Effetti instabili di affetti stabili

Conosco affetti stabili che lo sono per una schiera di affetti che forse colpevolmente ignorano di esserlo. E affetti provvisori che puntellano esistenze più di ogni legame convenzionale. La stabilità, come valore consolidato rassicurante, è il cavallo facile su cui puntare quando le cose vanno a rotoli. È l’appello di chi non rischia o ha paura di mettersi in gioco se la rete sotto il suo trapezio è sfilacciata. C’è un mondo che l’università del web non ha mai avuto il coraggio di raccontare, quello di chi ha inventato, di chi ha approfondito, di chi ha scoperto nuotando contro la corrente della stabilità. Del resto ce lo insegna la fisica che non c’è flusso se non c’è instabilità, se non c’è quella meravigliosa fonte di ispirazione artistica che è la differenza o, se preferite, la diversità.
Oggi si riconoscono per decreto (e si esibiscono) gli affetti stabili come un lasciapassare. Dove vai? Affetto stabile, zitto e vaffanculo.
In un mondo raddrizzato forse ci riconnetteremo con la meravigliosa anarchia dispari della natura che seleziona l’incrocio insolito, che premia il collo più lungo del curioso (instabile per antonomasia), che ci racconta una storia dove l’affetto non è in antitesi col tradimento, perché il tradimento è degli uomini, degli uomini miserabili. Che si nascondono dietro una tautologia – affetto stabile è tipo giovane ragazzo a ben pensarci – per regolamentare, causa pandemia, una ipocrisia che finirà sui libri di storia anziché, come dovrebbe essere, sui trattati di psicologia.

(Cinque) Stelle cadenti

L’articolo pubblicato su la Repubblica.

Con le sentenze non si scherza, nonostante a nessuno sfugga la grottesca situazione per cui un intero nucleo fondante del movimento che brandiva lo slogan “onestà onestà” come una clava chiodata nel giro di qualche anno è stato disintegrato da un’inchiesta giudiziaria, proprio come accadeva coi partiti tradizionali, quelli che si voleva estirpare. La vicenda delle firme false del Movimento 5 stelle, quella per la quale la scorsa settimana sono arrivate dodici condanne, è un serio, serissimo monito per gli aspiranti della politica, più o meno movimentisti, che cancella un’illusione sulla quale si regge tutt’oggi un castello di promesse elettorali: cioè che basta essere persone perbene per non cadere in pericolose ingenuità, che la pia intenzione è tutto, e che a ben amministrare prima o poi siamo capaci tutti. E è solo la sentenza ma tutto il corollario di destituzioni, espulsioni, veleni a metterci di fronte all’evidenza che un movimento di cittadini qualunque governato da cittadini meno qualunque, quando si mette d’impegno, riesce a fare anche peggio di un volgarissimo partito ordinario. In tal senso la Sicilia come “laboratorio politico” non è riuscita a dare risultati migliori del “Piccolo chimico”, il famoso gioco degli anni Settanta dinanzi al quale l’unica emozione, a parte rischiare di avvelenarsi, era lasciarsi affascinare dal viola acceso del permanganato di potassio a contatto con l’acqua. Ecco, il Movimento 5 stelle di quegli anni – siamo tra il 2012 e il 2013 – era il sale che colorava le provette della speranza di una politica che non doveva chiamarsi politica e che faceva, spesso incidentalmente, anche cose egregie. Solo che anziché tendere alla massimizzazione dei risultati, il partito non partito puntava alla massimizzazione delle premesse: insomma non importava dove si sarebbe arrivati, ma era fondamentale marcare le differenze di partenza, come un pugile che non si cura dei muscoli ma del colore dei guantoni.
Ieri come oggi, la vera leadership consiste innanzitutto nel non sottovalutare mai il potere di uno stupido in un vasto gruppo. Il resto è sopravvivenza.

Il governo dei siciliani in fuga

L’articolo pubblicato su la Repubblica.

