Al sindaco di Palermo

Gentile sindaco Diego Cammarata,
non sono uno dei suoi elettori ed è per questo che le scrivo. Credo che uno degli impegni politici più difficili per un primo cittadino sia quello di dimostrarsi affidabile agli occhi di chi non fa parte del suo schieramento.
I suoi primi 5 anni a Palazzo delle Aquile non mi hanno convinto, non mi piacciono la sua gestione prêt à porter dei consensi, il suo esserci dove è bello essere, il suo non esserci dove sarebbe giusto essere. Non ho i suoi gusti in tema di locali pubblici e di arredi urbani, non mi piace la politica delle stabilizzazioni elettorali, né gradisco che un autista di bus guidi senza patente.
Lei ha riconquistato il posto a Palazzo delle Aquile con una vittoria netta. E a poco valgono gli isterismi di chi chiama al telefono il ministro degli Interni per urlare di brogli e schifezze, anziché preparare un regolare ricorso: chi perde può non rassegnarsi, ma non può pretendere di essere teletrasportato (da un giudice o da un ministro) sul trono che non ha conquistato.
Insomma, gentile sindaco, lei ha un’occasione irripetibile, quella di dimostrare coi fatti che sono i fatti che l’hanno portata avanti rispetto agli altri concorrenti. Ho letto i resoconti del suo “buongoverno” della città e, mi perdoni, li trovo per certi versi ingenui. Lei loda i cantieri che hanno trasformato la città. Prenda una bicicletta o un motorino e faccia un giro delle periferie per vedere come i cantieri hanno trasformato le strade della città. Lei parla di una città più vivibile. Vada a piedi sul lungomare di Mondello ora, adesso e inorridisca per il tappeto di immondizia sui viali e sui marciapiedi. Lei parla dello snellimento della burocrazia comunale. Io da due mesi non riesco a cambiare il domicilio.
C’è poi una questione di linguaggio. Finiamola con le dichiarazioni di amore quando si parla di politica, perché inevitabilmente si finisce a parlare – per contrapposizione – di odio. E in questa lotta tra il Bene e il Male, il suo referente sommo è specialista. Io non l’ho votata, ma non la detesto. Io non sono di Forza Italia, ma non sono uno scemo. Io sono un cittadino ordinario, ma non voglio essere etichettato da Alberto Statera (oggi in prima pagina su la Repubblica) come uno di quelli che non “ha veramente a cuore la cosa pubblica” sol perché la mia città va a destra anziché andare a sinistra.
Ecco gentile sindaco, faccia di Palermo una città che non può essere dileggiata per un voto in controtendenza. La renda inattaccabile, preziosa per i suoi talenti inespressi. La vera scommessa è portare alla luce e valorizzare ciò che rimane nascosto. Faccia meno inaugurazioni e più passeggiate. Ascolti la musica che suonano i suoi concittadini, legga le loro parole, corra con loro se corrono, li aiuti se inciampano. Se io fossi lei vorrei conoscerli tutti, proprio tutti.

Buon lavoro

Letteratura di serie Z

Giacomo Cacciatore, uno scrittore che ammiro e che ho la fortuna di trovarmi come (raro) amico, mi segnala una intrigante polemica letteraria. Sul Corriere della Sera Giovanni Mariotti risponde alle provocazioni di Roberto Saviano sul ruolo della letteratura. La questione, in parole povere, sta tutta nella secolare distinzione tra letteratura di serie A e letteratura di serie B, nell’impegno e nel ruolo quasi taumaturgico che un libro deve assolvere.
Il progredire negli anni ha un suo vantaggio: fornisce sempre più cose da raccontare, senza timidezze. Ricordo che alla vigilia della pubblicazione del mio primo romanzo scrissi, in preda a un’atavica grafomafia, a Mauro Covacich per complimentarmi a proposito di un suo libro che avevo appena finito di leggere e per parlargli di me (vedi grafomania e passione per la maratona). Mi rispose coi ringraziamenti di rito aggiungendo che uno scrittore è tale perché è nato così e che non esistono aspiranti scrittori, esistono scrittori che riescono a pubblicare e scrittori che non ci riescono. Tutto qui. Spazzò così il campo da una distinzione genetica tra narratori. Chi racconta fa qualcosa che nessuno gli ha insegnato, che è dentro di sé, che è tormento e gioia, chiave e catenaccio. L’idea conseguente è che le storie narrate hanno tutte una propria dignità e che – per citare la polemica del Corriere – se esistesse il dio dei letterati avrebbe la medesima clemenza per Saviano e Bufalino, Palazzotto e Covacich, Cacciatore e King (mi perdoni Cacciatore!). L’unico argomento che deve animare uno scrittore di serie A, B o Z – classifica in ossequio al pensiero di Saviano – è la consapevolezza di essere un ladrone graziato che ruba a sé, agli altri e a quelli che devono ancora venire.

