Martirio quotidiano

C’è un’evoluzione nel metodo Travaglio, quella sorta di cerimonia sacrificale e laica che consiste nel prendere un preconcetto ed elevarlo a fatto acclarato senza inciampare in un minimo scalino di coscienza. È il finto martirio dopo la condanna. Marco Travaglio ha diffamato il padre di Matteo Renzi e un giudice lo ha condannato. Accade, purtroppo, di sbagliare: solo che il Fatto quotidiano ha sbagliato non una, non due, ma tre volte nello specifico dato che sono tre gli articoli contestati. D’accordo, accade di sbagliare e reiterare l’errore. Si può scegliere di chiedere scusa oppure di tirare dritto a testa alta. Invece Travaglio che fa? Usa il suo preconcetto per martirizzarsi da solo, affermando di essere stato condannato per una parola sbagliata inserita in un contesto in cui la sostanza dei fatti era fondamentalmente esatta. Che è come dire: io scrivo che sei un ladro disteso su un campo di margherite, mi condannano per il ladro, ma le margherite c’erano tutte. Poi la ciliegina sulla torta: Renzi non ha mai pagato per le sue balle. E qui si rasenta il sublime, accostando in pieno stile travagliesco un reato (il suo, cioè la diffamazione) a un’eventuale panzana (quella di Renzi) che reato non è.
Gran finale con appello ai lettori del Fatto quotidiano a sostenere il giornale in questo momento così difficile. I lettori rispondono, ed è un sollievo per tutti che un giornale riesca a sopravvivere agli errori di chi lo dirige.

Non leggere più romanzi?

Qualche settimana fa nella sua rubrica settimanale su The Believer, Nick Hornby ha dichiarato la sua difficoltà (estrema) nel leggere romanzi.

Io ci provo a trovare nuove opere di narrativa, giuro, ma è come cercare di spingere un carrello della spesa scassato per i corridoi di un supermercato.

Hornby lega, seppur ironicamente, questo problema al raggiungimento dei sessant’anni di età. L’articolo mi ha colpito perché io di anni ne ho qualcuno di meno, ma effettivamente avverto un mutamento nei miei interessi di lettura. Torniamo allo scrittore britannico, che argomenta.

Un brutto libro, per dire, sulla storia delle ferrovie indiane finirà comunque per dirvi qualcosa sulle ferrovie, l’India e la storia. Leggere un brutto romanzo mentre vi state avvicinando all’età della pensione, invece, è come prendere il tempo che vi è rimasto a disposizione e gettarlo in un caminetto acceso.

L’insofferenza è un tema strettamente legato all’età che avanza. Più si cresce meno si è disposti a sopportare gli effetti collaterali della crescita. C’è un momento in cui il piacere di esibire la vostra esperienza si è tramutato in irritazione nei confronti di chi non vi ascolta. Ecco, un romanzo sbagliato è come un interlocutore distratto. Chi non sa niente di libri crede che il rapporto tra lettura e lettore sia univoco quando basta aver leggiucchiato qualcosa più di una timeline di Facebook per sapere che un libro non solo dà, ma anche (e soprattutto) chiede.
Non sono arrivato all’insofferenza snob, magari giustificata sì, di Hornby, ma da qualche anno mi sono misurato con una diversa disposizione nei confronti della narrativa. Prima ero onnivoro, poi sono diventato intollerante ad alcuni temi e/o autori: come la pizza che uno adora e che d’improvviso diventa indigesta. Allora mi sono inventato strade alternative, soprattutto per arginare uno strisciante senso di colpa. Amo la montagna e mi sono messo a leggere storie di montagna; amo viaggiare e mi sono messo a leggere i classici dei grandi viaggiatori; amo la psicologia applicata al mio Doc e allora mi sono messo a leggere saggi di psicologia for dummies. Certo, ci sono le eccezioni. Ma hanno a che fare col sentimento, i libri sono meglio degli amici: ci dicono quello che è giusto non cercare senza infingimenti senza ipocrisie senza risolini, perché in fondo lasciarsi trovare è l’emozione più profonda che premia chi sfoglia con la mente aperta.
E qui, davanti a pagine inesplorate, l’età non ha età.

Il grande guardone

L’articolo pubblicato sul Foglio lo scorso fine settimana.

