Una buona antimafia

L’articolo pubblicato su Repubblica Palermo.

Abituati come siamo a guardare la politica con diffidenza, rischiamo di perderci qualche passaggio quando invece il Palazzo lavora di buona lena e con attenzione. Allora è bene fermarsi e dare atto che c’è una politica che non è solo, per dirla con Berlinguer, una macchina di potere e clientela. La Commissione regionale antimafia guidata da Claudio Fava è un esempio di come si può vigilare sulle cose nostre senza lasciarsi trascinare dalla corrente del momento, di come si può indagare su temi di cronaca scottante senza farsi tentare da sterili effettismi. Così è stato per l’esame del caso Montante e sulle sue diramazioni complicate, per gli interrogativi sull’attentato Antoci e su certe incongruenze non da poco, per la recente disamina del doppio (o triplo) tentativo di depistaggio delle indagini sulla strage Borsellino. La Commissione ha, ad esempio, trattato un noto giornalista anti-boss come un normale testimone e non ha esitato a evidenziare alcune contraddizioni nel suo operato, rischiando la scomunica dell’antimafia adorante. Ha lavorato, insomma. Magari avrà sbagliato in molte o alcune conclusioni, ma si è data una direzione. È bene ribadirlo: qui non si giudicano i risultati che possono essere oggetto di valutazioni discordanti, si giudica un metodo. In particolare una discreta indipendenza dal mainstream, perché prima di affondare un coltello nella crosta delle cose bisogna assicurarsi che non sia stato usato per altro, insomma che sia pulito. Questa Commissione ha tentato di tenere a distanza il pregiudizio, di non conoscere intoccabili, di saper coniugare rigor di legge e curiosità. Ci ha rivelato che il compito della politica non è solo dare risposte, ma saper fare domande.

Effetto pecora

La cronaca ha un sentimento? No, e guai se lo avesse. Significherebbe che esistono notizie giuste o notizie sbagliate. Mentre esistono quelle buone e quelle cattive, che è altra cosa giacché la loro valenza si rivela nelle sensazioni che suscitano nel lettore. Il dovere di cronaca impone al giornalista di raccontare, di testimoniare ciò che accade a prescindere da tutto, eccezion fatta per i paletti imposti dalla legge e dalla deontologia. Per questo vale la pena ragionare sulle polemiche germogliate sui social a proposito dei video sul tragico incidente sulla circonvallazione di Palermo. Chiariamo subito che qui si discute dei video filtrati e pubblicati da testate giornalistiche e non di quelli spalmati sui social da chiunque in barba alle norme sulla privacy e al buon senso, con dettagli raccapriccianti che nulla hanno a che fare con una corretta narrazione del fatto, per quanto atroce sia. Da sempre il cronista ha il dovere di essere quanto più possibile sul luogo dell’accaduto, di riportarlo fedelmente nei modi che la situazione e i tempi gli consentono. Che sia il rapimento di Aldo Moro o l’omicidio di Piersanti Mattarella, che sia la strage di Capaci o l’eccidio di via d’Amelio, che sia il crollo delle Twin Towers o la strage del Bataclan, il dovere di raccontare è più forte di ogni moralismo, forse perché è la stessa morale che è fatta di verità e non di infingimenti.

Ciò non vuol dire che le immagini drammatiche di un incidente in cui sono morte due ragazze e sono rimaste ferite decine di persone devono essere viste a ogni costo per avere un’idea dell’accaduto, ma che non mandarle in onda sarebbe una scelta contro la cronaca, contro il messaggio crudo che la cronaca ci manda (ad esempio, guidare con coscienza, indossare le cinture di sicurezza, eccetera). È sempre stato così, da quando esiste l’informazione: pensate cosa sarebbe stata la percezione della Seconda guerra mondiale senza i reportage di Robert Capa, o l’impatto dell’11 settembre senza la CNN.

Solo che adesso c’è il corto circuito tra due elementi che hanno sconvolto il nostro rapporto col vivere quotidiano: lo smartphone e i social network. Il primo estende a chiunque la possibilità di entrare nella narrazione da protagonista, ma senza il filtro che un narratore professionista deve imporsi. I secondi alimentano il peggiore moralismo, quello cieco, senza ragione e appiglio culturale: quello del “dico il cazzo che mi pare” perché ne ho la possibilità ed è il semplice fatto di poterlo fare che giustifica la presa di posizione, non il suo contenuto. Quindi le minacce ai giornalisti che mostrano un video drammatico diventano virali perché la minaccia zero figlia conseguenti schifezze che non hanno altra intenzione che auto-sostentarsi. Inutile dire che quel video rappresenta ciò che per decenni i cronisti si sono dovuti sobbarcare per svolgere il loro mestiere. Inutile dire che sui morti i giornali hanno sempre venduto e non per scandalo, ma per peso della notizia. Inutile dire che “rispetto per le famiglie delle vittime” non è tacere sulla loro fine, ma andare a fondo con severo mestiere sulle ragioni che l’hanno determinata. E magari sottrarsi al pericoloso “effetto pecora” che un algoritmo alimenta ogni giorno ingannandoci con la finta libertà di avere sempre ragione senza avere una ragione.