Lucia Azzolina, nuova titolare del ministero della Scuola, è l’ennesima siciliana ad entrare nel governo Conte bis. Va in squadra con Alfonso Bonafede, Giuseppe Provenzano e Nunzia Catalfo. E ad accomunarla ai colleghi di cui sopra non c’è solo il brivido dell’avventura politica, ma il fatto che (ad eccezione della catanese Catalfo) anche lei ha abbandonato da tempo la Sicilia. Nata a Siracusa, anni fa è dovuta volare a La Spezia per trovare un lavoro come insegnante, mentre Bonafede originario di Mazara vive a Firenze e Provenzano nativo di Milena si è trasferito da tempo a Roma. Sappiamo bene che partire è vincere una partita contro la pigrizia, e che alle nostre latitudini la pigrizia è spesso un fantasma che si materializza nelle vite dei giovani disoccupati, complicandole non poco. Però c’è più di un simbolismo evocativo nella realtà di questi siciliani d’esportazione che brillano altrove, talvolta per meriti acquisiti (la politica premia con regole e meccanismi non universalmente riconosciuti): Azzolina e compagni sono l’efficace riassunto di una Sicilia da cui si fugge quasi per default. In una regione in cui la spesa non si pianifica ma si rabbercia, in cui il precariato è l’unica certezza, in cui l’orizzonte è un muro che non protegge ma isola, anche i nuovi simboli della politica si adeguano. La nostra vocazione ad emigrare, cementata dal celebre detto “cu nesce arrinesce”, non ha più la dimensione eroica della valigia di cartone e delle 20 ore di treno per raggiungere un nowhere di speranza. Oggi si fugge e basta: non c’è un nuovo mondo in cui entrare, ma solo uno da cui scappare.

Joker e Rocky, sulle scale

L’idea me l’ha fatta venire un’amica con la quale commentavamo il film “Joker”. Si parlava della famosa scena della scalinata in cui il protagonista scende ballando e già pregusta l’incoronamento televisivo nello show in cui sarà ospite.

La scalinata nel cinema è un elemento spesso caratterizzante dell’intero film: dalla “Corazzata Potëmkin” a “The Untouchables”, da “Joker” a “Rocky”. Ed è appunto quest’ultima pellicola a darci la contro-suggestione che può aiutarci a capire meglio il fascino e i limiti di “Joker”.

Ho già scritto che Joaquin Phoenix è inarrivabile nel suo ruolo e qui chiarisco che il film, l’intero film, è lui. Non avevo mai visto un’interpretazione così potente, dalla forza così inaudita.

Ma è il personaggio la chiave che bisogna avere il coraggio di usare per arrivare al cuore del problema. Arthur Fleck – Joker è un antieroe moderno, un fallito senza né arte né parte, salvato in tutta la sua impossibilità di redenzione dal disturbo mentale. Rocky Balboa è invece un aspirante eroe del passato, un giovane boxeur sfortunato che non si dà per vinto e che alla fine corona il sogno di vincere il match della vita.

La scalinata è la passerella sulla quale sfilano o, se volete, l’enzima che catalizza la reazione empatica con lo spettatore. Perché le scale sono il simbolo stesso di un impegno, di una missione, del destino (chi scende e chi sale…). E perché, come si dice, a forza di salire scale si arriva al cielo (vivi o morti…). Ecco il punto.
Rocky le sale, quelle scale.
Joker invece le scende.
Tutta la vita di Arthur Fleck è inclusa in una storia che sembra essere scritta per questi tempi che non conoscono più la fatica e in cui la sofferenza può trovare sempre un motivo plausibile che la trasformi in altra cosa: aberrazione fisica, incomunicabilità, violenza cieca. Joker è un cattivo giustificato in un’epoca che fa del giustificazionismo una religione, è un matto pericoloso in un mondo che osanna i matti pericolosi, è un rivoluzionario in una città in cui la rivoluzione è imposta come unica forza di democrazia.

Il film è bellissimo per Phoenix che ha il curriculum complesso che serve per rendere onnipotente il debole perfetto. Ma la trama ci dice molto più della politica di oggi che dell’arte della finzione. E in questo Joker è un film detestabile.   