Siccità

Questa storia della siccità rischia di diventare una miccia accesa. Si scopre che il Nord ha un problema in tal senso (di acqua, non di micce) e scatta, con rullio di tamburi e squilli di trombe, un Piano Di Emergenza.
Vivo in una regione e soprattutto in una città dove ci si è dovuti abituare a fare la doccia con un secchio d’acqua. Fino a tre anni fa nell’elegante centro di Palermo dove (per una fortunata serie di concause) abitavo, l’erogazione idrica avveniva una volta ogni due-tre giorni e per poche ore, di notte. Contro la siccità i governi siciliani le hanno provate tutte. Si pensò persino di sparare alle nuvole come facevano gli israeliani: il progetto fu accantonato subito nel timore che il fai-da-te prendesse il sopravvento, balcone per balcone.
Si appaltarono lavori miliardari per dighe, dissalatori, condotte. Scese in campo l’esercito che, conclusa l’operazione Vespri siciliani, non vedeva l’ora di rendersi utile. Qualcosa si è fatto, molto altro no. Soprattutto ci si è arresi all’idea bipartisan che l’acqua in realtà c’è, ma che si perde nel colabrodo delle nostre reti cittadine. Se un giorno qualcuno dalle mie parti si accorgerà che al Nord per qualche goccia in meno e qualche fiume ristretto hanno adottato un Piano Di Emergenza Nazionale dove il presidente del Consiglio ha preso in mano personalmente la situazione, allora saranno guai. Perché a quel qualcuno dovranno spiegare perché l’acqua in Italia non bagna tutti alla stessa maniera.

Lavoratori

Lavoro e lavoratori. Ecco una breve rassegna di opinioni in merito.

Neri a metà. Berlusconi: “In Italia ci sono 1.700.000 disoccupati, anche se in realtà il 60% di loro ha un lavoro in nero”.
La noia del sabato sera. Charles Baudelaire: “Tutto sommato lavorare è meno noioso che divertirsi”.
Parola di magro. Piero Fassino: “Occorre flessibilità, non precarietà”.
Il nulla fai da te. Léo Campion: “Il lavoro è l’occupazione di chi non ha nulla da fare”.
Una tantum. Elsa Morante: “Il lavoro non è per gli uomini, è per i ciucciarielli. Anche una fatica magari può dar gusto qualche volta, purché non sia un lavoro”.
Amici e sàlvati. Clarence Seward Darrow: “Io sono amico dell’operaio e preferisco essergli amico che essere un operaio”.
Piazza (troppo) grande. Cuffaro dopo l’ennesima stabilizzazione di precari: “La Regione non è succube delle piazze”.
Nudi alla meta. Thomas Alva Edison: “Le grandi occasioni vengono perse dalla maggior parte della gente perché sono vestite in tuta e somigliano al lavoro”.
Cogito ergo sgrunt! Henry Ford: “Pensare è il lavoro più arduo che ci sia: è probabilmente questo il motivo per cui così pochi ci si dedicano”.
Per i più temerari. Oscar Wilde: “Il non fare nulla è la cosa più difficile del mondo”.
L’immagine è di Jpergrafando.

Mezza colpevole

Anna Maria Franzoni è mezza colpevole. Questa signora non troppo simpatica, innanzitutto per il reato orribile di cui è accusata (e per il quale è stata condannata in primo e secondo grado), poi per una certa confidenza col sistema mediatico, infine per certe sue caratteristiche personali su cui sorvolo, ha insomma ammazzato solo per un po’ suo figlio Samuele. I giuristi ci dicono che il dimezzamento della condanna di primo grado è dovuto al riconoscimento delle attenuanti generiche. Le esigenze delle nostre discussioni familiari, del nostro buon senso, del nostro perbenismo (e vabbé!) restano insoddisfatte: fatto sta che a molti di noi si annodano le budella. Ma come? Una donna accusata di aver assassinato il figlio se la cava con uno sconto di pena? Se ha fatto quello che ha fatto che senso ha fare la tara alle colpe? Nel crimine più orrendo tra i crimini orrendi la coscienza popolare cerca un appiglio a cui aggrapparsi per difendere le proprie tesi, innocentiste o colpevoliste che siano. Non cerca giustizia sommaria, ma l’unica soluzione che non insegue è quella pilatesca.
In un processo indiziario come quello di Cogne servivano punti fermi, giuridici, comprensibili anche a chi non ha una laurea in Giurisprudenza. C’erano le prove? Condanna. Non c’erano le prove? Assoluzione. So che è un discorso complesso da imbastire, ma non è vietato (ancora) esprimere perplessità su un sistema che produce aborti sociali. Perché il delitto di Cogne, come ogni caso giudiziario eletto a paradigma giudiziario, ha un pesante risvolto nel sentire comune. Abbiamo la ventura di abitare in un Paese che non conosce certezze neanche dinanzi alle pronunce definitive dei giudici. Lo stesso Paese che non conosce certezze quando c’è da comminare una pena per criminali acclarati. Abbiamo vissuto per troppo tempo di mezze verità, i mezzi colpevoli ci lasciano attoniti.