Il boss che mi comanda

Ho sempre immaginato il mio corpo come una specie di azienda che produce non so cosa: probabilmente vita, la mia. Sono nato negli anni sessanta quindi si tratta di un sistema organizzativo e industriale non moderno. Tutto è governato da una centrale operativa che si trova nel mio cervello e che lavora agli ordini di un grande capo, un tizio oltre la sessantina, abbastanza sovrappeso, calvo, sempre in maniche di camicia (sudata). È lui è la chiave di tutto. Lo conosco bene e quel che so della sua vita privata è sempre de relato. Sulla scrivania, tra pratiche inevase e portacenere stracolmi di cicche, c’è una foto della sua signora che per quanto mi riguarda potrebbe essere tipo la moglie del Tenente Colombo: se ne parla sempre, la si vede mai. Si dice che il capo abbia anche un figlio, o addirittura due, ma il confine tra realtà e leggenda è labilissimo quando si parla di un uomo che lavora 24 ore al giorno, senza ferie e che tende a una prevalenza di aroma ascellare già alle prime ore del mattino. Insomma se un figlio c’è, potrebbe averlo fatto per delega (con rispetto per la signora Colombo).

Al lavoro il grande capo è inflessibile, grida spesso e dal suo ufficio tiene sotto controllo tramite un vecchio interfono tutti i reparti produttivi (e anche quelli improduttivi).

C’è il settore “Sport e avventura” che ha subito un ridimensionamento: gli addetti al running e all’arrampicata sono andati in prepensionamento, resistono solo un paio di lavoratori part-time che gestiscono il minimo ordinario senza grande impegno. Di tanto in tanto il capo chiede uno sforzo, ma l’ufficio è ormai in smobilitazione e i programmi sono quasi totalmente nelle mani del reparto “Determinazione, cause perse e affini”. Questo è un settore cruciale dell’azienda giacché è quello che in ordine gerarchico gestisce la programmazione della quasi totalità del lavoro. L’organico di sei persone è stato recentemente rinforzato dall’arrivo di una giovane specializzata in “Motivazione forzosa” che fissa nuovi obiettivi, spesso alzando un po’ troppo l’asticella e provocando le ire del capo: “Ma me lo vuoi ammazzare?”, ha urlato un giorno quando – ultracinquantenne – mi sono ritrovato a correre per 14 chilometri con 35 gradi all’ombra. Lei però tira avanti e confida nella sua arma segreta: una liaison clandestina col responsabile del settore “Autostima”. Costui è, diciamolo, un uomo poco attraente, un secchione che ha fatto il suo tempo nell’azienda senza mai imbastire una ambizione o sprecarsi più del dovuto. Sino a qualche tempo fa mi chiedevo come cazzo era finito lì – lo avrei visto più al reparto “Studio e sopravvivenza scolastica” – poi però, dopo l’arrivo della signorina con conseguente colpo di coda sessuale, mi sono convinto che deve avere almeno una dote nascosta. E spero che in qualche modo io ne possa godere di riflesso.

Nella mia centrale operativa c’è una battaglia che il capo conduce da più di mezzo secolo, quella per la riorganizzazione del settore “Sensi di colpa”. Inutilmente ha cercato di limitarne i terreni di azione. Ha ridotto l’organico a due impiegati, ha abolito i turni di notte delegando al reparto “Sogni e pensieri trasversali” la gestione della gran parte delle operazioni di sopravvivenza notturna, ha tolto loro le chiavi di accesso al sistema operativo degli “Affari sessuali”, ma niente. Non riesce a liberarsi di loro, per via di un’ostinata resistenza dei sindacati che parlano di vessazione e tentativi di demansionamento agitando lo spettro di uno sciopero generale con il conseguente blocco di tutte le attività non vitali (tra queste, purtroppo, anche quella del settore “peccati di gola e peccati in generale”). Nel timore, fondato, che gli uffici dei “Sensi di colpa” siano oggetto di incursioni da parte di sconosciuti o comunque di persone non autorizzate, il grande capo recentemente ha fatto mettere dei catenacci alla porta di cui solo lui ha la chiave.

