo nel 2009 fece una dichiarazione sul collaboratore di giustizia Spatuzza (colui il quale svelo l’impostura di Scarantino, nda) senza alcuna competenza. L’elemento incredibile è che Di Matteo, quell’anno, da pm di Palermo, non aveva alcuna competenza per entrare nei processi Borsellino uno e Borsellino bis, a meno che non temesse qualcosa che potesse compromettere la sua carriera professionale. Bisogna avere il coraggio di dirle queste cose”.

Purtroppo il coraggio non basta. Perché ancora oggi, a distanza di 32 anni dalle stragi, pare che a nessuno importi nulla di quelle menzogne. Menzogne di Stato.
Il cortocircuito non è solo giudiziario, ma mediatico e sociale. La stessa libertà con cui un magistrato critica una sentenza di Cassazione non ha la stessa eco dell’indignazione dei cittadini che reputano scandaloso che nessun magistrato – anzi nessuno in assoluto – abbia mai pagato per lo scempio della verità sulla strage di via D’Amelio. Avete mai visto una manifestazione, un flash mob per stigmatizzare espressamente quel che combinarono la procura di Tinebra e i poliziotti di La Barbera?

Il massimalismo antimafia di cui l’antimafia sta morendo per asfissia ci ha insegnato che, ad esempio, lo stesso movimento delle “Agende Rosse” che ha contestato pubblicamente il sindaco di Palermo Roberto Lagalla per l’appoggio di Cuffaro e Dell’Utri nel corso della campagna elettorale, non ha avuto nulla da dire sulle accuse di Trizzino a Di Matteo. Anche qui non uno slogan, non un corteo sullo specifico: eppure l’agenda rossa da cui prende il nome quel gruppo di cittadini (sul cui impegno tanto di cappello) è proprio al centro del cratere lasciato dal depistaggio in cui i magistrati della procura di Caltanissetta hanno brillato quantomeno per inadeguatezza.
Al contrario, dalle Agende Rosse solidarietà sempre e comunque – che ci sta perché comunque Di Matteo non è che viva spensierato a Disneyland, oddio sindrome da timore reverenziale in agguato –  e addirittura una proposta di cittadinanza onoraria, lassù al Nord.
Il massimalismo è una scelta poco conveniente, perché a forza di spingere sull’acceleratore ci si dimentica dell’utilità dei freni. È lecito contestare chiunque, dicevamo, ma è lecito anche chiedere una lettura uniforme dei fatti.
Se uno manifesta per la scomparsa dell’Agenda Rossa di Paolo Borsellino e poi si dimentica di chi per anni si è fatto intortare di minchiate dal “pentito” meno attendibile dell’universo mondo, qualche problema c’è.
E dobbiamo smetterla di considerare che il problema è chi dice che c’è un problema.

Ho visto (Palermo)