Il totem Camilleri

Smaltendo una catasta di riviste arretrate mi imbatto in un’intervista a Gianrico Carofiglio pubblicata su un Panorama del febbraio scorso. Mentre leggo so già dove si andrà a finire, ho il callo per certe cose. Macino riga su riga fin quando non arrivo dove temevo che l’intervistatore avrebbe portato lettore, autore e compagnia bella: il paragone con Andrea Camilleri.
Oggi non c’è giallista, (siciliano, pugliese, lombardo, tirolese…) che non sia stato messo di fronte a questo ingombrante termine di paragone. La questione è irritante per molti: innanzitutto per il maestro Camilleri che ogni giorno si vede proporre come alter-ego letterari ora un autore di successo ora un perfetto sconosciuto; poi per il pubblico che legge le pagine culturali con la speranza che siano scritte e redatte da gente con un briciolo di fantasia; infine per gli autori che non ne possono più di essere schiaffati contro un totem.
Io la penso così: il fenomeno Camilleri è talmente ampio e peculiare da non poter esser preso a modello.
Eppure l’Italia è piena di anti-Camilleri dell’ultima ora, di anti-Montalbano inconsapevoli, di sobborghi di Vigata, almeno nelle recensioni oziose di chi non vuole leggere, capire e purtroppo spiegare. Potrei farvi un elenco sterminato di scrittori vecchi e nuovi che hanno subito questo trattamento ingiusto.
Ripeto: Camilleri è un inventore, un grande manipolatore di parole, un narratore geniale. Non gli si possono attribuire figli e figliastri ad ogni libro che viene pubblicato. Inoltre nella scuola del giallo italiano non conosco un solo folle che si sia sognato di copiare o di prendere a modello i suoi personaggi.
Scrivi gialli? Sei siciliano? Allora come minimo vuoi emulare Camilleri.
Scrivi gialli? Non sei siciliano? Allora come minimo vuoi diventare un anti-Camilleri. Ecco due esempi in spagnolo che mi riguardano: http://www.diarioadn.com/cultura/detail.php?id=23521 e http://w3.bcn.es/V01/Serveis/Noticies/V01NoticiesLlistatNoticiesCtl/0,2138,1653_1802_2_212356164,00.html?accio=detall&home=HomeBCN&nomtipusMCM=Noticia .
Abbiate pietà.

Gli scrittori e la realtà

I servizi segreti inglesi studiano Sherlock Holmes per evitare il ripetersi di figuracce come quella delle fantomatiche armi di distruzioni di massa nascoste in Iraq. Il personaggio di Arthur Conan Doyle dovrebbe quindi venire in aiuto agli agenti dell’MI5 e MI6 principalmente con una frase che racchiude l’essenza di una saggia investigazione: “Non bisogna distorcere i fatti per adattarsi alle teorie, ma adattare le teorie ai fatti”.
Sono sempre stato molto scettico sul ruolo sociale dei romanzi gialli, persino quando un magistrato ha candidamente confessato di aver riaperto un vecchio caso di omicidio dopo aver letto il libro di un importante scrittore italiano. Sono un tipo squadrato in tal senso: ognuno al suo posto, ognuno col suo mestiere, ognuno col suo fardello. Se un giudice ha bisogno di un narratore per sbrogliare una matassa si vede che lui e i suoi colleghi non hanno fatto bene il proprio lavoro. Al contrario, nel caso dei servizi segreti della Gran Bretagna mi convinco che sia giusto percorrere questa nuova strada: solo nella genialità e nella fantasia di grande scrittore si possono trovare rimedi ai pasticci delle vere spie.