Non so quanto in lui ci sia di dedizione alla comune causa della mia vita e quanto di pura cura del tornaconto personale – in fondo se io muoio, lui resta disoccupato – però di una cosa sono certo e gli sono grato. Il suo impegno quotidiano per portare avanti la baracca mi ha insegnato che esistono vittorie assolutamente inutili e sconfitte meravigliosamente feconde.

Borsellino e la storia senza storia

L’articolo pubblicato su Repubblica Palermo.

Non si può chiedere alla magistratura di (ri)scrivere la storia: del resto quando si è pensato che la vera storia d’Italia dovesse essere narrata nei verbali di polizia il risultato è sempre stato pessimo. Ma la vicenda del depistaggio delle indagini sulla strage di via d’Amelio impone una piccola eccezione. Ai giudici che, nel dedalo di competenze incrociate e di indagini infinite, hanno dipinto un quadro in cui gli unici colpevoli sarebbero quattro poliziotti mai sgamati da nessuno e sopravvalutati da tutti, andrebbe chiesta una parvenza di idea su cosa è realmente accaduto all’indomani dell’eccidio in cui morirono Paolo Borsellino e i cinque agenti della sua scorta. Insomma da anni agogniamo una ricostruzione plausibile – laddove il termine “plausibile” certifica la nostra impotenza dinanzi a una congerie imbarazzante di menzogne e mistificazioni – e non verità insulse e smozzicate. E da anni sbattiamo contro un muro narrativamente illogico: perché se fosse un film nessuno sceneggiatore si rischierebbe a firmare una trama che parte tragica e infischiandosene del plot finisce esilarante. Qui non ridiamo solo per rispetto ai morti e alle loro famiglie, ma che un’intera Procura sia rimasta all’oscuro di uno dei più gravi depistaggi dell’Italia repubblicana e che non servano ulteriori indagini per scoprire ciò che è rimasto tragicamente nascosto, strappa un sorriso amaro. Quindi serve una storia, magari una qualunque, per trovare un senso a questa beffa. Una storia in cui chi sbaglia paga e non viene premiato, in cui chi è distratto è punito e non promosso, in cui chi è tenuto a controllare e non lo fa non se la cavi con un’alzata di spalle. Una storia che almeno abbia rispetto di chi la ascolta.

Il cannolo che si fece moneta

L’articolo pubblicato su Repubblica Palermo.

Cannoli e passito sulla moneta commemorativa da 5 euro del 2021. L’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato ha deciso così di celebrare i prodotti tipici siciliani: per completezza di informazione c’è anche la moneta dedicata ai tortellini emiliani, quindi almeno stavolta niente strepiti di disparità tra Nord e Sud. Se è vero che il mondo è un’interminabile sfilata di simboli, il cannolo è una icona tra le più universali (e ruffiane): tramanda gusto, ammiccamento, complicità, gola, sesso, politica, trasversalità, crosta e crema al tempo stesso. Neanche coppola e lupara arrivano a tanto. È quindi il simbolo meno simbolo in assoluto, è piuttosto un ologramma di una tradizione che, in epoca di contaminazioni globali, sforna panettoni da record lontano da Milano e sushi memorabili lontano da Tokyo. Insomma cannoli e passito su una moneta commemorativa non commemorano un bel nulla di questi tempi confusi, con cultura e tradizioni chiuse per decreto, con sensi ottenebrati da emozioni da asporto. L’impressione è che una scelta del genere sia qualcosa di molto simile al fumo negli occhi: fumo della presunta valorizzazione di un prodotto che oggi praticamente non c’è se non come merce clandestina da spacciare sottobanco tipo delinquenti senza scrupoli; occhi socchiusi perché arrossati dal freddo di una solitudine collettiva.
C’è in certe decisioni politiche e culturali un irritante scollamento dal qui e adesso che vorrebbe scimmiottare la storia, ma che invece diventa storiella, panzana al limite del raccontabile. Come al bar, quando i bar esistevano ancora, tra amici alticci, in una fredda serata invernale: la sai quella dei cannoli e del passito che si fecero moneta da cinque euro?

Il dio pazzo del web

L’articolo pubblicato sul Foglio.

Sarà un dio e sarà pure un pazzo. Sarà burlone e ingiusto, ma è un dio che ci sa fare con gli affari. Fiuta la preda, la insegue e la fa sua: senza finirla, anzi iper-alimentandola e spingendola verso la bulimia. Più lei consuma, più il dio è soddisfatto. Più lei consuma, più lei stessa è sfiancata. Funziona così nel regno del web, nel cielo dei cieli telematici dove vive e regna nei secoli dei secoli il dio algoritmo.

Accade così che l’inspiegabile si dipani chiaro, come una pergamena srotolata, dinanzi ai nostri occhi e che Nostro Signore del bit ci reputi degni di assistere al più antico dei prodigi, quello della creazione.

