Quel no a Peppino Impastato

Nella storia dei ragazzi del liceo di Partinico che dicono no all’intitolazione a Peppino Impastato perché “troppo politicizzato” e/o “divisivo” ci sarebbe da andare a fondo che più non si può. Cioè bisognerebbe presentarsi a questi ragazzi, ascoltarli, impiantare una redazione in quella scuola, ora, subito. Spogliarsi di tutte le certezze giornalistiche prêt-à-porter e mettersi in dubbio, noi giornalisti, noi raccontatori di storie, noi orecchianti di vite che non sono le nostre. Perché in quel “troppo politicizzato” e/o “divisivo” c’è un sintomo importante: che sia malattia o evoluzione, ribellione o strumentalizzazione è tutto da scoprire.
In “1979” (scusate se ci torno ma è una ferita ancora aperta, come tutte le creature artistiche sono ferite felicemente sanguinanti) c’è un paragrafo dedicato a Impastato che definisco come bell’immagine trendy dell’antimafia, bella nel volto e nel messaggio (“la mafia è una montagna di merda” era uno slogan geniale, allora). Sino a ieri Impastato era un’icona intoccata in quello che un tempo si chiamava immaginario collettivo e che oggi potremmo chiamare mainstream.

Ora i ragazzi di Partinico lo hanno messo in dubbio. E avranno le loro ragioni se gli preferiscono l’ex sindaco Gigia Cannizzo o Rosario Livatino (che non sono concorrenti, ma semmai comprimari – ognuno col suo ampio merito – di Peppino).
La tentazione sbrigativa è quella di guardare alla giunta di centrodestra per trovare un appiglio di condizionamento. Ma è troppo facile. E le cose troppo facili sono per noi giornalisti una mano su una campanella: quando suona bisogna drizzare le antenne, almeno così dovrebbe essere.
Mi piace pensare che il Peppino Impastato politicizzato e divisivo sia in fondo il vero Peppino Impastato, perché dividere, far discutere e (ri)animare il cuore della politica è in fondo il vero ruolo dei leader. Un bell’esempio è colui il quale scuote gli animi nelle buone intenzioni che vanno oltre la messa cantata. Di santi e unti dal Signore siamo pieni fino all’orlo di una indecente sopportazione (in fondo siamo il Paese che celebra corrotti e riabilita criminali conclamati). E comunque per loro ci sono già chiese, opere pie, programmi tv. Insomma c’è spazio a sufficienza.
Una scuola intitolata a un ribelle, eroico e ironico, geniale e solitario, è secondo me il migliore omaggio alla rivoluzione nonviolenta contro i violenti di ogni epoca, di ogni censo, di ogni colore politico.
Questo, se avessi un giornale, direi a quei ragazzi.

Per amor di clic

L’altro giorno ho postato sui social una mia foto di quando avevo vent’anni o giù di lì, con questo testo:

Oggi, svuotando cassetti, mi è tornata tra le mani questa foto. È dei primi degli anni ottanta, riflette una fase che credo molti dei miei coetanei hanno vissuto: quella del cuoio, dei capelli lunghi, delle perline, di qualche canna, e via dicendo. E senza ricamarci su troppo ho pensato che abbiamo avuto davvero una possibilità immensa in giovinezza: quella di avere la più ampia possibilità di sbagliare da soli. Senza suggerimenti di senza volto, senza intelligenze artificiali, senza inganni cibernetici. Si sbagliava e basta. Senza sconti e franchigie. Si sbagliava e la conseguenza era lì, davanti ai nostri occhi con tutto il suo carico di forza analogica. Le ferite e i lenimenti erano reali, senza trucchi e illusioni.
E, badate bene, non è nostalgia. Ma consapevolezza: dobbiamo stare vicini ai nostri giovani, ai figli di questo tempo pericolosamente liquido. Perché sono loro i veri supereroi.

