Siamo vecchi

Finisce lo stato di emergenza e come sempre la fine di un’emergenza pesa meno, emozionalmente parlando, del suo esplodere. Eppure negli ultimi due anni, gli anni che hanno cambiato radicalmente i nostri stili di vita, non c’è stato attimo in cui quell’emergenza non sia stata presente nelle nostre esistenze.
Soprattutto – è la cosa che mi impressiona – è importante capire quanto questa situazione estrema abbia modificato la nostra percezione temporale.
Siamo invecchiati ben più di due anni.
Perché ad essere colpito è stato il sistema di relazioni, che è quella cosa che ci consente di avere consapevolezza del passare del tempo, più di uno specchio, più di un’autopalpazione della coscienza. Il rapporto con l’altro è l’unità di misura della nostra autostima, del mutare delle stagioni della vita, della disponibilità a concederci e dell’inclinazione a ritirarci.
Personalmente se mi guardo nel 2019 mi vedo molto diverso da oggi. Non peggiore, ma nemmeno migliore. Diverso. Perché è cambiato il mio rapporto con gli altri, necessariamente.
Detto da uno che si avvia a una (speriamo) serena anzianità il discorso ha una valenza tutto sommato declinabile in termini di rimbambimento più o meno precoce. Ma mettetevi nei panni di un giovane. Il suo radar ha girato a vuoto per due anni e gli unici puntini sullo schermo che lo hanno illuso di non essere solo sono surrogati di presenze, emozioni prettamente virtuali.
Non è vero che la tecnologia ci ha salvati, almeno non è vero che ci ha salvati fisicamente. Ci ha aiutato economicamente, certo. Ci ha insegnato a non diffidare più del futuro. Ma fisicamente ha devastato le nostre cellule migliori, quelle dell’immaginazione più pura.

Mi spiego meglio.

Io in questi due anni ho lavorato molto, più degli anni precedenti. E ho lavorato con i miei strumenti: creatività, tecnologia, fantasia. Ma ogni mio prodotto di questo periodo sarà inevitabilmente marchiato dalla pandemia, anche in modo inconsapevole. Perché le mie cellule dell’immaginazione sono state inquinate da una situazione estrema e omologante.

“Estrema e omologante” sono i termini su cui vi invito a riflettere.

Perché che le situazioni estreme siano cibo per la nostra operosità creativa non ci sono dubbi. Se viaggio per 836 chilometri a piedi con uno zaino in spalla è chiaro che ne viene fuori una narrazione in qualche modo degna di nota. Ma se tutti quanti fossimo costretti a fare quei chilometri a piedi e in simultanea, il prodotto sarebbe molto diverso. Sarebbe omologato e omologante, quindi disperatamente scialbo.
Le narrazioni sono di chi legge, ricordiamocelo. Nessuno può apprezzare un panorama al buio. Il problema dell’ignoranza dilagante sui social e delle fake news ha a che fare con questi corto-circuiti. Notizie estreme ed omologanti da leggere a occhi chiusi sono non-notizie pericolosissime. La finta cultura attecchisce tra chi non si fa domande.
In questi due anni il dato più drammatico dopo la morte e la disperazione per un virus canaglia è stato quello dell’esplosione di una incultura tanto violenta quanto colpevole che ha cercato di omologare una situazione estrema derubricandola a mero complotto.
Una vera azione criminale che prima o poi dovrà incontrare il suo opposto definitivo: la giustizia.
“Ne usciremo migliori”: ci eravamo illusi quando ci ritrovammo reclusi in una prigione grande come le nostre città, ma non per questo meno disagevole. Non avevamo fatto i conti con noi stessi, con la nostra indole incerta, con il nostro egoismo.
Non se ne esce mai migliori se si entra peggiori.

Se i teatri non interessano alla politica

L’articolo pubblicato su Repubblica Palermo.

Tutto è più difficile quando in una città come Palermo, in una terra come la Sicilia, si avvicinano le elezioni. Perché nell’attesa del momento cruciale del voto – l’appuntamento elettorale è ontologicamente compreso nella categoria di “cose in divenire” – non si trova nulla di meglio da fare che rallentare, diluire, fermarsi. In un raro momento di comunità d’intenti la politica e la burocrazia tendono a spegnere i motori, da un lato per una sorta di indolenza da ultimo di giorno di scuola, dall’altro per non concedere vantaggi a chi arriverà.