L’invadenza affettiva

Ci sono argomenti che possono avere agganci di cronaca, ma anche no. Che stazionano in un limbo di occasioni: sono urgenti o no? Ma che di certo ci riguardano perché le cose cambiano ed è meglio non farsi trovare impreparati.
Uno di questi è rappresentato dalla cruciale domanda: come aiutare qualcuno in difficoltà (laddove per “qualcuno” s’intende una persona cara, un parente, un vero amico, eccetera)?
Conosco due scuole di pensiero: la prima, che è la mia, consiste nel proporsi in maniera discreta, senza forzare, con la piena coscienza che rispettare la persona nei guai significhi rispettare il suo atto di altruismo nel non voler imporre agli altri il suo dolore; la seconda, che è quella di persone come mio padre (un attivissimo ottantenne) si basa su un concetto affascinante che identifico come invadenza affettiva. Ne abbiamo già parlato qui, ma vale la pena di spiegare.
Stare al proprio posto nell’attesa di aiutare qualcuno è probabilmente la scelta più saggia. E più comoda, diciamolo. I problemi altrui, passata la prima botta, diventano una rottura di scatole anche nei casi più drammatici. È il segreto motore del mondo: non si vive di commemorazioni ma di scavalcamenti. Si passa sopra tutto, soprattutto quanto tutto sono i fatti degli altri. Tutto si supera, se in corsia di sorpasso ci siamo noi e non gli altri.
La strategia dell’invadenza affettiva è invece più difficile. Prevede un pressing costante e motivato (altrimenti non sarebbe affettiva…), indifferente ai dati di cronaca. C’è un primato di presenza rispetto all’impalpabile pensiero (“non ti chiamo/non vengo perché non voglio disturbare) che segna la vittoria dell’esserci sul pensare di volerci essere. L’invadenza affettiva è una sorta di rimedio della nonna contro tutte le malattie, un placebo al quale magari è bello cedere una volta tanto, illudendosi che le soluzioni migliori non stiano dentro di noi, dentro quel magma indefinibile di cervello e cuore, ma altrove. Altrove dove?
Nella cura che gli altri manifestano nei nostri confronti, nella fiducia che accordiamo loro, nel meraviglioso meccanismo arcaico del sollievo fisico di una carezza che può essere gesto o parola, ma che comunque è affetto. Invadente ma vero.

Antoci, gli spari e le nebbie

L’articolo pubblicato su la Repubblica.

Nella drammatica miscela di sonniferi giudiziari e veleni istituzionali il giallo dell’attentato a Giuseppe Antoci, rilanciato dalla relazione della commissione regionale antimafia, poggia su una sola certezza: il lavoro dell’organismo guidato da Claudio Fava è stato indiscutibilmente migliore di quello investigativo, perché ha saputo mettere a frutto con grande equilibrio la certezza del dubbio senza perdersi in conclusioni avventate, ma senza nemmeno fare il pesce in barile.

Per il resto, il quadro che viene fuori da quelle 104 pagine è un insieme di domande e interrogativi che raccontano una storia dai contorni inquietanti. Una storia che qualcuno vorrebbe relegare a vicenda di provincia, e che invece evoca scenari pericolosamente nebbiosi.

Inutile girarci intorno, delle tre ipotesi contenute nel documento – agguato mafioso, avvertimento, messinscena – la terza è quella che catalizza i maggiori sospetti e che alimenta il fuoco di fila delle domande. Innanzitutto: perché si sarebbe dovuto simulare un attentato? E a seguire: a chi avrebbe giovato la messinscena?

A scorrere i verbali dell’antimafia si ricava la sensazione che l’inchiesta giudiziaria sia stata costruita con un misto di leggerezza e imbarazzo. Leggerezza perché le prime indagini per un agguato di tale livello sono delegate soltanto alla squadra mobile di Messina e al Commissariato di Sant’Agata di Militello. Imbarazzo perché in tutta questa vicenda non c’è mai un’autorità che ha il coraggio di mettere le mani nell’acquitrino di lotte durissime, e nemmeno nascoste, tra ufficiali di polizia giudiziaria: quasi che si temesse il fastidio nel riscuotere una verità dolorosa. 