Ne sono scaturite alcune riflessioni pubbliche e private, tra le quali una mi ha colpito in modo particolare. Prima dell’avvento degli smartphone le foto erano fondamentalmente una testimonianza di affetto. Si centellinavano perché la pellicola costava. Erano dono ponderato. Non si pensava alla futura memoria, ma all’incorniciatura del presente. E soprattutto racchiudevano non solo l’essenza visibile del soggetto, quanto l’impronta di chi le faceva.
Di ogni scatto ricordiamo perlopiù chi ha fornito il dito cruciale. E se non lo ricordiamo magari ci struggiamo: aderisco a quella corrente di pensiero secondo la quale uno scatto anonimo è uno scatto monco nella memoria della nostra vita (in generale odio le cose anonime tipo i regali senza un pensiero, un biglietto).
Nulla a che vedere con la fotomania contemporanea dove la narrazione non sta davanti all’obiettivo, ma dietro il mezzo di diffusione. Non vi sfuggirà che il selfie, il più importante mezzo di autopromozione degli ultimi dieci anni, un tempo si chiamava autoscatto ed era quanto di più clandestino si potesse immaginare in presenza di una macchina fotografica.

Alla luce di tutto ciò la tentazione sarebbe quella di considerare i nostri album cartacei – ne ho a decine – una sorta di spoon river dei ricordi o meglio delle esperienze. Per fortuna quello che sino all’altroieri chiamavamo progresso e che oggi chiamiamo innovazione ha i suoi lati positivi. Come quello di poter inanellare facilmente righe anarchiche (tipo queste) nei confronti del tempo e dei tempi e farne veicolo di un pensiero, né antico né moderno. Un pensiero e basta.
Pensare è la cosa più difficile del mondo se non sei stato addestrato a farlo.

Chi fa cosa

Chi fa cosa. Tre parole per stabilire la differenza tra un progetto a cazzo e uno che ha qualche possibilità di riuscita. Siamo circondati prevalentemente da due categorie di persone: quelli che non vogliono fare nulla e quelli che vogliono fare tutto loro. In mezzo, componente minoritaria al limite della categoria protetta, quelli che fanno solo quello che sanno fare senza rubare il lavoro agli altri e senza risparmiarsi sul proprio.

Chi fa cosa è anche un buon esercizio di fiducia e di responsabilità.
C’è una regola che usiamo coi miei amici quando si cucina insieme: se uno mette una pietanza in forno è tenuto a controllarla lui, con assoluto divieto di demandare ad altri.
Chi fa cosa è anche un modo per premiare il merito. Mi è capitato spesso di trovarmi sottoposto a giudizi di ogni genere: personali, professionali, artistici, eccetera.
Li ho accettati tutti, e mentirei se dicessi che l’ho fatto sempre volentieri: nessuno gode nel sentirsi scansato, pestato, sminuito.
Il problema è il chi fa cosa, appunto. Che non va confuso col diritto di critica, che è garantito sin quando non si entra in competenze concorrenti, in precari ambiti gerarchici, in sistemi professionali blindati.

Insomma io posso dire a un light designer che il suo progetto non mi convince, ma non posso sostituirmi a lui e fare di testa mia: perché non ho la sua professionalità, la sua arte, non ho studiato quello che ha studiato lui, inoltre parlo solo per il mio gusto. E coi gusti, che spesso sono capricci, non si fa innovazione (ma di questo parleremo in modo approfondito un’altra volta).

Il chi fa cosa, osservato in modo rigoroso, serve a costruire il migliore dei progetti, quello che porge al mondo un cibo diverso che va sottoposto a giudizio: se è migliore degli altri è giusto che viva e proliferi, altrimenti non è uno scandalo se soccombe.     