Il caso più eclatante scaturito da questa pericolosa miscela di immobilismo e menefreghismo è quello della cultura. L’esempio dei teatri cittadini affamati da una guerra tra bande nei palazzi della politica è cruciale. In questi casi l’imperativo politico è quello di prendere decisioni soltanto quando non ci sono più alternative. Attenzione, questa logica non è nuova e non l’hanno inventata a Palermo: ne ha parlato lo scorso anno Alessandro Baricco quando ha tratteggiato i limiti della cosiddetta “intelligenza novecentesca”. “Se io sbaglio una serie di gesti, arriverà un momento in cui fare una cosa sbagliata sarà l’unica cosa giusta da fare”, ha scritto. “L’intelligenza novecentesca non trova soluzioni che non siano obbligate perché quel che sta giocando è un suo finale di partita, la posizione dei pezzi è da tempo determinata da strategie decise nel secolo scorso, i pezzi persi non si possono più recuperare”.
La politica isolana chiamata a decidere su arte e cultura si muove quando non ci sono più alternative. Col risultato di non scegliere, di non imprimere un’orma: però senza alternative non si prendono decisioni e si è ostaggi (quantomeno) di se stessi.
Quando ci si muove per emergenze (vale non solo per la cultura, ovviamente) non si esercita nessun ruolo di indirizzo, di governo. Quella delle spalle al muro non è una strategia, ma una resa. Tutto ciò innesca un circolo vizioso: se al governante non interessa la sopravvivenza degli artisti, il popolo che gli andrà appresso non si accorgerà più della morte della cultura perché nessuno avverte la mancanza di ciò che non conosce o che ha dimenticato. È qualcosa che accade ogni giorno, col benaltrismo applicato alle mille emergenze di una città sporca e affamata (non solo di cibo), con l’irritante sentire comune per cui c’è sempre qualcosa di più importante di cui discutere quando il problema non riguarda traffico e immondizia, con il trionfo dell’improvvisazione e il divieto assoluto di pianificare.

C’è poi il capitolo più inquietante. Quello dell’innovazione.

Per troppo tempo il futuro e la cultura sono stati considerati temi distanti tra loro. La Sicilia è terra di passato per eccellenza, monumento e simbolo di storia. I nostri scrigni d’arte brillano di luce propria.
Ribadiamolo: del passato si dovrebbero occupare gli storici, del presente i burocrati, del futuro i governi. Ora, in vista dell’ennesima tornata elettorale c’è solo una rivoluzione obbligata, quella del futuro (di cui abbiamo abbondantemente parlato qui). Ma per arrivare al futuro è vincolante dichiarare che il presente è un investimento che può avere costi altissimi.
È come costruire una metropolitana in una città dalla mentalità medioevale (ve ne viene in mente qualcuna?): anni di scavi, sacrifici per i cittadini, disagi tremendi, polvere, clacson, soloni urbanisti, cialtroni urbanisti, cialtroni e soloni senza specializzazione. Si paga oggi per ciò che servirà domani. E la verità è che il governante che si impegna a prendersi i fischi e gli improperi per quei lavori si sta curando del futuro di quegli stessi cittadini che lo maledicono. Ma è complicato da spiegare se non esiste una mentalità che inquadra le cose nel loro divenire e invece le fotografa e basta.
A questo serve la cultura. A dare l’inquadratura giusta, a fungere da terza dimensione per donare profondità persino alle urgenze più fastidiose: soffri oggi per godere domani e sempre.
Si dice innovazione e si pensa ai computer o al wi-fi libero, che sono cose che da sole non servono a un tubo. La vera innovazione sta nel provare a uscire dalla famosa “intelligenza novecentesca” di cui sopra. Serve una visione nuova che ci imponga di addestrarci per affrontare una realtà che cambia a velocità vertiginosa. Provate a frequentare un ufficio pubblico per testare la volontà di adattamento, la capacità di reazione. Si fanno leggi e regolamenti per situazioni statiche che mai si verificheranno nella realtà e si cerca di cristallizzare decisioni che riguardano ambiti estremamente fluidi. Si usa la flessibilità solo per costringere i lavoratori a orari più elastici, quindi per un uso magari mortificante, ma non la si prende minimamente in considerazione per agevolare, chessò, un progetto artistico che merita.
Innovazione è premiare la competenza e proteggerla dalle scorribande dei caporioni di quella politica che usa i voti come carta moneta. È soprattutto giocare a carte scoperte, senza blindature partitiche né adunate populistiche. Se ci pensate, la prima cosa che i candidati a sindaco fanno è andare a stringere mani e imbastire promesse nei mercati popolari.
Avete mai visto uno che fa la stessa cosa in un teatro, in una libreria, in un museo?