Secondo una battuta che circola negli Stati Uniti, ormai per farsi finanziare un qualsiasi progetto dal governo basta aggiungere la parola cyber al titolo del progetto stesso. Il motivo è semplice: quando si parla di rischi legati alla tecnologia, e più in generale di criminalità informatica, pochi conoscono esattamente qual è l’effettivo “campo di gioco” con le sue regole e i suoi trucchi.
La gran parte delle agenzie di intelligence soffiano sul fuoco del pericolo imminente probabilmente perché devono in qualche modo attestare la propria esistenza in vita (con relativi costi). Inoltre è sempre forte l’eco di quella che il ricercatore di Harvard Ben Buchanan chiama la “leggenda della sofisticazione”: ogni attacco viene descritto sui giornali come estremamente sofisticato, quando spesso non lo è affatto e si è propagato solo per l’inefficienza delle infrastrutture informatiche.
Insomma, il vero problema in tempi così drammaticamente moderni è la diffusione dell’analfabetismo digitale. Da un’inchiesta del New Yorker emerge un dato su tutti: fino a qualche anno fa gran parte dei giudici della Corte Suprema degli Usa, il massimo organo giudiziario del Paese chiamato a dirimere anche questioni di tecnologia, non aveva mai usato la posta elettronica.

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Su clochard, cultura, pianoforti e piagnonismo

Tiro fuori dal tritacarne dei social uno spunto di riflessione – a dire il vero non nuovo, ma sempre interessante – sul rapporto tra cronaca cruda e cultura, sulla Palermo ferita dall’immondizia e sulla città che invece sta cercando di rinascere con manifestazioni e spettacoli di prim’ordine.
L’altro giorno è morto un clochard e su Facebook si è scatenata una polemica sul fatto che se un uomo muore per strada, solo e disperato, quella della Capitale della cultura è solo una favola o una frottola, dipende dal grado di fantasia del polemista di turno. Mi sono ribellato a questa raffigurazione che ritengo ingiusta e piagnona. E l’ho fatto con l’esempio più banale che mi è venuto: il 23 dicembre scorso una clochard è morta a Pistoia, la capitale della Cultura 2017, e non risulta che alcun pistoiese si sia sognato di mettere in dubbio il prestigio della città.  L’acredine con la quale la mia argomentazione è stata respinta mi ha fatto riflettere. Quindi ne scrivo qui, a casa mia, per cristallizzare alcuni concetti, a futura memoria insomma. Continua a leggere Su clochard, cultura, pianoforti e piagnonismo

Travaglio, l’acido e il diritto di metafora

C’è questa battuta di Marco Travaglio sulla legislatura da sciogliere nell’acido che ha suscitato l’indignazione di molti, tra cui Lucia Annibali che con l’acido, quello vero e non quello metaforico di Travaglio, ci ha avuto purtroppo a che fare davvero.
Effettivamente il linguaggio è crudo e la memoria ci riporta, specie qui in Sicilia, a ricordi orribili legati all’orribile pratica della mafia e alle povere vittime, tra cui il piccolo Giuseppe Di Matteo.
Però, come si dice, c’è un però.
La permalosità del web legata alla necessità di dover per forza trovare un totem da abbattere, un argomento contundente, un sasso da lanciare nello stagno delle polemiche, crea delle distorsioni che vanno osservate con occhio sereno e senza ditino alzato (lo dico a me, innanzitutto). Ho detto che l’uscita di Travaglio è infelice, ma credo che esista ancora il diritto di metafora soprattutto nel giornalismo d’attacco (che può piacere o no, ma che deve continuare a esistere perché una vita senza sale e pepe non si augura a nessuno). Credo che serva un attimo di riflessione su questa nostra foga censoria, su quest’aggressività tanto social e poco real. Di questo passo non potremo più dire che “a questo governo vanno tagliate le gambe” senza suscitare le ire di un povero amputato. Non potremo più accusare un partito di “essere la stampella” di un altro per paura di offendere un povero cristo che ha bisogno di quei sostegni. O dovremo correggere la frase di Falcone sulla mafia cancro “che non prolifera per caso su un tessuto sano” affinché i pazienti oncologici non si sentano in alcun modo accomunati all’associazione criminale.
Ci sono contesti, ambiti e controindicazioni, lo sappiamo tutti perché siamo grandi e vaccinati.
Per questo – specialmente noi giornalisti, io per primo – dobbiamo cercare di andare oltre l’impeto commentizio e  provare a occuparci di cose un po’ più serie della frase di un Travaglio di questi.