Angela Chianello, da Palermo, è la raffinata esegeta degli sviluppi del contagio del Coronavirus, una via di mezzo tra la divulgatrice fai-da-te e l’opinionista da supermercato, che ha coniato il tormentone “Non ce n’è Coviddi”. Lo ha fatto dal suo privilegiato punto di osservazione – la spiaggia di Mondello nei giorni di uscita dal lockdown – scegliendo come tribuna l’agorà televisiva di Barbara D’Urso. La Chianello è l’ultima creazione del dio algoritmo, ed è stata plasmata con la sabbia del golfo di Palermo a futura memoria di un bel po’ di cose.

Non è bella, non è colta, per quel che si sa non è nemmeno cattiva (che pure è una caratteristica cruciale per farsi ricordare in questi tempi senza memoria), non ha un’arte da tramandare né un messaggio da diffondere che vada oltre le dieci sillabe. Lei esiste in funzione di ciò che non esiste, il “Coviddi” appunto, e fa discepoli senza bisogno di spezzare il pane e versare il vino (al limite può dividere un’arancina e sorseggiare una Fanta). Però fa miracoli niente male: la moltiplicazione dei followers è il più impressionante con quasi duecentomila seguaci in pochi giorni. Un suo video su Instagram dove dice semplicemente “Buongiorno” sulle note di una canzone napoletana totalizza cinquecentomila visualizzazioni in un fiat. Ha già diversi profili fake, come un Salvini di questi, e addirittura sdogana un triste oggetto di protezione come feticcio postmoderno quando, disvelando le labbra dal cupo di una mascherina, dà la buonanotte ai suoi ammiratori con sguardo ammaliante. 

Il dio, per via del suo mestiere di dio, ovviamente non si può criticare. Qualche sua opera sì. O meglio ci si può addentrare nei meccanismi della creazione per cercare di intuire se la fine del mondo è a portata di mano oppure se dobbiamo aspettarci altre rivoluzioni e/o benedizioni da Chianello et similia. Quindi con una mano snoccioliamo il rosario di grani bluetooth rincuorandoci con le parole di Vincent Van Gogh secondo cui “non bisogna giudicare il buon Dio da questo mondo, perché è uno schizzo che gli è venuto male”, e con l’altra entriamo nel backstage di una qualunque timeline di un social network come Facebook. Qui l’algoritmo non è altro che lo strumento attraverso il quale il motore del social decide, nello sterminato scenario delle combinazioni possibili, il peso di popolarità delle notizie che l’utente vede appena entra nel proprio account. Il meccanismo di funzionamento è segreto, tipo ricetta della Coca Cola (solo che qui si tratta di una lattina dalla quale bevono più di due miliardi di persone), ma qualche anno fa Adam Mosseri, ex responsabile dello sviluppo del News Feed a Facebook e oggi numero uno di Instagram, si è sbottonato in pubblico sulla logica dell’algoritmo.

In pratica Mosseri lo ha descritto come un “metodo naturale” attraverso il quale si possono prendere delle decisioni basandosi sulla storia precedente e sui dati a disposizione, facendo quindi delle inferenze- cioè delle deduzioni intese a provare o sottolineare una conseguenza logica – derivanti da questi. Domanda cruciale: quali sono i dati importanti, secondo Facebook, attraverso i quali si possono fare queste benedette inferenze?

Proviamo a spiegare senza incorrere nella blasfemia, dato che il dio del web è incazzoso e a farti passare dalla spiaggia della Chianello alla triste libreria di un qualunque Piero Angela ci mette un clic.    

Funziona così. Rispetto a tutti i post degli amici o delle pagine (Inventory) seguite da ciascuno di noi comuni mortali, l’algoritmo di Facebook verifica alcuni segnali (Signals) come per esempio chi ha postato cosa, fa delle predizioni in base alla storia passata di altri post, magari con caratteristiche simili, che sono stati commentati (Predictions) e attribuisce quindi ai singoli post un punteggio (Score).

Quindi per ogni singolo post l’algoritmo di Facebook analizza tutti i dettagli: chi ha postato, cosa, quando, che tipo di contenuto e quanto engagement, cioè coinvolgimento, ha generato finora. Al termine di questo processo, che qui è un ingombro di parole impilate ma nell’universo del dio web è lieve e istantaneo, si viene a creare un valore finale.