La forza dei dubbi

Sin da quando ero bambino… anzi no… sin da quando eravamo bambini tendiamo a lasciarci affascinare dal mondo che per noi è ontologicamente complicato. Io ad esempio ero affascinato dalle radioline che negli anni settanta si usavano moltissimo, quasi come gli smartphone di oggi: si portavano dappertutto, in ufficio, in macchina (non tutti avevano le autoradio anche se l’impianto elettrico disturbava la ricezione), allo stadio. Per capire meglio come funzionava una radiolina la smontavo pezzo per pezzo, insomma la sfasciavo. Ed era un bel paradosso, un paradosso che ha a che fare con molte situazioni che avrei vissuto da grande: certi sentimenti di afflato, amore, passione, curiosità, si attagliano in qualche modo perverso alla distruzione.

Insomma sin da quando ero bambino – sin da quando eravamo bambini – la tendenza era quella della semplificazione: ridurre una macchina complessa a un insieme di viti, di ingranaggi, di fili per decrittarne il funzionamento, per carpirne (o rubarne) l’anima.

È il segreto della vita. Per entrarci – nel segreto e nella vita – bisogna farsi largo attraverso singole serrature e le chiavi le otteniamo studiando, affinando i nostri sensi, alimentando la curiosità: ma è solo il primo passo.

Piano piano, andando avanti ci siamo resi conto che quello della semplificazione non era l’elisir di lunga vita. Persino l’avvento della tecnologia ha contribuito ad alimentare l’illusione. Un mondo infinito ridotto a un codice binario, ma com’è stato possibile crederci! Come la mela primordiale: la mangi o no, on off, maschio femmina, vita morte, albero serpente. Il peccato originale è vegetariano, ahimè.
Abituati a schematizzare al ribasso ci siamo incartati nelle questioni complicate. Prendete la mafia. Ci hanno preso per i capelli e ci hanno sbattuto la verità, anzi la “verità”, in faccia: o con loro, o con noi.
Giusto, però anche in questo caso abbiamo pensato che gli scenari fossero semplici. Bianco o nero, non ci si può sbagliare, facilissimo. Lo confesso. Questo pensiero l’ho maturato in tarda età, quando ho cominciato a scrivere di mafia per il teatro. Il teatro vive di codici, l’arte matura tra gli opposti. Però la narrazione per come ci era stata tramandata era in bianco e nero, cioè non teneva conto delle infinite tonalità intermedie tra un opposto all’altro.
Era semplice e semplificata. E non teneva conto del colore più pericoloso e infido: il grigio.

Oggi, davanti a guerre inaudite, perché moderne e medioevali al tempo stesso, credo che si debba prendere atto che questa narrazione non funziona più.
Serve attribuire la giusta complessità alle cose, senza tuttavia cadere nella trappola del suo eccesso, il complessismo.
Serve una maggiorazione delle quote di pluralismo nei nostri consessi sociali, nelle nostri luoghi della politica, nei nostri luoghi della cultura (molto soffocati dalla paura della complessità che non sia meramente artistica, esecutiva).
Non può esserci un dibattito su Hamas, Gaza e Israele senza una base di difficoltà condivisa, chiara, esplicita, dichiarata.

Io non so, non capisco… Quindi se sono, tipo, Zerocalcare spiego perché diffido di Lucca Comics però non mi astengo, magari vengo solo per raccontare i miei dubbi e raccogliere i vostri.

Non ne sono certo, non sono certo di nulla (tranne delle mie papille gustative che mi fanno giudicare un cibo o un vino in modo per me incontrovertibile).
Il tramonto della semplificazione come salvagente allunga le ombre dell’incoerenza: possiamo cambiare idea, forse dobbiamo, perché i tempi ci impongono di farlo. I nuovi barbari non vengono da un Paese diverso, ma si sono armati nell’appartamento sopra il nostro. Il vero diverso non ha sesso e colore che non sono i nostri, ma un minore rispetto della vita, sua innanzitutto.  
Dovremmo rivedere i nostri riti, le nostre certezze domenicali, i nostri privilegi da tinello.
Prima di discutere dobbiamo imparare a recitare una preghiera laica che ci imponga di scambiarci i dubbi. Come segno di pace.