La nostra febbre del sabato sera

L’articolo di oggi su Repubblica Palermo.

Nella Palermo delle grandi comitive, la “Febbre del sabato sera” contribuì a dividere la città in mandamenti del divertimento. Era la fine degli anni ’70 e Salvo Licata ammoniva, con la cifra di schiettezza e cinismo che lo fecero gigante di scrittura e arte di sopravvivenza: “Statevi arrasso da queste contrade percorse da proiettili vaganti”. Si sparava eccome, eppure Palermo sembrava davvero una capitale dei giovani ante litteram, giacché i giovani c’erano e si vedevano per strada, nelle piazze, debordavano dai marciapiedi col loro armamentario di Vespini e maglioni lunghi. Ogni gruppo aveva il suo territorio, manco fossimo nel Bronx o nei vicoli di Montmartre dove un metro di distanza significava divergenze di coltello o di pennello. E ogni gruppo aveva il luogo di culto nel quale celebrare i riti di affiliazione, di congiungimento, di guerra. La discoteca.
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L’assessore che governa on demand

L’articolo di oggi su Repubblica.

L’assessore regionale ai rifiuti Vincenzo Figuccia lancia un contest su Facebook: “Meglio Brescia o Vienna pulite attraverso impianti e nuove tecnologie o Catania e Palermo ‘ngrasciate con le discariche e la differenziata con numeri da prefisso telefonico? Aspetto idee e pareri di cittadini e di esperti in una logica di cittadinanza attiva, di condivisione e ampia partecipazione”. Bene, oggi la condivisione e l’ampia partecipazione sono sempre ben accette, il populismo un po’ meno soprattutto in un settore, come quello dei rifiuti, che da sempre ha scatenato gli appetiti delle organizzazioni criminali. Il problema delle scelte strategiche on demand è che non sono né scelte né strategiche per un semplice motivo, manca il metodo di valutazione: come pensa di vagliare “idee e pareri”, l’assessore Vincenzo Figuccia? Per numero di “mi piace”? Per alzata di mano? Per efficacia di foto profilo? O magari per originalità dei commenti: si va dall’esempio svizzero a quello tedesco, dagli altiforni ai tavoli comunali, dal “bravo!” al “continua così!”. Continua così, come? Aspettiamo idee e pareri di lettori ed esperti.

Diventerà bellissima?

Anche senza il battesimo ufficiale dei dati, Nello Musumeci è il nuovo governatore della Sicilia. E quindi, per dirla all’americana, è il mio governatore anche se non l’ho votato.
Aspetto di essere stupito, adesso. Lo slogan promette una Sicilia che “diventerà bellissima”, io nel titolo mi sono permesso di aggiungere un punto interrogativo. Che comunque sono pronto a togliere – e spero di farlo presto – laddove i fatti mi imponessero un ottimismo urgente.
Musumeci ha davanti a sé una macchina regionale disastrata e oggetto di (giustificato) scherno, paralizzata da un crocettismo tutto nomine e paillettes. Ci vuole poco per rimetterla in moto. Nel senso che davanti al deserto anche un fiore di campo è un simbolo di progresso.
Musumeci ha anche una compagnia non proprio esemplare. Senza fare nomi, coi nani e le ballerine ha saputo (?) governare solo Berlusconi. Lui dovrà muoversi quanto più autonomamente possibile rispetto a certi personaggi-totem del suo schieramento che sono e rimarranno oggettivamente impresentabili. Dovrà alzare le antenne e fare quello che i suoi predecessori non hanno saputo fare: ascoltare, ascoltare, ascoltare. Non gli alleati, bensì i suoi datori di lavoro: cioè tutti noi, belli o brutti, bianchi o chissà, destri o mancini, giovani o clonati, androidisti o devoti al dio Apple, precari o stabilizzati, pubblici o privati, omo o etero, jazzisti o rockettari.
Nell’epoca dell’odio a costo zero dovrà disseppellire la più antica arma della politica che è la mediazione. Non a caso i grillini la detestano, se la usassero si ritroverebbero nudi poiché la mediazione comporta conoscenza, lungimiranza, senso di realtà.
E poi la cosa più importante. Un governatore che viene dalla destra (abbastanza destra) può stravolgere il senso di prospettiva di chi lo guarda con scetticismo dal balcone lontano e opposto.
Si batta per il nostro vero unico tesoro e per la sua tutela: la diversità.
C’è stata una Sicilia omologata e umiliata. Quella dei balletti di “chi non salta comunista è”, quella delle assunzioni a raffica, quella dei contributi a pioggia, quella dei rubinetti scambiati per dighe e quella delle amanti da piazzare a ogni costo (a mille ce n’è nel mio cuore di fiabe da narrar…). Ora è l’ora di un riscatto del merito, che segnerebbe anche un riscatto ben maggiore. Cioè del trionfo della diversità come premio per la vera ricchezza: culturale, religiosa e perché no? economica.
Basta con le sagre, via ai festival veri. Basta con privilegi, via ai premi. Basta con i sì centellinati, via ai no motivati. Basta coi dilettanti al posto dei professionisti, via ai professionisti che insegnano ai dilettanti. Basta con gli amici degli amici, via agli amici dei nemici se sono bravi o sennò vaffanculo con trasparente motivazione.
Utopia?
Domanda oziosa.
Diventerà bellissima?
Domanda pertinente.