Poi c’è la figura della vittima designata, quel Giuseppe Antoci che da presidente del Parco dei Nebrodi aveva rotto le uova nel paniere alla mafia con scelte nette e coraggiose. Domanda: perché Antoci è così duro con Claudio Fava, che comunque lo aveva dipinto come “vittima, bersaglio della mafia o strumento inconsapevole di una messinscena”? Antoci dice: “Non mi sarei aspettato una cosa del genere da chi l’ha vissuta sulla propria pelle”, e cita addirittura Pippo Fava. Perché difende strenuamente la versione dell’attentato? E soprattutto, come mai non è colto da un dubbio dinanzi alla marea di contraddizioni che, puntualmente elencate in sede giudiziaria e in sede politica, sommergono la versione ufficiale rendendola a tratti inverosimile?

In quella terribile notte tra il 17 e il 18 maggio 2016 non c’è una sola ricostruzione che non sia in contrasto con le altre: non tornano i conti sul numero degli attentatori, sulle armi usate, sulle modalità del blocco della strada, sulle tempistiche di chi arriva e chi va, non tornano i conti su nulla.

E, ineluttabile, albeggia sullo sfondo la luce triste di un’antimafia politicante che vuole mettere a tutti i costi il cappello su un mostro a due teste: quella della minaccia e quella della mistificazione.

L’attimo

L’articolo pubblicato oggi su La Repubblica.

Nel più grande romanzo fantasy che sia mai stato scritto, “Alice nel paese delle meraviglie”, Lewis Carroll descrive l’eterno mistero dell’attimo facendo rispondere il Bianconiglio alla domanda “per quanto tempo è per sempre?” con la celebre frase: “ A volte, solo un secondo”. Di attimi è fatta la nostra vita e negli attimi si insinua la morte, nostra e del nostro universo, sparigliando le carte sul tavolo dell’esistenza. Nella tragedia di Catania, con un bimbo che muore nel chiuso di un’auto rovente perché dimenticato dal padre, l’orrore non si consuma nelle cinque ore in cui la vita abbandona il piccolo, respiro dopo respiro, nel parcheggio della cittadella universitaria, ma nel nanosecondo in cui la mente del padre cancella la presenza di quel figlioletto addormentato sul sedile posteriore. Nella nostra umana consapevolezza che tutto ha una causa ma nulla è evitabile possiamo tentare di trovare giustificazioni nello stress, nella routine, nella distrazione di un’era tecnologica, ma è solo una paradossale e disperata ricerca di conforto: perché noi siamo quel padre trafitto in eterno dalla colpa e non ci serve una ragione, ma una benda con la quale tamponare la ferita. E intanto facciamo fatica a confessarci che non siamo solo la biochimica che regola sonno e veglia, depressione ed euforia, ma anche l’eterea forza che ci spinge fuori dalla nostra orbita di razionalità. Siamo il piede che schiaccia l’acceleratore quando non ne abbiamo bisogno, siamo il battito di ciglia prima del passo fatale, siamo il pensiero che ci distrae quando non abbiamo pensieri. Siamo attimi senza padrone, che arrivano e se ne vanno senza che nessuno se ne accorga e ogni tanto intercettano il momento cruciale come angeli sterminatori. Prendono il tempo, lo rendono eternità di brandelli e spariscono, lasciandoci soli nell’inferno latente delle nostre vite.

Velocità, cultura o incultura?

L’articolo pubblicato sul Foglio.

“Grazie al telefono la donna moderna elimina la paura delle emergenze e sa che può chiamare il suo medico o, se ce n’è bisogno, la polizia o i pompieri in meno tempo di quello che di solito impiega per chiamare la cameriera”. La nostra storia inizia nel 1905 con questa pubblicità che Claude S. Fischer racconta nel suo “America Calling”. Il telefono come tecnologia dell’emergenza, e soprattutto come elemento tranquillizzante di una famiglia, col padre che nella réclame chiama per rassicurare la moglie o l’uomo d’affari che conferma un appuntamento, irrompe nel tessuto sociale americano. Sullo sfondo il motto lanciato dalla Bell nella sua illustrazione pubblicitaria: “Poche parole e l’ansia scompare”. È l’inizio di una rivoluzione lenta che però riguarda qualcosa veloce, l’interazione mediata dalla tecnologia. Una rivoluzione scientifica e sociale che nasce da un paradosso: la cultura della velocità viene fuori da menti che hanno una sorta di idea anarchica del tempo. Scrive Pekka Himanen nel suo libro “L’etica dell’hacker” (una sorta di Gronchi rosa dell’editoria dato che attualmente le uniche copie disponibili si trovano online, usate, con prezzi oltre i 130 euro, contro i 25 di copertina) che “sin dai tempi del Mit negli anni sessanta, il tipico hacker si alzava dal sonnellino pomeridiano pieno di entusiasmo, iniziava a programmare e lavorava buttandosi a capofitto nei codici fino alle ore piccole del mattino dopo”.