Questo valore è la scommessa dell’algoritmo su quanto egli crede che quel post possa piacere. Nel rispetto di quel punteggio, i post vengono messi in ordine nel News Feed del singolo utente da quello più alto a quello più basso. Ogni singolo utente si ritrova quindi un News Feed personalizzato, perché deriva sostanzialmente dalla sua interazione con le altre persone sul social network e dalla sua interazione con i diversi tipi di post. Insomma se fossimo al ristorante sarebbe un menù ad hoc coniato sulla base di ciò che abbiamo mangiato in passato, di ciò che mangiano abitualmente i nostri amici, di ciò che teniamo nel nostro frigorifero a casa, e di ciò che pensano i nostri amici del loro e del nostro cibo (e del nostro frigorifero): la qualità del cibo non ha nessuna influenza.

Nulla è per caso in questo mondo in cui persino un concetto rigido come quello di censura viene declinato a favore della pazzia del dio. Pensate alle foto di donne che allattano al seno o alla celebre immagine della ragazzina nuda che fugge al Napalm di Saigon: per il Nuovo Ordine Telecostituito si tratta di pornografia e vanno eliminate. Mentre bugie, fake news, propaganda nazista e contenuti trafugati ai legittimi autori sono ammessi e anzi in un certo senso incoraggiati poiché creano engagement, alimentano discussioni, insomma fanno tutto l’interesse dei social network e del loro mercato di interazioni. C’è un genere di errore stupido che solo le persone intelligenti possono commettere: presumere che un fatto acclarato possa sconfiggere una bugia facile e rassicurante.

Nel suo libro “The Four – I padroni” Scott Galloway, imprenditore ed esperto di marketing, spiega il successo di Google, Facebook, Apple ed Amazon con una frase secca: “Hanno sfruttato i nostri istinti”. Nello specifico Galloway affida un ruolo preciso, immaginifico ma non troppo, a ciascuna di queste quattro aziende.  “Google è il dio dell’uomo moderno. Immagina la tua faccia e il tuo nome su un libro che raccoglie tutto ciò che hai chiesto al motore di ricerca e capirai che ti fidi di Google più di qualsiasi entità al mondo”. Facebook ha invece una diversa collocazione. “È l’amore. Una delle cose meravigliose della nostra specie è che non solo dobbiamo essere amati, ma dobbiamo anche amare: Facebook soddisfa il nostro bisogno di amore”. Continua Galloway: “Amazon è il nostro intestino, e si occupa dell’istinto che forse sentiamo di più. Basta che tu apra uno dei tuoi armadi: magari hai da dieci a cento volte più di quello che ti serve. Perché? Perché la pena di avere troppo poco è molto più grande di quella di avere troppo”. Apple è il sesso, “il nostro secondo istinto più potente: scegliere il miglior seme in circolazione, per le donne, o diffonderlo, per gli uomini”. In tal senso, secondo Galloway, l’iPhone non è solo un telefono, ma è anche un goffo tentativo di affermare: “Se ti accoppi con me e non con un uomo Android, i tuoi figli avranno più probabilità di sopravvivere”.

Il dio algoritmo vede e provvede, in ogni ambito, in qualunque frangente, incoraggiato dal comportamento dei suoi sudditi, i consumatori, che hanno fatto chiaramente capire di essere disposti di rinunciare alla privacy in cambio di uno strumento che pensi e che agisca per loro: una vita per procura. Nessuno si inquieta se la tecnologia di ascolto del rumore ambientale di Facebook può capire se sono a un concerto di un certo cantante e, conseguentemente, mostrarmi la pubblicità di un suo nuovo album o comunque di qualcosa di collegato al suo merchandising. Però se si toccano temi come la religione o l’animalismo scatta subito una agitazione collettiva. Recentemente, senza troppi clamori, la Verify, azienda della Alphabet, si è lanciata nel campo delle assicurazioni sanitarie con la sua Coefficient Insurance. Ricordare che la Alphabet è una holding a cui fa capo Google non è un dettaglio: in pratica chi conosce i dettagli più intimi della nostra vita quotidiana, i nostri contatti, la frequenza con cui interagiamo con essi, i nostri desideri che elenchiamo quotidianamente sul motore di ricerca, adesso può valutare la nostra esposizione al rischio meglio di qualsiasi altra compagnia assicurativa.

Non è la prima volta che un’azienda tecnologica entra a gamba tesa nel settore dell’assistenza sanitaria. Già in passato, ben prima dell’emergenza Coronavirus, Alexa (Amazon) e DeepMind (Alphabet) hanno iniziato a lavorare col servizio sanitario inglese, la Apple ha collaborato con la compagnia assicurativa Aetna per usare i dati degli Apple Watch e premiare gli utenti che hanno stili di vita salutari, e Facebook ha lanciato Preventive Health, uno strumento che consiglia agli utenti di sottoporsi a controlli medici in base all’età e al sesso.