L’imbarazzo per i peni delle statue

Va bene. Vi sembra di aver letto male. Ma state tranquilli, il tema è reale. Come l’occhiata che vi capita di gettare sugli attributi di una statua di nudo classica. Mi è capitato di occuparmi per lavoro anche di questo. Ebbene sì. Perché quando scegli di scrivere per mestiere è un po’ come decidere di navigare in mare aperto: un giorno becchi bonaccia, un altro ti tocca l’onda lunga, un altro l’inusitato conto presentato dal destino. Ecco, a me è toccato parlare di peni antichi.
Comunque, sfida accettata. Mi sono andato a documentare e ho scoperto qualcosa di interessante. Sarei tentato di dire che magari qualcuno di voi, più esperto, certe cose le sapeva già. Ma poi dovrei specificare di cosa sareste più esperti: di antica Grecia, di sguardi indiscreti, di peni marmorei?
Oddio, punto e a capo.
Insomma, didascalicamente parlando, vi basti sapere che gli scultori dell’antica Grecia preferivano adornare le statue maschili con un pene piuttosto piccolo: non certo per pudore o per paura di imbarazzare chi avrebbe ammirato l’opera d’arte. La ragione delle scarse dimensioni è molto più seria e si riferisce all’immagine simbolica dei giovani guerrieri: un pene grande poteva significare uno scarso controllo degli impulsi e l’incapacità di agire con moderazione.
“I greci associavano il pene piccolo e non eretto alla moderazione, una delle virtù principali del loro ideale di mascolinità”, ha spiegato su vari siti e giornali il professore di antichità classiche Andrew Lear, docente ad Harvard, Columbia e New York University.
C’è un contrasto tra i genitali minuscoli senza erezione degli uomini ideali (eroi, dèi, atleti e così via) e il pene eretto e grosso dei Satiri (esseri mitici mezzi uomini e mezzi capra, ubriaconi e dediti alla lussuria selvaggia) e altri tipi di uomini non ideali. Le statue degli uomini molto anziani e decrepiti presentano spesso peni grandi: tipo consolazione insomma…
“L’uomo ideale in Grecia era razionale, autorevole e intellettuale”, ha scritto la storica Ellen Oredsson. “Poteva certamente fare molto sesso, ma questo non era collegato alla grandezza del suo pene. Le sue piccole dimensioni, invece, gli consentivano di rimanere freddo e razionale”.
Chissà, magari ciò che la storia chiama strategia, la pratica chiama consolazione.

Morto più, morto meno

C’è un gran dibattito sul nostro grado di affinità con la causa ucraina e sul peso (o la conta) dei morti nella cronaca e di conseguenza nella storia. La guerra alle porte dell’Europa ci riporta a esigenze di comunicazione inequivoche, a schemi logici che garantiscano qualcosa di fondamentale: la libertà di provare dolore, avvilimento ed empatia con la parte oppressa.

Un’avvertenza: non parlo di ragioni politiche, né faccio un’analisi tecnica dell’invasione Russa in Ucraina (che non si capisce bene perché alcuni giornali chiamano “conflitto tra Russia e Ucraina”), ma mi limito ad analizzare la percezione di questi eventi e i codici di comunicazione. Del resto il mio mestiere è inanellare parole e null’altro (purtroppo).

L’equivoco più diffuso in questo momento è quello di paragonare i morti di Kiev o di altre città devastate dalla furia di Putin con tutte le altre vittime di tutti gli altri conflitti più o meno recenti. “Se ci indigniamo per i civili ammazzati a Irpin, perché non abbiamo detto nulla per quelli uccisi lo stesso giorno in Afghanistan?” è la domanda stereotipata.
C’è chi sbrigativamente identifica la risposta nella logica del doppio standard, cioè l’uso di principi di giudizio diversi per situazioni simili. E c’è chi invece – e io sono tra questi – pensa che la storia si fa con gli esempi, coi simboli: e i simboli e gli esempi non sono una totalità, ma una parzialità. Più prosaicamente se dovessimo piangere per ogni essere umano ammazzato da un proiettile non riusciremmo a celebrarne manco uno per la vastità degli scenari e di conseguenza per l’impossibilità di empatizzare. Se un uomo muore nel vostro ufficio, è ovvio che siate più scioccati che se muore in un bar di Tegucigalpa. E non è solo frutto della prossimità dell’evento, ma anche di quella delle sue cause, dei suoi effetti.