Gli acceleratori delle nostre esistenze nascono pian piano, fuori dall’orario di lavoro, nelle notti nicotiniche di garage californiani. È così che a poco a poco, invenzione dopo invenzione, lo slogan di Benjamin Franklin “il tempo è denaro” diventa il link più resistente tra l’etica protestante e i capisaldi nella new economy.

Sin dall’inizio di questa storia è chiaro che il concetto di rapidità in senso Calviniano, “più tempo risparmiamo, più tempo potremo perdere”, è un fregio letterario che poco o nulla ha a che vedere con la realtà atroce e sconfinata del web. Internet ci ha posto infatti davanti a incrementi numerici inusitati per la tecnologia di appena trent’anni fa: pensate all’impennata di guadagni del boss di un social network come Facebook o alla moltiplicazione dei gangli della Rete con crescite percentuali a quattro cifre. La velocità non è uno spettacolo, ma un gioco in cui chi non corre perde.

Himanen identifica due capisaldi per cercare di spiegare il valore della sollecitudine (di idee, di decisioni, di scommesse): la legge di Clark (Jim, fondatore di Netscape) secondo cui in una accelerazione continua si è costretti a collocare prodotti tecnologici sul mercato sempre più velocemente; e la legge di Moore (Gordon, fondatore di Intel) secondo cui l’efficienza dei microprocessori raddoppia ogni diciotto mesi. Mettendo insieme le due teorie si arriva a una realtà in cui nessuno è disposto ad attendere il futuro per arricchirsi, e l’economia si inchina a questa esigenza consentendo ad alcune aziende che operano nel web di acquistare valore molto prima che il loro progetto abbia una concretizzazione reale ed evidente.

Ci sono vari modi di sfruttare la velocità nell’epoca in cui virtuale e reale si scambiano di posto giocando a nascondino.

Uno è quello di Amazon, la più grande internet company del mondo. Jeff Bezos, oggi l’uomo più ricco del pianeta, era un semplice broker e ha iniziato la sua scalata vendendo libri online, poi si è cimentato con prodotti per la pulizia e accessori domestici, scarpe e vestiti, musica, libri e televisione. Ha acquistato di tutto: dal più grande rivenditore indipendente di pannolini online al Washington Post, dalla maggiore azienda che vende fumetti in rete alla catena di cibi biologici Whole Foods Market. In una consecutio di idee semplici eppure inesplorate, Bezos ha raccolto una serie di esigenze sul suo tappeto volante: non vale vendere solo cose, ma occorre realizzarle; i suoi server non servono solo a distribuire i suoi prodotti, ma è molto conveniente affittarli a terzi; non è solo l’innovazione tecnologica a fare da volano, ma la accurata e spregiudicata gestione dei capitali. E soprattutto, come ha scritto Robinson Meyer su “The Atlantic”, “gli investitori sanno che la sua è un’azienda monopolistica. È per questo che il valore delle sue azioni è così slegato dai profitti. Il mercato riesce a cogliere una realtà che sfugge alle nostre leggi”.