Il problema non è di privacy – elemento ben pesato dai giganti del web e affrontato anche in sede legislativa in vari Paesi – ma è sociale. Se ne è occupato recentemente sul Financial Times il sociologo Evgeny Mozorov avvertendo sul rischio “delle possibili riconfigurazioni di potere tra gruppi sociali – i malati e i sani, gli assicurati e i non assicurati, i dipendenti e i datori di lavoro – che saranno innescate una volta esaurito il clamore della notizia (il riferimento è al lancio della Coefficien Insurance). Bisogna essere molto ingenui – scrive Mozorov – per credere che un sistema di sorveglianza digitale più esteso, sul luogo di lavoro ma anche a casa, in auto e ovunque ci porti il nostro smartphone, possa favorire i più deboli. Certo potrebbero esserci effetti positivi (un ambiente di lavoro più salutare, forse), ma dovremmo chiederci: chi pagherà il prezzo di questa utopia digitale?”.

La risposta ovviamente non interessa il dio algoritmo. Però un’interessante chiave di lettura la fornisce il filosofo e professore presso il Gettysburg College in Pennsylvania sulla rivista digitale Aeon, partendo da un’altra domanda: abbiamo davvero il diritto di credere in ciò che vogliamo?

Secondo DeNicola questo diritto ha dei limiti importanti.

“Credere in qualcosa significa ritenerlo vero – ragiona DeNicola – ma questo non implica in modo automatico che quella convinzione lo sia realmente. Le credenze, per la maggior parte, non sono atti volontari, ma piuttosto idee e atteggiamenti. Il problema è rifiutare questo genere di ‘eredità’ quando si tratta di una credenza eticamente sbagliata – come considerare la pulizia etnica una soluzione politica accettabile”. Continua il filosofo: “Se una convinzione è immorale è anche falsa. Sostenere, per esempio, che una razza sia inferiore a un’altra, non solo è moralmente ripugnante, ma è anche sostanzialmente falso. Le credenze inoltre hanno uno stretto rapporto con la realtà e con la sua conoscenza: attribuire a un’autorità il fatto che dobbiamo credere in una cosa, oppure negare un avvenimento certo o ancora ignorare evidenti incoerenze è un atto di irresponsabilità, somiglia piuttosto a voler abbracciare un desiderio. Per questo – conclude DeNicola – la libertà di credere deve avere dei limiti”.

Sarà un dio e sarà pure un pazzo. Sarà burlone e ingiusto, ma è un dio che ci sa fare con gli affari. L’algoritmo ha costruito la sua roccaforte decostruendo le antiche logiche: oggi la verità e la falsità palese sono del tutto ininfluenti in termini, ad esempio, di successo politico. Sempre più persone rifiutano i fatti perché minacciano l’identità che si sono costruite intorno alla loro visione del mondo.

La Chianello in tal senso è un prototipo di successo.

Il peso della coscienza (se esiste)

Questo post è diviso in due parti. La prima dovreste conoscerla abbastanza bene, ma è giusto ricordarla.
Don Pino Puglisi era un prete semplice che viveva in un quartiere complicato: a Brancaccio, a Palermo. Parlava con la gente, si opponeva con dolcezza alle prepotenze, toglieva i ragazzi dalla strada per evitare che finissero arruolati dalla più grande e importante azienda illegale del mondo che in quelle contrade aveva il suo quartier generale.
Era un prete che faceva il prete: spiegava ai giovani che i mafiosi non sono eroi, ma semplici persone che sbagliano. Dava a quelle nuove generazioni una lezione fondamentale, quasi rivoluzionaria: si può ottenere il rispetto senza essere criminali. Quindi per la mafia quel prete era un pericolo, perché attentava alla credibilità dei boss.
Fu per questo che esattamente ventisette anni fa, il 15 settembre 1993, proprio nel giorno del suo 56° compleanno, Cosa Nostra decise di ucciderlo.
Due killer lo attesero sotto casa. Uno dei due lo chiamò per nome: “Don Pino…”.
Lui si girò e senza nemmeno vedere la pistola disse: “Me lo aspettavo”.
Poi sorrise.
Sorrise mentre l’altro killer gli sparava alla nuca.
Poco tempo dopo entrambi gli assassini, folgorati dall’immagine di questo prete piccolo di statura e immenso nella fede, decisero di consegnarsi alla giustizia. E, ammettendo le loro colpe, fecero arrestare i mandanti del delitto.
Molti anni dopo, don Pino, primo martire della Chiesa ucciso dalla mafia, è stato proclamato beato. 


La seconda parte si basa su un paio di interrogativi.