Tutto ciò si misura in capacità di coinvolgimento, diremmo oggi di engagement. Esercitarla non significa essere peggiori o insensibili ai morti dello Yemen, ma al contrario vuol dire aver chiaro un concetto fondamentale del sentimento: possiamo amare tutti, ma per farlo dobbiamo provare il nostro amore verso qualcuno.
Non c’è niente di male, funziona così. Se scoppia una guerra pensiamo prima a ciò che accadrà nelle nostre famiglie e poi, a poco a poco, allarghiamo la nostra preoccupazione a sfere sempre più ampie. E questo “contagio” di sentimento si verifica non solo per contiguità geografica, ma anche per affinità culturale, ideologica, economica, con un’abbondante quota di inspiegabili motivi personali quasi inconsci.
Per questo – anche per questo – risultano incomprensibili le generalizzazioni di chi vuole mettere tutti sullo stesso piano, le vittime conosciute e quelle che mai conosceremo, i profughi che incontrano una telecamera e quelli che fuggono nell’anonimato.
Siamo macchine imperfette che funzionano per sistemi parziali. Viviamo ciò che vediamo, tocchiamo, sentiamo, assaggiamo.
Diluire i morti dell’Ucraina nel mare magnum delle vittime dell’Occidente (c’è sempre una colpa americana che fa capolino in questi casi) o in quello delle imperscrutabili guerre nazionaliste, è un atto di profonda ingiustizia.
Ogni guerra ha i suoi morti.
In certi casi i morti si contano, in altri si pesano.
È questo il senso della storia sin all’alba dell’uomo.    

Stiamo lavorando per voi

Teatro Massimo di Palermo, 13 e 14 maggio 2022.
Qui le info.
Ma ne riparleremo.

Era febbraio

Qualche mese fa scrissi qui una riflessione sui miei novembri (che, con mia sorpresa, piacque abbastanza). In generale piacere mi fa piacere – che piacere sarebbe non piacere? – ma quando il gradimento è granitico allora mi suona un campanello. Accade poche volte da queste parti. Anzi in tempi recenti sono stato indotto a rimpiangere la brodaglia di un consenso uniforme e spesso poco motivato: infatti la virulenza di certi metodi di dissenso mi ha costretto a usare la clava dialettica o, metodo meno entusiasmante, a ricorrere all’avvocato.
Resto un fan del dibattito acceso, un nemico giurato dell’imparzialità, che è quella cosa che si tira in ballo quando non si hanno argomenti per sostenere una tesi o non si ha voglia di combattere per un’idea. C’è una bellissima frase, di cui parlammo qui, che può essere incorniciata, soprattutto in questi periodi in cui le truppe dell’ignoranza organizzata fanno caciara attorno ai monumenti della ragione: giornali, libri, teatri, luoghi di arte, lo stesso web.
La frase è questa: “Noi non possiamo essere imparziali. Possiamo essere soltanto intellettualmente onesti: cioè renderci conto delle nostre passioni, tenerci in guardia contro di esse e mettere in guardia i nostri lettori contro i pericoli della nostra parzialità. L’imparzialità è un sogno, la probità è un dovere”.
Insomma questo post è un mirabile, anzi “mirabile”, esempio di preambolo più lungo della tesi centrale: praticamente mi sono preso la licenza di parlare incidentalmente di giornalismo e di far un pessimo uso dei ferri del mestiere.

Eravamo ai miei novembri.
Ora siamo ai nostri febbrai. Agli ultimi tre almeno: quello dell’esplosione della pandemia, quello della resistenza e della reclusione, quello della guerra.
Nel disastro collettivo come nei drammi personali, abbiamo imparato che l’unica cosa da fare nelle difficoltà è rimboccarsi le maniche: tanto, anche se arriva il peggio, almeno ti coglie cazzuto e in piena attività, e non svaccato e rincoglionito dal far nulla (che è dolce solo nelle favole). Abbiamo anche sperimentato il potere mefitico dell’illusione a caldo, il famoso “ne usciremo migliori”. E ci siamo persino esercitati nel sempre utile esercizio della speranza, che prima intendevamo come una cosa a metà tra la lettura dei fondi di caffè e l’aspettativa di un miracolo e che oggi, più prosaicamente, raffiguriamo come uno zaino da metterci sulle spalle.
La speranza pesa, va condotta. Costa, in termini di fatica. Non cade dal cielo, la speranza si conquista facendo.
I miei febbrai mi hanno dato questa lezione, dura e non ancora assimilata in pieno.
Saper sperare è avere piena coscienza che un’alba passa sempre attraverso una notte.     