Ho visto una città bella, persino contenta di esserlo.
Ho visto una città in ginocchio, persino contenta di esserlo.
Ho visto ginocchia talmente consumate da sembrare zerbini.
Ho visto un laico fare quel che i preti si guardano bene dal fare.
Ho visto un prete che sorrise ai suoi assassini.
Ho visto magistrati depistare, farla franca ed essere promossi. Tutti.
Ho visto un bambino prigioniero.
Ho visto  il mare liberato.
Ho visto un sindaco parlare tre lingue con gente che manco ne parlava una.
Ho visto infinite nuche quando cercavo sguardi.
Ho visto un direttore di teatro che metteva in scena solo cose sue.
Ho visto un regista illuminato che si è inventato un fotoromanzo per spiegare una cosa difficile.
Ho visto un candidato alle Politiche spernacchiare, urlare e minacciare ed essere eletto come speranza della Sicilia.
Ho visto bare impilate da anni.
Ho visto giornalisti inventare in modo incivile ed essere premiati per il loro impegno civile.
Ho visto sollevatori di targhe a scrocco.
Ho visto intellettuali lodare il potere quando la strada era in discesa.
Ho visto amici smemorati e nemici con memoria ferrea confondersi tra loro.
Ho visto albe che sembravano tramonti e non avevo sonno.
Ho visto un tetraplegico che era sempre più avanti di me.
Ho visto lettori morire di noia.
Ho visto spettatori marcire nel pregiudizio.
Ho visto un teatro rinascere.
Ho visto vittime di mafia vittime del protagonismo.
Ho visto uomini e donne sole forti del loro (solo) coraggio.
Ho visto il trionfo dell’ignoranza nei templi della cultura.
Ho visto il trionfo della creatività nei vicoli più abbandonati.
Ho visto un carabiniere pianista.
Ho visto il potere della debolezza organizzata.
Ho visto calpestare il merito.
Ho visto uomini violenti farsela franca.
Ho visto donne violente impunite.
Ho visto porcherie spacciate per innovazione e innovazione gettata tra le porcherie.
Ho visto accuse sommarie molto circostanziate.
Ho visto ragazzi accesi e interessati, nonostante una città spenta e distaccata.
Ho visto che nessuno mi vedeva, anche se tutti mi guardavano.
Ho visto una preside che recluta alunni porta a porta.
Ho visto giunchi marcire aspettando che passasse la piena.
Ho visto un assessore che inneggiava alle SS.
Ho visto un tale che mangiava mortadella alla Camera e che passò per eroe.
Ho visto una titolare di palestra governare un’orchestra sinfonica.
Ho visto un bel ristorante perdere una stella per risparmiare sulla bolletta della luce.
Ho visto un questuante filosofo.
Ho visto un eretico vero, senza il rogo (al momento).
Ho visto il più importante giornale del mondo parlare bene di quel che si faceva dalle nostre parti.
Ho visto l’indifferenza per quel che si faceva dalle nostre parti.
Ho visto più resistenza in un corpo fiaccato che in un corpo nel fiore degli anni.
Ho visto un antimafioso brigare per una poltrona.
Ho visto un mafioso cedergliela.   

Se la destra suona sinistra

Nell’arrembaggio della destra ai posti di comando della cultura italiana una delle giustificazioni addotte dalla medesima destra è la seguente: basta con l’egemonia di sinistra, ora tocca a noi. Insomma governare un teatro, un museo, una fondazione è per il governo Meloni solo una questione di turno: fatti da parte che ora guido io.
E a nulla valgono giustificazioni tipo: serve una certa specializzazione; curriculum non è solo una parola tronca; i risultati contano eccetera. Loro tirano avanti ridacchiando insieme al coro di troll, parenti e lecchini adoranti: è finita la pacchia!
Questa lettura della realtà risente di una mistificazione che ha del cialtronesco, e cioè che destra e sinistra in Italia siano la stessa cosa. Un po’ come la “famosa” questione del centro, che affrontai in Invertiti* e che ripropongo nella sua versione breve di seguito.


Per molti decenni la polarizzazione politica ha giocato a contrapporre idee giuste a idee sbagliate e ha trovato nel “centro” il rifugio del cosiddetto campo neutro.
In realtà non esistono opinioni di parte, esistono opinioni che si possono condividere o no: facile a dirsi, difficilissimo da spiegare a un politico contemporaneo.
In questo corto-circuito rientra un vizio che ha insanguinato le strade della nostra logica: le persone stentano a riconoscere ciò che non viene abbracciato nella loro visione del mondo. Il che significa che tendono a sottovalutare pericoli reali (tipo, il figlio bianco della mia vicina di casa non può molestare mia figlia) e a sopravvalutare situazioni in cui la minaccia è sempre “loro” e mai “noi” (tipo, il figlio nero della mia vicina potrebbe essere un problema per mia figlia).
Nessuno o pochi hanno il coraggio di confessarselo, ma il succo di questo ragionamento, che è politico, civile, sociale, culturale, è la difesa ossessiva dello status quo.
La sopravvalutazione del “centro” compie, di rimbalzo, un’altra ingiustizia: che destra e sinistra siano simmetricamente distanti da esso. Come se, nei secoli, le voci della sinistra abbiano raccontato o svelato storie comparabili a quelle della destra, come se i crimini con fondamento ideologico commessi dal comunismo (che tutto era tranne che qualcosa di affine alla sinistra che conosciamo) fossero comparabili con le ripetute e attualissime violazioni dei diritti umani perpetrate dalla destra.
Il pregiudizio centrista è un pregiudizio di carattere istituzionale un po’ stupido. Nella storia il centro ha pesato come destra e sinistra nel preservare le disuguaglianze e anzi, specialmente in Italia, ha salvaguardato trame e segreti che da quegli estremi provenivano.
Se una verità cerchiamo davvero sul centro, è che il centro è di parte. Anzi è di una parte che apparentemente non ha parte pur volendo mostrarsi come mediatore tra le parti.