La tempesta perfetta: quella che non c’è

Ho aspettato per tutta la giornata un temporale. La mia app de “il meteo punto it”, quella dove “il” fa la differenza, segnalava piogge abbondanti con lampi e disastri vari prima per le 11, poi per le 13, poi per le 16, poi per le 17, poi per le 19… Insomma nell’attesa dell’allagamento annunciato in mattinata sono andato a correre presto (in una personalissima fascia protetta, diciamo) e con una discreta ansia, poi ho spostato un paio di appuntamenti per evitare di finire nel gorgo del traffico, infine ho abbandonato la moto in garage a favore dell’automobile per spostamenti che, in caso di pioggia, avrebbero messo in pericolo la mia sicurezza (provate a girare in moto a Mondello dopo un acquazzone e timbrate il cartellino dei sopravvissuti).
Ehi, non ha mai piovuto!
Poco fa, poco dopo le 21, ho dato un’occhiata alla famosa app, sempre quella dove “il” fa la differenza, e zitta zitta muta muta quasi mi augurava una buona serata con tanto di bicchierata e falò in spiaggia.
Potere perverso della tecnologia, convincerti che per capire cosa accade sulla tua testa tutto tu possa fare tranne che alzare gli occhi al cielo, come i tuoi simili hanno fatto per qualche millennio prima di te.

Non è ancora morto, ma…

 

Nel suo ultimo giro di concerti, Phil Collins tiene fede al titolo della sua autobiografia “No, non sono ancora morto” a tal punto da intitolare il tour “Not Dead Yet”. L’ho visto la settimana scorsa a Londra e devo dire che se non è ancora morto, sta comunque maluccio. Un’ora e un quarto scarsa di esibizione, inchiodato a una sedia (Phil si muove, e poco, solo con un bastone), voce stentata. La classe comunque è immutata perché non esiste malattia che possa scalfire un’arte selvaggia come il rock.
Tuttavia se non fosse stato per i gruppi che hanno preceduto Collins, il prezzo del biglietto (oltre centosettanta euro a cranio per la priority e la zona di prato non troppo lontana dal palco) sarebbe stato da rapina. E invece Mike + The Mechanics, Blondie e i redivivi (e un po’ appesantiti) KC and the Sunshine Band hanno comunque imbastito uno spettacolo di oltre sei ore nella bella cornice di Hide Park.
Una nota a parte la merita il sistema di sicurezza inglese. Se c’era qualche poliziotto, era invisibile. Tra code, perquisizioni e filtri, non ho mai visto un esponente delle forze dell’ordine, né un’arma, né un militare. Solo organizzatori e maschere con la loro casacca gialla e la loro maniacale passione creativa per le code: l’Inghilterra è l’unico paese al mondo dove ho trovato gli ottimizzatori delle code, i coach delle code, i motivatori delle code…
Insomma o i poliziotti di Sua Maestà sono bravissimi oppure erano tutti di corta.