Contrordine, la normalità è un valore

Ci sono parole che cambiano significato col tempo. E diversi studi pubblicati da un’autorità in questo campo, Mark Pagel, ci dicono che le parole cambiano soprattutto quando si usano poco.
Già molti anni fa Pagel dimostrò che le parole più usate, come i nomi dei numeri o i termini che esprimono concetti importanti e universali tipo mamma, sono rimaste pressoché invariate nel corso dei millenni in tutte le lingue indoeuropee, tanto da aver mantenuto perfino una somiglianza trasversale in lingue molto lontane tra loro.

Ad esempio, due si dice dos in spagnolo, deux in francese, two in inglese, dva in russo (tutte parole caratterizzate dai suoni d oppure t). Allo stesso modo i termini per indicare la mamma e i concetti collegati sono caratterizzati nella stragrande maggioranza delle lingue indoeuropee dal fonema m (madre in italiano, mother in inglese, mutter in tedesco, mère in francese, moeder in olandese, mat in russo).

Eppure c’è una parola in italiano che, negli ultimi anni, ha cambiato la sua valenza in modo incredibile. Pur essendo usata moltissimo.
Pensateci.
La parola è: normalità.

Noi ex ragazzi degli anni Settanta (ma penso anche a quelli degli anni Sessanta) siamo cresciuti con un’idea pressoché standard: la normalità nel migliore dei casi è un’omologazione dalle aspettative collettive. Quindi è una palla mortale: veleno per la fantasia, pialla delle ambizioni, roba da vecchi decrepiti insomma. E nemmeno: i vecchi che immaginavamo di diventare a quei tempi sarebbero stati i vendicatori di un concetto di normalità imposta per decreto generazionale. Il modello era Charles Bukowski: “Tante volte uno deve lottare così duramente per la vita che non ha tempo di viverla”. Alla faccia della serena rassegnazione.
Insomma vedevamo la normalità come nostra concorrente nella vita: vince chi arriva prima.
Invece le cose sono cambiate e questa parola ha cambiato pelle. C’è voluta una pandemia, c’è voluto un inaudito uragano di provvisorietà per stravolgere decenni di studi di Mark Pagel e un secolo di lotte generazionali.

Oggi la normalità è l’anelito del ribelle, che chiede di poter tornare a scorrazzare libero nella testa e nelle gambe. È l’uscita di sicurezza in una sala deserta dove siamo attori e spettatori al contempo. È il rifugio per distinguere la sensazione di essere soli al mondo dalla certezza di esserlo, pur restando circondati da persone.
Recuperare questi due anni di chiusura totale – anni che ne valgono cinque, come scrisse in questo bellissimo articolo Baricco – è impossibile. Il tempo è come il sonno, quello perso non si può mai recuperare, almeno sin quando si è vivi.
Però la normalità oggi ci appare come qualcosa di rivoluzionario.
Un tempo era la follia degli incapaci, oggi è la soluzione del grande enigma di una sopravvivenza, il trampolino del resistente, il primo capitolo di una nuova epica.
Libera, speriamo.   

Tracce e racconti, il dilemma

Nelle sue preziosissime “Sette brevi lezioni di fisica”, Carlo Rovelli identifica nel capitolo finale due filoni cruciali dell’umanità: inventare racconti e seguire tracce. Nella confusione tra queste due attività umane alberga la diffidenza nei confronti della scienza di una parte del mondo della cultura contemporanea. Perché l’interazione che un sistema fisico ha su un altro non ha niente di mentale o soggettivo, “è solo il vincolo che la fisica determina tra lo stato di qualcosa e lo stato di qualcos’altro”.

Altra cosa è inventare racconti. Lì l’unico atomo che conta è quello da animare, magari dandogli un volto e un mestiere diverso dal suo. Le interazioni diventano rimbalzi elastici o chissà vicoli ciechi. Altre storie, altra storia.

Il disagio di molti di noi, abitanti di un pianeta che si chiama Terra ma che è sempre più evaporato, sta non tanto nel cercare di scoprire nuove tracce da seguire, ma nel proteggere quelle che ci sono dai nuovi barbari della confusione organizzata.