Se esistesse un culto religioso della velocità, Jeff Bezos sarebbe il suo profeta. O il suo angelo nero. Prima di lui la procedura prevalente per affrontare il futuro tecnologico del commercio era quella di costruire una bella pagina web e sbatterci dentro i prodotti da piazzare, in un catalogo più o meno ordinato, più o meno ammiccante, più o meno facile da consultare. La nuova via la indica nel 1999 Michael Saul Dell nel libro “Direct from Dell”: “La velocità, o la compressione del tempo e la distanza all’indietro fino alla catena dell’approvvigionamento e in avanti fino al consumatore, sarà la fonte suprema del vantaggio competitivo. Si usi internet per abbassare il costo di sviluppo dei legami tra produttori e fornitori, e tra produttori e clienti. Ciò renderà possibile ottenere prodotti e servizi da commercializzare più velocemente di quanto sia mai accaduto prima”.

Su questa scia Amazon ripensa l’intero procedimento della vendita, nonché della produzione, brandendo un imperativo che è una delle chiavi di questa storia: i prodotti devono restare il meno possibile nei magazzini giacché nell’agone dell’ipervelocità, peggio della lentezza c’è solo l’immobilità. Tutto ciò ha un prezzo, che non è quello stampato sulla confezione del prodotto, ma quello che riguarda il lavoro dei dipendenti. Qualche anno fa un’inchiesta del “New York Times” ha messo in campo un “esperimento per capire quanto Bezos può ‘spingere’ sugli impiegati per soddisfare le sue sempre più grandi ambizioni”. Nell’articolo, un ampio campionario di testimonianze: c’è chi giura di aver visto scoppiare in lacrime il collega sfinito e chi ricorda di aver lavorato per quattro giorni senza dormire, chi parla di ambulanze parcheggiate fuori dai magazzini pronte a portare via chi cede, e chi testimonia di lavoratori cacciati via solo perché non reggevano il ritmo delle 80 ore settimanali. Il reportage, contestato da Bezos al punto da scrivere che “in una società come quella descritta dal ‘New York Times’ io per primo non ci lavorerei”, ha un valore incontrovertibile: mettere a nudo il cuore del problema, cioè l’ossessione del cliente.

Tutto è stratosfericamente veloce nel mondo fatato di Amazon, cioè nel mondo visto da chi decide di comprare con un clic: la guida alla scelta, l’acquisto con un semplice sfioramento di dito cioè il paradiso (o l’inferno?) per ha il demone dell’acquisto compulsivo, il servizio clienti che ti richiama appena hai o pensi di avere un problema, il meccanismo dei resi e dei rimborsi. E soprattutto la consegna, tra due e cinque giorni lavorativi, di articoli che spesso arrivano dagli antipodi con una rapidità che sfida le leggi della fisica.

C’è un altro capitolo importante nella nostra storia e riguarda proprio il modo di raccontare una storia. Cioè come la cultura della velocità ha condizionato i metodi di narrazione televisiva. Le nuove serie tv in streaming sono forse il simbolo più evidente del cambiamento per accelerazione. La differenza è due termini: cliffhanger e binge-watching. Nelle serie tv dell’era pre-streaming, cioè quelle in cui un episodio veniva rilasciato ogni settimana si usavano i cliffhanger (dall’inglese cliff, dirupo). Alla fine di un episodio doveva accadere qualcosa che lasciava appesa la storia al “dirupo”: un personaggio in pericolo, un tradimento cruciale. Tutto finiva prima che si scoprisse l’esito dell’azione e lo spettatore aveva una settimana di tempo per interrogarsi, per condividere con gli amici i suoi sospetti, insomma per mantenere vivo l’interesse per la serie.