Rosalia e i suoi follower

Siamo un popolo che si ritiene salvo dalle conseguenze dei suoi misfatti solo compiendo un rito annuale: percorrere a piedi (senza manco un tempo stabilito) meno di quattro chilometri verso un santuario grossolanamente ignorato per 364 giorni all’anno, come la montagna su cui sorge.
Chiedere il massimo facendo il minimo è una comoda livella social: tutti insieme, politici, borghesi, poveracci, giovani, fedeli, scippatori, giornalisti svogliati, aspiranti influencer, candidati a qualcosa, vittime di qualcuno, scalzi, runner, biruote, soli, accompagnati, questuanti, insoddisfatti, giudici, condannati, felici per grazia ricevuta e infelici per grazia mal utilizzata.
Solo che Rosalia è una tipa strana. Io lo so perché sono il migliore/peggiore dei miracolati, cioè quello preso a caso nel mazzo degli indolenti che della religione ne aveva piene le scatole e che l’unico Padre Nostro che conosceva lo aveva imparato dai gesuiti che detestava. Lei mi ha preso e mi ha tirato fuori dal buio in cui ero già per metà. Così, dal nulla: lasciandomi nudo e imbarazzato nel mondo di fallaci certezze che mi ero costruito intorno a mo’ di fortino. È come il coma, il miracolo. Solo chi ci è passato ha una voglia di urlarlo al mondo pari all’incapacità di farlo.
Quello che so è che Rosalia è una solitaria, odia essere assillata. Per dire, l’hanno messa in una grotta e lei ci ha fatto piovere dentro, nel regno della siccità. È una che si è rotta i coglioni ante litteram e questo me l’ha resa simpatica.
Ora tutta questa folla di follower che scala il suo account ingrottato è sicuramente un bell’effetto sulla parete della montagna sfregiata dal fuoco dei malvagi. Ma per quanto ne so la grazia non si elemosina con meno di quattro chilometri all’anno. Non si guadagna sfumacchiando vista mare, col cellulare nella mano libera e la testa all’auto lasciata sulle striscie pedonali.
No, ti prende alle spalle quando meno te lo aspetti. E ti sussurra nell’orecchio: uuuh, sorpresa…
Come la morte. Ma con più ironia (almeno con Rosalia).

L’arma della nostalgia

Durante l’emergenza Covid mi impegnai al massimo per cercare di mettere a frutto tutta la mia (modesta) esperienza di futuro, che detta così sembra un ossimoro dato che l’esperienza proviene necessariamente dal passato. Su questo blog ne venne fuori un longform che fornì stimoli per qualche dibattito pubblico e per proficue discussioni private. Finita l’emergenza Coronavirus ho rivisto alcuni miei appunti di allora, soprattutto questo sulla nostalgia come ponte tra passato e presente. E mi sono inchinato dinanzi alla constatazione che, cambiando le cose e le situazioni, cambia anche il nostro modo di guardare il (o al) mondo.

Lo spunto me lo ha dato l’invasione russa dell’Ucraina nel febbraio del 2022 (sono uno a lenta carburazione). Perché la guerra è il banco di prova dei nostri convincimenti. Un tempo ci si muoveva con le armi per guardare avanti, per promettere un futuro migliore ai figli della patria. Oggi il futuro come elemento fondante di materia prima non tira più.
I nuovi nazionalisti, i nuovi populisti, i nuovi trumpiani di ogni landa promettono l’antico fasto, il ritorno del vecchio inscalfibile potere, in una parola il passato.
La stessa idea di nostalgia è cambiata. Una volta si concentrava su un luogo specifico, su un panorama, su un’abitazione, magari quella della nostra infanzia. Insomma la nostalgia aveva odori e sapori.
Oggi il tempo (ergo il passato) ha sostituito lo spazio (ergo la casa d’infanzia) quindi, come ha suggerito lo scrittore Georgi Gospodinov, forse si dovrebbe usare un altro termine, tipo cronostalgia.