Basta sfogliare i giornali, se proprio non si vogliono aprire i libri, per rendersi conto che “l’egemonia culturale della sinistra” ha portato, spesso in modo imperfetto, esattamente all’opposto di dove la destra, questa destra, vuole arrivare: la tutela delle minoranze, la valorizzazione della diversità, il gusto anche masochista per l’innovazione (la sinistra italiana muore un po’ per ogni passo che si fa nel futuro), la curiosità senza freni, il culto talvolta ossessivo della conoscenza.

Il mondo meloniano è invece teso a chiudere finestre, a limitare accessi, a togliere aria: il made in Italy compulsivo come se fossimo i padroni del mondo; il sesso ordinario come dio comanda; lo straniero nemico, un po’ invasore e un po’ colonizzatore; il diverso che ruba serenità ai cittadini tutto focolare domestico e crocifisso; il revisionismo degli orrori; la liceità del riso solo in caso di risata grassa; il bavaglio alle bocche che non intonano la messa cantata. Il tutto alimentato (inconsapevolmente?) da una narrazione antagonista che è un pericoloso mix di ingenuità e impreparazione: e quello della competenza è un dramma dell’opposizione in questo Paese.

Immaginare il governo delle politiche culturali – nelle quali persino la sinistra è stata capace di disastri, basti pensare alla gestione Franceschini nel periodo della pandemia – come una sveltina burocratica è tipico della destra. Che, tristemente, è sempre coerente con sé stessa e col suo passato.

*L’opera “Invertiti” mi fu commissionata nel 2022 da TaoArte, che non era certo un covo di comunisti, a conferma che quando si parla di cultura, c’è ancora chi sa tenere la politica fuori dalla porta.

Rotolarsi nel fango

È davvero complessa la vicenda della ristoratrice suicida dopo le critiche di Selvaggia Lucarelli per i sospetti di recensione farlocca sul suo locale.
Brevemente vi spiego un mio metodo quando mi trovo ad affrontare una notizia difficile da commentare: identificato uno o più fattori scatenanti cerco di immaginare qualcosa ad hoc per ciascuno di essi. Quindi decompongo il problema e sposto un mattoncino dopo l’altro.
Qui abbiamo: un probabile errore commesso dalla signora che si sarebbe inventata una recensione falsa sfruttando temi delicati per farsi un po’ di pubblicità; un’operazione di debunking che smaschera il presunto imbroglio; l’aggressività polarizzata dei social che mette sugli altari e seppellisce nella polvere con la stessa velocità di un clic.

Il primo mattoncino è facile da spostare: sarebbe bastato non commettere l’errore all’origine di tutta la drammatica vicenda. Capisco che è una frase scontata, però la scrivo per una questione di metodo: prima spunta.

Il secondo è già più dirimente: dobbiamo rinunciare a interrogarci su ciò che accade intorno a noi, ad analizzare i fatti, a inseguire verità solo per paura delle conseguenze che il risultato della nostra osservazione possa far male a qualcuno? Tutto il giornalismo di inchiesta – e parlo in generale – porta in sé i semi di effetti indesiderati: leggetemi dimenticando per un attimo il caso della signora Giovanna Pedretti. Nel momento in cui indagando ognuno col suo mestiere (magistrato, giornalista, poliziotto, ma anche insegnante, psicologo, medico, eccetera), si apre una via nuova per una lettura diversa dei fatti, il percorso delle vite coinvolte cambia. Delle vite di tutti, da un lato e dall’altro rispetto all’evento chiave. La sola idea di rinunciare a interrogarsi e a interrogare per timore di non poter esercitare un controllo sugli effetti di quei punti interrogativi rimanda a censure e verità di Stato di cui la nostra storia è piena.