Con l’avvento di produzioni come quelle di Netflix, in cui gli episodi di una serie vengono rilasciati tutti insieme, entra in gioco il binge-watching (dall’inglese binge, abbuffata). Se cambia il modo in cui un’opera viene guardata, goduta, ingurgitata, deve necessariamente cambiare il modo in cui viene scritta. E allora il flusso ipnotico della narrazione deve catturare lo spettatore senza bisogno di tormentoni che durino mesi. I primi episodi non necessitano di effetti speciali o colpi bassi che inchiodino alla poltrona per una settimana, basta che abbiano ritmo e appeal per riempire un weekend o una vacanza. Nel segno della velocità, ovviamente. Non a caso l’opzione “guarda il prossimo episodio” è di default su Netflix. Scoprire il colpevole diventa una gara social con gli amici, vince chi arriva primo, chi dorme meno, chi viaggia come una saetta nel tempo in cui anche il tempo libero si espande per inerzia. Spesso si guarda la serie come se fosse un videogame in cui c’è un livello successivo da sbloccare, o una strada dal panorama tranquillizzante in cui non ci si cura delle stazioni di servizio o degli svincoli e si va avanti perché è il fluire stesso che diventa lo scopo del viaggio. Sotto questa luce sembra appartenere alla preistoria uno dei più famosi cliffhanger della televisione, quando la tv era lenta. Nel 1980 la CBS produceva la serie Dallas e alla fine della seconda stagione mostrò un personaggio misterioso che sparava al cattivo, J. R Ewing. Per otto mesi la frase “Chi ha sparato a J.R.?” divenne un tormentone e finì addirittura in una dichiarazione del presidente Jimmy Carter, che disse che non avrebbe avuto problemi a finanziare la sua campagna per la rielezione se solo avesse saputo “chi ha sparato a J.R.”.

Quando Milan Kundera scrisse ne “La lentezza” che “la velocità è la forma di estasi che la rivoluzione tecnologica ha regalato all’uomo” evidentemente non aveva considerato la possibilità del deragliamento non già dell’estasi, ma della buona creanza. Il tempismo, non più come qualità ma come smania, chiude gli orizzonti anziché aprirli. Come dimostra l’uso improvvido del più veloce dei social network, Twitter, da parte di ministri della Repubblica che in 280 battute bruciano sul tempo persino il più accanito dei troll cinguettando controvento e contro-logica. Risultato, una fiumana di fake news che promana dai loro account.  

Nessun problema però. Questa è l’epoca in cui le dichiarazioni più che leggersi, si contano, si misurano in ettari nelle lande sconfinate delle timeline. La bibliografia diventa bibliometria. E in una sorta di “ateismo dello sconforto” – con Hobbes che si rivolta nella tomba di frasicelebri.it  – la politica figlia della (in)cultura della velocità vive abbozzolata nella certezza che le misure contano, sì. E sghignazza, magari mandando bacioni, come la lumaca di Pirandello che gettata nel fuoco sfrigola, pare che ride e invece muore.     

Giudicare a cazzo

La vicenda dell’assoluzione di Ignazio Marino per la cosiddetta inchiesta degli scontrini mi ha fatto venire in mente un tipico corto-circuito del nostro meccanismo relazionale. Quando scoppiò il caso dell’allora sindaco di Roma, il Movimento 5 Stelle organizzò un linciaggio mediatico che al confronto una crocifissione sarebbe passata per un buffetto. Oggi, col senno di poi, sappiamo che la giunta Raggi ha problemi ben peggiori di quelli che ispirarono gli slogan grotteschi di “onestah onestah” e che con un sorprendente garantismo i grillini danno fiducia al loro sindaco nonostante la sua palese inadeguatezza (riconosciuta dai media di mezzo mondo).

Ma questo era l’aggancio di cronaca e non voglio buttarla in politica.

Il focus è molto più universale. Ed è legato al rapporto tra dubbi e certezze (di cui ho parlato anche qui). In parole povere, quando organizziamo un tribunale, anche casalingo, per processare qualcuno dobbiamo tenere a mente che il destino gioca sempre con carte truccate. Fottendosene del calcolo delle probabilità ci proporrà, più prima che poi, un contrappasso dalla crudeltà medioevale. Così, per il semplice gusto di divertirsi alle nostre spalle. O chissà, per ricordarci che la cenere dalla quale veniamo ci sta poco a diventare fango, bastano due gocce sfuggite al nostro ombrello: e in nessun mondo, neanche in quello illuminato dalla fede più cieca, esiste ombrello grande come il cielo.

Se si è tentati di condannare qualcuno perché evidentemente colpevole, prima di emanare la sentenza è bene riflettere su due parole: evidentemente e colpevole.  La seconda è quella che abbaglia, la prima è quella che trama. L’evidenza infatti nasconde la trappola, che è quella di non saper calibrare la pena. Quante volte ci è capitato di giudicare a caldo in modo tranciante?