Le guerre per il passato, per riscriverlo, per rifondarlo, per spalmarlo su un presente incerto sono esattamente il contrario di ciò per il quale le generazioni del secolo scorso hanno vissuto e spesso combattuto. Erano proprio le difficoltà del loro presente, ai tempi di quel presente, a spingere quei popoli verso il futuro.
Invece oggi Putin e quelli come lui combattono in un’altra epoca spacciandola per una contemporaneità diffusa e condivisa. È da qui che discende tutta la caterva di nefandezze che conosciamo del dittatore russo e non solo: la cancellazione del confine tra verità e menzogna; la considerazione della vita umana come un bene esposto su un bancone del mercato; l’esasperazione delle polarizzazioni economiche, sociali e politiche.
Quando il passato diventa un alibi, la verità muore.
Quando la nostalgia cambia pelle, la ragione muore.

Cortocircuito

Ogni tanto, leggendo libri e giornali, mi capita di imbattermi in cortocircuiti logici. È una sensazione piacevole giacché mi dà due certezze: la prima è quella che c’è sempre qualcosa da imparare anche quando non si studia; la seconda è che sono ancora vivo, che con certi chiari di luna non è cosa da poco.

Qualche tempo fa mi chiedevo perché minuscole minoranze come i tassisti o come gli operatori balneari hanno così potere in Italia (poi se lo sono chiesti pure qui con riflessioni assolutamente aderenti alle mie). Immagino che alcuni di voi si siano fatta la stessa domanda: com’è possibile che un gruppo sparuto di cittadini possa mettere sotto scacco un governo? Le risposte ovviamente sono diverse, a seconda della categoria coinvolta. È chiaro che, ad esempio, dieci magistrati che protestano contano molto di più di dieci fruttivendoli incazzati. Ed è altrettanto chiaro che il potere di ricatto di un gruppo con addentellati in politica ha un peso diverso rispetto a un manipolo di lavoratori indipendenti e senza santi in paradiso.

C’è una teoria messa nero su bianco nei primi anni Sessanta dall’economista statunitense Mancur Lloyd Olson che spiega in modo uniforme questo fenomeno. In soldoni Olson dice questo: più piccolo è un gruppo di interesse, maggiore è la probabilità che questo gruppo raggiunga i suoi obiettivi.
Nel suo libro “La logica dell’azione collettiva”, Olson nota ad esempio che mentre i gruppi più grandi avranno costi organizzativi relativamente elevati, i costi dei gruppi più piccoli saranno bassi. “Inoltre, il guadagno pro-capite derivante da un’azione collettiva di successo è relativamente minore nei gruppi più grandi, rispetto a quelli più piccoli. Per tutti questi motivi, l’incentivo all’azione di gruppo decresce con l’aumento delle dimensioni del gruppo: i gruppi più grandi sono meno capaci di agire nel proprio interesse comune rispetto a quelli più piccoli”.

E sin qui tutto bene.

Poi mi sono imbattuto nell’ ”effetto Massie”, cioè in quello strano fenomeno per cui le persone che sostengono una causa giusta spesso sono convinte di essere una minoranza. È un’espressione coniata dal saggista statunitense Seth Godin dal nome di Miranda Massie, che si è occupata del fenomeno e che ha fondato il “Climate museum”, il primo museo negli Stati Uniti dedicato ai cambiamenti climatici. Il direttore di “Internazionale” Giovanni De Mauro l’ha citata a proposito di  uno studio dell’università di Princeton, pubblicato dalla rivista “Nature Communications”, secondo il quale “le persone tendono a sottostimare quanto gli altri siano favorevoli alle politiche per il clima. Quasi l’80 per cento degli statunitensi pensa sia necessario intervenire per combattere la crisi climatica e al tempo stesso pensa che solo il 37 per cento di tutti gli statunitensi sia d’accordo su questo”.