Tornando alla tragedia della ristoratrice di Sant’Angelo Lodigiano siamo al terzo mattoncino. I social. Stiamo discutendo su un supporto basculante in cui il reale flusso di una notizia è sconvolto pericolosamente. Nel mondo dell’informazione, quindi non sui social, una notizia si forma secondo uno schema abbastanza stabile. C’è un professionista, cioè uno che di mestiere trova e analizza le notizie. C’è un mezzo blindato su cui quella notizia viene inserita, è uno strumento o se volete un prodotto che offre l’unica garanzia possibile, quella della responsabilità: cioè c’è qualcuno che è sempre identificabile per rispondere dinanzi alla legge di quel che è stato diffuso. C’è un pubblico che fa il suo mestiere di pubblico: legge, assorbe, ci ragiona su e si fa una sua idea. Non si trasforma nel professionista che ha studiato per porgere e scovare le notizie. Non le arricchisce. Non ha modo di andare a molestare facilmente le persone coinvolte.
Nel mondo dei social invece la notizia rotola e si infanga, assorbe la melma di cui non è fatta e se ne sostanzia sino a diventare un’altra cosa.
Merda.

Questa è la realtà.

In difesa di Chiara Ferragni (una volta tanto)

Questa storia può essere affrontata da due punti di partenza opposti.
Il primo è quello che tende a semplificare le cose. Chiara Ferragni ha fatto una serie di errori nella sua partnership con la Balocco. Sorpresa con le mani nella marmellata dall’Antitrust, ha scelto la via più diretta (e a lei consona) per cercare di mettere una pezza: parlare direttamente alle folle oceaniche che la seguono. Lo ha fatto con toni dimessi, senza spocchia, da brava comunicatrice. Ha ammesso di aver sbagliato e ha promesso di donare un milione di euro (mica bruscolini) all’ospedale infantile Regina Margherita di Torino. Insomma ha fatto quello che pochissimi fanno in questo paese a responsabilità limitata: chiedere scusa e rifondere di tasca propria.
Attenzione, Chiara Ferragni è un’imprenditrice, un soggetto privato che coi suoi soldi fa quello che vuole e che, soprattutto, insieme con suo marito Fedez è abituata a fare beneficenza.

Il secondo punto è invece più complesso. E riguarda il contesto. Chiara Ferragni è tanto amata quanto odiata e su questa condizione ha fondato le sue fortune. Nessun influencer può fare a meno dei suoi detrattori perché proprio grazie a essi riesce a costruire il suo personaggio polarizzante. Senza polarizzazione infatti non può esistere successo nel mainstream: i santi e i demoni trionfano in chiesa o in carcere, nel mondo dell’anno 2023 se non sei divisivo non emergi dalle sabbie della coscienza limacciosa dei social.
Anche quando è stata colta in fallo, Chiara Ferragni ha usato codici precisi, in modo da alimentare il lievito madre del suo successo: i suoi odiatori. Sotto tono, commossa (magari lo era sul serio, ma qui non importa), semplice, ma pronta al colpo a effetto: un milione di euro in beneficenza. Cazzo, un milione di euro.
(Poi è ovvio che le regole vadano rispettate, che si debba vigilare su ogni forma oscura di beneficienza: ma per quello c’è la legge).
L’obiezione più scontata, che mi è stata mossa a più riprese, è una. Anzi sono due, ma collegate.
La prima: lo ha fatto per incrementare la sua audience. Dico: e se non lo avesse fatto? Sarebbe stata coerente? Insomma qualunque mossa avesse deciso di intraprendere, comunque ci sarebbe stato sempre il furbo di turno a svergognarla. Nulla è più patetico dell’anonimo vendicatore con una mano sullo smartphone e l’altra nella patta.
La seconda: eh, ma la beneficenza si fa di nascosto… In questo caso il ditino alzato cozza con il risultato. Mi è capitato di discuterne in occasione delle mie donazioni di sangue che tendo spesso a pubblicizzare proprio per sensibilizzare chi mi segue. La beneficenza, come le donazioni di sangue (che sono una forma di beneficenza), è importante farla: poi se uno sceglie di dirlo o non dirlo sono cazzi suoi. Chi critica, usualmente (non sempre, è ovvio), non ha mai alzato il culo dalla sedia e al massimo ha elargito un euro al posteggiatore abusivo per non farsi rigare la macchina. Insomma, dalle mie parti, si guarda al risultato. Farne un trofeo o meno non toglie nulla alla bellezza del verso. L’importante è farsi avanti e fare qualcosa per gli altri: del resto mi va benissimo un mondo in cui dare gioia al prossimo è una forma di egoismo, di egocentrismo, di esibizionismo. Dieci, cento, mille selfie per raccogliere fondi e sacche di sangue. Ogni volta che vedo uno che si mobilita in prima persona per regalare quel che può regalare, sto automaticamente dalla sua parte. Che sia Ferragni o Donnunzio è un dettaglio che interessa prevalentemente solo chi dona ciò che nessuno vuole: odio, invidia, ignoranza.