A me molto spesso, ma col tempo e con una buona cura del mio sistema operativo biologico ho cercato di correre ai ripari. Però oggi ricordo con rammarico le volte in cui sono stato oggetto di tale giudizio. Una persona, giustamente, vi condanna per un errore ma poi sbaglia tragicamente nel non saper calibrare la pena. Cosicché dopo avervi crocifisso in sala mensa, ignudo e umiliato, finirà per ritrovarsi vittima della crudeltà del destino quando commetterà un errore ben più grave di quello che aveva giudicato con drammatica intransigenza (la pagliuzza nell’occhio altrui e altre menate…) e si perderà nel buio di una ragione con la quale mai potrà riconciliarsi se non mediante un harakiri della sua fallace presunzione.

Ci sono due modi per salvarsi la vita quando c’è da esprimere un giudizio severo e legittimo. Il primo è quello complesso: calibrare, prendere fiato, pensare che può succedere a molti persino a noi, guardarsi dentro e poi, molto poi, deliberare.  L’altro, più semplice, è giudicare a cazzo e scegliere di vivere di fotogrammi che non raccontano una storia: che siano scontrini o lettere d’amore sarà il destino a deciderlo. Con le sue carte truccate.

L’impossibile

Molte persone hanno la fortuna di avere un luogo del cuore, un posto in cui andare, o sognare di andare, quando si cerca un’evasione, un po’ di tranquillità, il senso di qualcosa o più semplicemente se stessi. Io sono superfortunato perché ne ho diversi, di posti così. Ma uno è primo al traguardo dei miei sogni realizzati. È Monte Pellegrino, la montagna di Palermo, mica una roba esotica. Ne ho parlato spesso qui e altrove sui giornali, alla radio, ovunque ci fosse spazio per raccontare qualcosa di me e delle mie fughe. L’ho frequentata sin da ragazzino, prima con lo skateboard, poi con la moto, e ancora con l’attrezzatura da arrampicata, con la bici e ovviamente a piedi con le scarpette da running. Una volta con un amico più pazzo di me ipotizzammo di buttarci con gli sci dalla pietraia di nord-ovest, in una adolescenza di istinti forsennati: ma forse questa storia ve l’ho già raccontata o comunque ve la racconto un’altra volta

Insomma io a Monte Pellegrino ci vado spesso: per correre, per respirare un po’ di cose mie (ci sono pensieri che si affrontano solo a pieni polmoni), per abbandonarmi a due ore di fatica e musica a palla nelle orecchie, per ringraziare. Stamattina mentre scendevo da quelle curve dove si apre una vista inaudita su Mondello (è un peccato che la strada sia chiusa al traffico per problemi di frane e robe varie) mi sono fermato in un tornante. Lì ci sono un guard-rail squarciato e un nastro rosso che avverte del pericolo. È il punto in cui nel giugno scorso un’auto con due ragazzi è uscita fuori strada precipitando in un vuoto che è impressionante al solo pensarci. Mi sono seduto, fermando quel benedetto Garmin che mi ricorda feroce e inflessibile l’impegno di rispettare un tempo nella corsa, e ho immaginato l’inferno in quel posto che per me è un paradiso. Com’è possibile che il mio luogo del cuore custodisca il mistero di una tragedia così grande? Esiste un’oggettività del dolore che si insinua nella terra di una montagna come nella carne di un essere vivente? Come può l’infinitamente bello sconfinare così facilmente nell’urlo muto della morte. Questo non è l’Himalaya o il Nanga Parbat che nella loro bellezza disperata racchiudono, come un cristallo di allucinogeno, il segreto sommo di un inizio che può essere fine. Questo è Monte Pellegrino, la montagna che guardo ogni mattina da casa con la tazzina del caffè in mano e lo smartphone a distanza di sicurezza. È il conforto dei ricordi e l’eccitazione di una corsa a perdifiato mentre il sole tramonta e la città, sotto, macina impegni che in quel momento non ti riguardano.

Com’è possibile che la morte di quei due quei ragazzi ora la traduco come un tradimento della mia montagna?

Non trovo risposta o forse non c’è.

So soltanto che al nostro posto del cuore chiediamo l’impossibile, perché se ci accontentassimo del possibile non saremmo lì.