Ancora oggi e chissà per quanto tempo ancora, tutti noi ci domandiamo: quanto pesa la nostra coscienza? Esiste davvero? In questo senso la storia di questo prete serve per mettere a nudo la coscienza di chi lo volle morto. Esiste davvero una capacità di giudicare in modo indipendente e di essere motivati da verità morali oppure tutto rimanda a una disposizione istintiva – ripeto istintiva – a conformarsi alle convenzioni sociali e soprattutto alle esigenze del più forte?
Attenzione, vi sfido. Quasi tutti i comportamenti apparentemente etici possono essere spiegati da una sorta di conformismo. Ad esempio è possibile che la maggior parte delle persone non rubi, non uccida, non stupri semplicemente perché si tratta di comportamenti contrari alle convenzioni della nostra società e agli ordini di chi ci governa. Ma questo non implica una vera coscienza. Gli assassini di Don Pino, ad esempio, hanno seguito gli ordini e le convenzioni del loro sistema aberrante di governo.
Nel 1961 lo psicologo statunitense Stanley Milgram condusse una serie di esperimenti sull’obbedienza e dimostrò che due persone su tre sono disposte a colpire con una scarica elettrica un innocente se a ordinarglielo è un uomo in camice bianco.
La storia ci insegna che un numero enorme di persone può essere indotto a partecipare a un genocidio dal proprio governo. E, nel nostro piccolo, che una convenzione oltraggiosamente brutta come quella di un’organizzazione criminale può spegnere le coscienze e accendere i roghi della violenza. Chi volle morto don Pino Puglisi non previde la sua reazione di non allineato, di uno che aveva una vera coscienza, semplice e dritta come il suo percorso nel mondo. Di una vittima che smontò l’effetto grottescamente scenico di un agguato mortale con la più immortale delle armi: un sorriso.

Il fascino (e l’utilità) della nostalgia

Qualche giorno fa su Facebook ho accennato al potere salvifico della nostalgia e per comodità riporto di seguito il post.

Non sono mai stato un nostalgico, ma sto rivalutando la nostalgia. Ne “Alla ricerca del tempo perduto” di Marcel Proust, il narratore assaggia una madeleine che sprigiona un torrente di memorie e in tal modo umanizza l’atto del ricordare a distanza di tempo. Così mi sono convinto a provare qualcosa del genere – tipo ingurgitando un panino con le panelle di una particolare friggitoria – e mi sono arreso dinanzi alla constatazione che la nostalgia è in realta una bella rampa di lancio per il futuro: non solo ci fornisce un’ancora mentale e fisica quando il paesaggio cambia, ma ci fa concentrare su ciò che per noi è più prezioso. Detto questo, sto leggendo un po’ di roba sull’argomento (anche tosta, al limite del pungente) e per i quattro/cinque interessati ci tornerò su prossimamente.

Quindi mantengo la promessa e tiro in ballo una giornalista scientifica, Elizabeth Svoboda, che qui ha scritto di nostalgia parlando di una malcelata vergogna che ci prende quando ci culliamo nei ricordi: “Questo senso di disprezzo per l’esplorazione dei meandri del nostro passato ha una tradizione secolare. La parola “nostalgia”, coniata nel seicento dal medico svizzero Johannes Hofer, è composta dalle parole greche nostos (ritorno) e algos (dolore)”. Solo che Hofer usava il termine per descrivere una presunta malattia riscontrata nei soldati mercenari svizzeri che si struggevano per la patria. Era convinto che i sintomi – tipo attacchi di pianto e perdita di appetito – fossero causati dalla “vibrazione degli spiriti animali attraverso quelle fibre del mesencefalo in cui resiste ancora l’idea di patria”. Poi, per fortuna, le cose cominciarono a essere viste in modo diverso. E tutto andò bene (o meglio) sino all’avvento dei social network quando la nostalgia divenne nuovamente una malattia collettiva: gruppi come “si stava meglio quando si stava peggio”, “cose degli anni settanta che solo chi era bambino negli anni settanta può capire” e via discorrendo hanno più feedback della roba di cronaca.
Quando ricordare diventa un modo comodo per evitare di immaginare, allora siamo di fronte a un pericoloso esercizio di pigrizia. Perché pericoloso? Perché aggirare la nostalgia significa togliersi la possibilità di trovare nuove vie d’uscita quando ci si sente spacciati. Spiega la Svoboda che “in una nuova cura per la demenza chiamata ‘terapia della reminiscenza’ gli specialisti usano foto, oggetti o brani musicali per stimolare conversazioni e riflessioni sui ricordi più profondi dei pazienti”.
Alcuni psicologi hanno fatto studi sull’effetto della nostalgia, tra questi Andrew Abeyta della Rutgers University del New Jersy secondo il quale la nostalgia rende le persone più ottimiste. Il ragionamento, per farla breve, si basa sulla sindrome di Pollyanna, cioè la tendenza a rievocare più facilmente i ricordi positivi rispetto a quelli negativi. E tutto è amplificato da un altro fenomeno riscontrato dai ricercatori: quello secondo il quale quando raccontiamo storie che hanno a che fare con la nostalgia tendiamo a usare un linguaggio più ottimistico del solito.
Insomma, al netto degli esperimenti scientifici, la nostra esperienza non è soltanto passato, non è soltanto ciò che ci è accaduto, ma è la materia prima sulla quale modellare il futuro: come argilla per plasmare forme inedite.