Ecco il cortocircuito. Da un lato il potere inconsapevole di una minoranza, dall’altro la debolezza immaginaria di una maggioranza. Tra maggioranze che si credono minoranze e viceversa il succo che ne ho tratto è che l’unica maniera per rompere gli specchi deformanti della realtà sociale e politica è informarsi, esercitare curiosità, parlare, succhiare la sapienza altrui.
Più scuola, più libri, più internet (che non è il demonio), più arte, più dibattito, più scontro di idee. Sembrano slogan, invece sono un’ancora di salvezza. L’unica.

Tra giudizio e godimento

Se dovessi stilare una classifica dell’imbarazzo, oggi ora subito, metterei al primo posto quella del giudicare. Che detta così sembra una prudenza di facciata, una dichiarazione ecumenica. Invece no, è una sensazione molto attuale, abbastanza imbarazzante e poco condivisa.

Probabilmente si tratta di una conseguenza del periodo di scioccante incertezza nel quale ci troviamo, figlio di un periodo in cui l’incertezza era addirittura tragica. O magari è un semplice rigurgito prudenziale: la prudenza, se si accumulasse, sarebbe la mia risorsa segreta dato che poco o mai l’ho usata. O ancora mi trovo dinanzi a un fisiologico reflusso di disillusione: si cresce a strappi, e negli strappi si perde sempre qualcosa che ha a che fare con la fiducia.
Fatto sta che soffro sempre più quando sono costretto ad arrivare a conclusioni che non siano spontanee, quindi a comando: (anche) per questo scrivo meno sui giornali e più qui.
Il vero rimedio a questo imbarazzo lo trovo rifugiandomi nelle opere dell’ingegno altrui, nelle opere d’arte a qualsiasi livello (dobbiamo smetterla con questa menata dell’arte di serie A e di serie B).
Un’opera d’arte, che sia teatro o musica, cinema o pittura, può lasciarci sospesi in uno spazio di contemplazione di una realtà sociale senza costringerci ad arrivare a una conclusione. A differenza di un’ordinaria chiamata all’azione ci può consentire di goderci tutto il tempo che vogliamo prima del “quindi” finale. Probabilmente tutto ciò è conseguenza della polarizzazione dei nostri rapporti, polarizzazione incrementata dagli algoritmi e dalle politiche estremiste egemoni in questo momento storico. E mentre scrivo queste righe mi rendo conto che il mio imbarazzo in fondo ha figliato negli anni opere che pur aggrappandosi alla cronaca se ne sono discostate nel giudizio, consegnando lo spettatore a quella che più volte ho descritto come la verità del dubbio.

Insomma l’arte può rappresentare una landa di pensiero, magari strano e indeterminato, in cui per una volta le antiteticità si placano. In cui per una volta gli ultras di chi ha torto e di chi ha ragione si mescolano senza doversi costringere al gioco umiliante della resa dei conti.
Mettiamola così: godere per capire e viceversa.     

Il filo di lana

Questo ragionamento parte da un mezzo per arrivare a un contenuto.
Per molti anni, diciamo dagli anni Novanta, ogni mattina – ogni santa mattina – le prime due telefonate che ho ricevuto sono state quelle di due persone: mio padre e il mio amico Francesco.
Sempre.
Mio padre per via della sua ormai celebre invadenza affettiva si sincerava che fossi sopravvissuto a impegni/bagordi/fatiche della sera prima (ho vissuto prevalentemente di notte per un bel po’ di vita) e al contempo si portava avanti nella soddisfazione della sua atavica curiosità chiedendomi come buttava la giornata sul fronte della cronaca. Francesco cazzeggiava a 360 gradi su presente/passato/futuro di una vita che condivideva con me – per via del nostro lavoro – ancor più che con la sua famiglia: allora al giornale marciavamo per 12 ore al giorno.
In entrambi i casi c’era sempre una risata a fare da sfondo, anzi un sorriso. Il sorriso di essere comunque in una comfort zone, di aver un sentimento come scudo contro le rotture di coglioni del mondo.