Cinesi

Italia – Cina, diciamo le cose con chiarezza. Gli italiani non potranno mai imbastire una reale integrazione con i cinesi per diversità che vanno esposte senza troppi giri di parole.
I cinesi sono persone laboriose, adottano la struttura sociale a nido d’ape e bastano a se stessi anche quando non hanno cosa farsi bastare. Sono prudenti e raramente fanno passi avventati. Se aprono un’attività commerciale in terra straniera hanno già fatto bene i calcoli e sono certi che il loro programma non può essere intralciato: prima o poi si compreranno l’intero quartiere. Non portano ricchezza alla nazione che li ospita poiché acquistano beni e servizi solo da altri cinesi e spediscono i risparmi in madrepatria.
Gli italiani sono persone chiacchierone, adottano la struttura sociale a nido di tagliatelle e non bastano a se stessi neanche se vincono al superenalotto. Sono amabilmente imprudenti e si incazzano se qualcuno dice loro che le tasse vanno pagate. Se aprono un’attività commerciale in terra straniera hanno già fatto bene i calcoli con le cosche locali e sono certi che con quello che hanno oliato, il loro ingranaggio girerà quanto basta per fare un gruzzolo e poter pensare ad altro. Portano ricchezza alla nazione che li ospita, ma solo se non sono obbligati a rilasciare ricevuta fiscale.

Il violino in metropolitana

Da tre giorni televisioni, siti internet, giornali ci rifilano la stessa notizia con la stessa finta sorpresa e la stessa ingiustificata aspettativa di provocare stupore: il mago del violino che si traveste da musicista da strada e che suona senza essere riconosciuto nella metropolitana di Washington.
La prima volta che ho visto questo video sul web ho pensato che era una storia carina ma che non avrebbe meritato un’analisi sociologica. La seconda volta davanti a un servizio del telegiornale ho pensato che in fondo non era un’idea troppo originale per giustificare una simile dietrologia (l’incomunicabilità, la rarefazione dei rapporti umani, eccetera). La terza volta quando ho letto l’articolo sul giornale mi sono incazzato perché non si può pensare che una fiaba sia bella solo perché inizia con “c’era una volta”. Condenso le mie perplessità nelle seguenti domande.
1) Chi ha detto che il maestro Joshua Bell, che pure sul suo sito viene paragonato a una rockstar per popolarità, sia talmente noto al mondo da dover essere riconosciuto per strada?
2) Chi ha mai visto di presenza un violino Stradivari e chi ne riconoscerebbe il suono tra lo sferragliare dei treni?
3) Chi ha il tempo la mattina, mentre sta correndo per prendere la metropolitana, di fermarsi ad ascoltare un concertino improvvisato?
4) Perché far passare come eroina l’unica signora che ha riconosciuto l’aitante maestro?
5) Come sorridere davanti al commento del musicista fuoriclasse che si dice soddisfatto per i trenta e passa dollari guadagnati in un’ora di sviolinate?

Affitti e sconfitti

Sono sensibile a un certo tipo di notizie, credo sia ormai un problema di età: sono quelle che riguardano i grandi e piccoli cambiamenti. Non ho difficoltà ad ammettere che la “notizia ideale” oggi la trovo sul Corsera. E’ questa: dal 1999 a oggi gli affitti in Italia sono raddoppiati.
Cosa facevo nel 1999? Quanto pagavo d’affitto? Cosa accadeva nel 1999? Cosa mi accadeva nel 1999? E via altre domande compulsive.
E’ vero, gli affitti sono cresciuti in maniera vergognosa: sono un testimone chiave dal momento che non ho mai avuto una casa di proprietà.
Nel 1999 vivevo in un bell’appartamento nel centro di Palermo, quinto piano, attico, niente ascensore, un milione e centomila lire al mese. Per la minima agenda personale ricordo che arrotondavo lo stipendio di giornalista facendo il ghost writer per sindacalisti, politici, imprenditori. Scrivevo un romanzo che non lasciò mai i miei cassetti. Di quell’anno due eventi mi sono rimasti impressi: la morte di Stanley Kubrick, il mio regista preferito, e l’arrivo di Napster, il mio vizio indimenticato (chiuso questo post andrò alla ricerca su Wikipedia di tutte le cose fondamentali che mi sono sfuggite) .
Sul fronte della grande cronaca, l’euro era entrato nella nostra vita poiché a gennaio era stato fissato il cambio nelle fatidiche 1.936,27 lire. Prodi era presidente dell’Unione Europea. Alla carica di presidente della Repubblica arrivava un ex governatore della Banca d’Italia, Ciampi. Insomma c’erano le condizioni perché le cose andassero a finire meglio sul fronte economico.
Invece.
Invece un milione e centomila lire di affitto sono diventate più di mille euro, mentre lo stipendio è rimasto ancorato al cambio ufficiale. Prodi è presidente del Consiglio e tenta un campagna di risanamento che gli procura più di un incubo. Ciampi si è ritirato. Napster, dopo una estenuante vicenda giudiziaria, è il fantasma di se stesso. Rimangono le opere di Stanley Kubrick.