P.S.
Questo argomento mi servirà per introdurre domani la mia conferenza a Piazzetta Bagnasco a Palermo dedicata agli “appunti per il futuro”. Ricordiamocelo sempre: per guardare con lucidità al futuro bisogna tenersi caro il passato.      

Incontrovertibile

L’articolo pubblicato su la Repubblica Palermo.

La parola del giorno è: incontrovertibile. E mi sovviene dal sovrapporsi di due notizie. Una riguarda il neo assessore regionale alla Cultura Alberto Samonà che, in un suo libro di molti anni fa, cita quantomeno con eccessiva leggerezza letteraria le SS (non credo che inneggi, ma di certo offre il fianco a chi ha il difettuccio di odiare il fascismo e i suoi nauseabondi surrogati): soprattutto nell’era in cui la memoria di cui difettiamo quando si tratta di riconoscere meriti si acuisce, magari a mezzo social, per ripescare scivoloni e cadute di stile. L’altra riguarda il direttore del parco archeologico della Valle dei Templi Roberto Sciarratta che, con la sua sedia a rotelle, ha fatto in modo (e verificato personalmente) che il parco sia perfettamente accessibile anche a chi ha difficoltà di deambulazione. L’abbattimento delle barriere architettoniche è da sempre considerato un optional nella nostra società e il fatto che ci sia bisogno di un dirigente in carrozzina per elevare il nostro grado di civiltà, ci mette dinanzi a un’evidenza sulla quale dovremmo riflettere tutti: la disabilità è un modo ingegnoso di vivere, quindi in molti campi rappresenta una competenza in più.

Sono due temi, due ambiti, due scenari diversi, certamente. Ma con un denominatore comune: quando si parla di amministrazione della cultura bisogna sempre tener conto che si maneggia qualcosa di prezioso, addirittura pericoloso se usato maldestramente. Per troppo tempo le politiche culturali sono state affidate ai venti termici delle segreterie di partito, qui più che altrove giacché qui più che altrove un museo o un teatro non sono visti come luoghi di comunità, ma come luoghi di spartizione e/o elargizione: cioè l’esatto contrario della loro natura.  Ecco perché quell’incontrovertibile. Perché dal raffronto di queste due notizie forti, mi è sorta l’esigenza di una garanzia di incontrovertibilità. Che in un caso c’è, ed è evidente. Nell’altro no.     

Saluti e (niente) baci

L’articolo pubblicato su la Repubblica Palermo.

La distanza imposta per decreto è la nemesi di un mondo che da millenni non ha avuto altro obiettivo che togliere metri e chilometri, ridurre differenze geografiche, avvicinare nel tempo e nello spazio. Ma soprattutto certifica l’abbattimento di quei pilastri sociali che al Sud e specificatamente in Sicilia sorreggono la vita quotidiana. Pensiamo allo struscio, che ha generato una figlia imperfetta di nome movida, e che da sempre è la migliore forma di comunicazione non verbale dalle nostre parti: oggi si passeggia a distanza, uno sfioramento è un atto criminale e fischiare attraverso una mascherina è complicato. E il rito del saluto? Nell’era dei rapporti senza corpo, il bacio in tutte le sue declinazioni (da quello di amicizia a quello di rispetto, da quello di seduzione a quello di rito) viene abolito piallando le differenze culturali e sociali: questa Palermo di gente che si saluta con un gesto del capo mezzo clandestino pare una Pechino senza emergenza.

Ci abitueremo, perché noi terroni siamo il giunco che si cala ancora prima della piena. Perché sappiamo identificarci col nostro sintomo, senza vergogna, prima ancora che Lacan ci costruisse sopra una famosa teoria. Siamo l’unica popolazione che usa un alfabeto Morse mentre chiacchiera: ci tocchiamo coi gomiti anche tra estranei per rafforzare concetti, per sottolineare, mettere accenti, in una sorta di complicità tattile. Ora ci resta la semplice parola, filtrata con o senza FFP2, e non si può manco più contare sulla mimica facciale, che è scorciatoia ed enciclopedia di emozioni al tempo stesso. Nei nostri scambi c’è solo il messaggio crudo, senza l’immenso corredo di non detto che fa romanzo (e anche un po’ cronaca). Il futuro è un Totò Cuffaro senza baci.