Il mezzo era il telefono (il mio primo cellulare risale al 1992), il contenuto era qualcosa che ancora oggi mi viene difficile da spiegare. Perché non era solo affetto, non era solo attenzione, non era solo routine. Era un po’ di tutto questo, sì. Ma era anche quello che chiamo “effetto filo di lana”. Un filo di lana è leggero, è piacevole al tatto, anche se insignificante preso da solo. Ma se lo intrecci, se riesci a farlo transitare dallo stato matassa allo stato maglione diventa ben altro. Diventa calore, abbraccio, sicurezza ordinaria.
Il nostro problema – ammesso che statisticamente almeno un paio tra voi possano condividere questo ragionamento – è che non è impossibile trovare fili di lana, ma è molto difficile indossare nuovi maglioni che ci stiano bene.
Assodato (assodato davvero?) che per fare un bel maglione servono impegno, materiali di qualità, buona volontà, è evidente che siamo troppo frettolosi nel liquidare le cose di questo genere come effetti collaterali della nuova socialità liquida, mentre la narrazione è un’altra: il rapporto tra mezzo e contenuto è sopravvalutato.
È un alibi e basta.
E l’alibi non ci darà mai calore, abbraccio, sicurezza ordinaria.

Maschere

Il carnevale l’ho sempre odiato, a parte una volta in cui organizzai una mega festa in maschera a Palermo (in realtà non la organizzai, feci l’istrione in cambio di una quota dei profitti) e guadagnai un mazzo di soldi col quale mi comprai una moto. Per il resto, delle carnevalate con annesse maschere e finzioni ricordo un orribile costume che mi venne imposto da bambino: frac, cappello alto (ancora oggi non so come si chiama), pantaloni a tubo e bastone. Io pensavo di essere travestito da vecchio e invece appresi con orrore che il mio era un costume da lord inglese. Non lo dimenticherò mai: lord inglese. Che minchia voleva dire lord inglese?

I miei amici avevano Zorro, Superman, Strega (c’era una strega di dieci anni che mi toglieva il sonno), cowboy. Mio fratello era vestito da indiano: col copricapo di piume (ancora oggi non so come si chiama), un paio di stracci colorati addosso, quattro strisce in faccia e faceva la sua figura.
Io ero lord inglese. Che nella mente di un bambino significa una persona poco pulita che sta oltremanica (oltremanica è un concetto che ho metabolizzato molto dopo, ma ora serve per sdrammatizzare).
Tutti gli zombie, gli sceriffi, le principesse, le fate (c’erano fatine truccate che ancora oggi ricordo con imbarazzante turbamento) mi chiedevano “da cosa sei vestito”? E nell’attesa disperata di trovare una risposta – i vestiti di carnevale duravano anni, mica si smaltivano in tempi ragionevoli – mi inventai una risposta che era anche una soluzione. Riuscii a farmi regalare un bastone diverso da quello da vecchio che mi era stato assegnato: era un bastone che svelava un’anima da spada, ovviamente finta, di plastica.
Quindi aggiornai la narrazione: chi poteva portarsi appresso un arnese del genere? Non certo un fantomatico lord inglese, ma…
… un agente segreto!
Fu così che trasformai un handicap in un’occasione.
Ero travestito da agente segreto!
Un vestito insulso – devo avere qualche foto se non si è autodistrutta – per miracolo diventò un travestimento del travestimento.
Ero uno 007 con licenza di sopravvivere in mezzo a costumi più divertenti, finzioni vere.
Solo molto tempo dopo avrei imparato che i carnevali passano, ma certe maschere restano.