Chiacchiere e croficisso

Nelle critiche di blasfemia al film di Ficarra e Picone “Santocielo” c’è tutta la ruggine degli ingranaggi che regolano il rapporto della religione, la nostra religione, con la vita sociale, la nostra vita sociale. L’uscita di don Mario Sorce, parroco della chiesa del Sacro Cuore di Gesù di Agrigento che è anche direttore del Servizio di pastorale sociale dell’arcidiocesi di Agrigento, ha più a che fare con un’azione di polizia morale che con il diritto di critica. Perché la critica si basa sul metro artistico, sulla tecnica e l’effetto, persino sul gusto, ma non grida allo scandalo, non induce al boicottaggio in nome di Dio: soprattutto non traccia la storia come ci piacerebbe leggerla. È questo il bullone arrugginito che blocca lo scorrere degli ingranaggi tra noi, molti di noi, e la religione, per chi crede.
L’arte – che è quella di Ficarra e Picone, come è quella di chiunque usi la fantasia per creare occasioni di racconto – non prevede suggeritori esterni che raddrizzino i muri, correggano la rotta. L’arte è appunto (anche) muri stori e rotte perigliose.
Non capirlo, o far finta di non capirlo, è un gesto da polizia morale o comunque da ignoranti. Lo spettatore può dissentire quanto vuole, del resto gli autori hanno come primo obiettivo quello di mirare ai sentimenti, di scuoterli, di far cadere le foglie secche. Ma l’uomo di chiesa, che parla per il gregge (perché lui ancora considera pecore i suoi “seguaci”) avrà sempre l’idea di un auditorium muto, al limite belante, al quale indicare la retta via: immaginando un mondo di rette vie che paiono correre all’infinito e invece si perdono sino a dissolversi nel buio della grettezza.

P.S.
Il prete di cui sopra ha bocciato il film senza nemmeno averlo visto. Quindi ha espresso un giudizio alla cieca: chi non sa, non può parlare di ciò che non sa.
Insomma tutta la polemica nasce dalla presunzione di chi giudica senza conoscere e andrebbe liquidata con un’alzata di spalle. Ma, essendoci di mezzo la religione, è bene impegnarsi a distinguere le chiacchiere dai crocifissi.

L’onanismo dell’odio social

Mi sono più volte schierato per il diritto di non perdono, per quello di essere faziosi, contro ogni forma di buonismo d’acchito, persino per il diritto di odiare.
Ma quest’odio social, odio liquido quindi praticamente fine a se stesso (i sentimenti manifestati hanno una loro ragione di essere se avviluppati in un ragionamento, altrimenti sono peti dell’intestino psichico) è insopportabile. Perché si accanisce, nello specifico di Filippo Turetta, su un bersaglio immobile, che si è già arreso, sul quale non c’è possibilità di argomentazione oltre l’onanismo del “buttate la chiave” salviniano.
Non c’è bisogno di martoriare le carni di un morto vivente, per di più giovane. E non c’è vergogna a provare umana (e cristiana, per chi ci crede) pietà.
Siamo sempre pronti a mostrare i nostri opposti su queste timeline, felicità o dolore, odio o amore, fiducia o diffidenza. E ci dimentichiamo la più grande lezione della vita, per chi ne ha una fuori da qui: il contrario dell’amore non è l’odio, ma il dubbio (cit).