Per dire, se discutiamo di interruttori parliamo di qualcosa che va dal Codice Morse al sistema binario. Il recinto, sterminato, è quello. Metterci dentro il racconto che sostituisce l’inseguimento della traccia è da criminali. L’ignoto ha una quota di soggettività elevatissima, ma non lo si può usare come tappabuchi della nostra cultura. In altre parole non possiamo considerare ciò che non conosciamo come qualcosa che non esiste.

Al contrario la strada di cui nulla sappiamo può essere occasione di esplorazione prudente, di visita guidata, di studio, di sete di fiducia.
Invece non è così in questa era buia come una galleria franata, per giunta.
Eppure serve fiducia. Nelle tracce, nella narrazione, nelle strade della conoscenza che devono scorrere distinte e separate.
Dobbiamo imparare a dividere nell’epoca della connessione, a valorizzare il ragionamento indipendente nel trionfo del mainstream, a guardare all’unico nell’orgia forzata della condivisione.

L’indiscreta grandezza di Ficarra e Picone

L’articolo pubblicato su Repubblica Palermo.

C’è qualcosa di rassicurante nei prodotti di Ficarra e Picone, più o meno riusciti che siano. Ed è qualcosa che ha a che fare con un concetto antico e desueto, col valore del sano artigianato, di un’opera fatta con ingredienti ben scelti e senza manie di grandezza. Genuino potrebbe essere la parola adatta. Ma forse non basta.

In “Incastrati”, la prima serie del duo su Netflix che sta riscuotendo (meritato) successo, c’è tutto il simbolismo anti-simbolico che ha reso Ficarra e Picone unici nel panorama cinematografico nazionale. Un simbolismo che affonda le unghie nei luoghi comuni di Sicilia – prima di loro solo la coppia Cerami-Benigni era riuscita a decostruirli con effetti esilaranti – e li squarcia liberandoli nella loro essenza di posti, quindi luoghi, inutilmente affollati, quindi comuni. In questa serie si gioca col fuoco degli spettri siculi del tragico triangolo: morte, mafia, tradimento. Ci vogliono arte per maneggiare un sangue che non macchia la trama, furbizia per rendere simpatici i mammasantissima di Cosa Nostra senza aver paura della moralismo idiota dei social, abilità di scrittura per gestire un tradimento coniugale devastante. Ma è questo che Ficarra e Picone sanno fare meglio degli altri: usare il dramma per far finta di riderne e invece misurarne il peso. “Incastrati” è una storia piena di rimandi al nostro quotidiano meno presentabile: il fardello delle bugie, la sottovalutazione dell’amore, l’abitudine che genera solitudine, la voglia di essere altri senza il coraggio di esserlo. È soprattutto la non-rivincita degli eroi, in una terra che ha anche bisogno di armarsi di una risata per scegliere di imbarcarsi nell’ennesimo impegno civile.         

Prima che vi cali la palpebra

Vorrei fare un bilancio, ma è meglio di no. Ho già letto i vostri e in qualche modo ci ho trovato cose mie, anche se non ci conosciamo, o ci conosciamo e non ci piacciamo, o ci conosciamo e basta. Insomma c’è un limite umano ai desideri, soprattutto a quelli irrealizzati, che senso ha continuare a enumerarli? Discorso diverso per le sconfitte, quelle non si esibiscono, si analizzano, si metabolizzano per quel che è possibile e soprattutto si usano per imbarcarci nella più grande illusione ottica che la nostra socialità spicciola ci propone: dagli errori si impara sempre.
Niente di più falso. Non si impara nulla a meno che non si tratti di piccoli sbagli o di errate valutazioni pressoché matematiche. Non se ne esce migliori quasi mai. Perché un errore importante è il frutto di forze vettoriali che arrivano da lontano, che ci avviluppano e soprattutto che non rappresentano mai una attenuante (come invece ci piace credere).

Tuttavia non è di errori che volevo parlarvi. Potrei scriverne un trattato, ma sarebbe un modo imbarazzante per cercare di tirarsi fuori. No, no. Conosciamo tutti la capacità di attrazione che hanno le cose sconsiderate e non ha senso cadere nella solita trappola di mostrarci come perfetti avvocati nei confronti delle nostre cazzate e al contempo come severissimi giudici con quelle degli altri.

 Il punto è un altro. Vediamo se riesco a essere chiaro prima che vi cali la palpebra. Da molti anni, per via di quello che una volta si chiamava progresso e che oggi non si chiama in nessun modo ma attiene al senso di provvisorietà pandemico e cretinologico, non riusciamo a vivere pienamente il presente senza l’imbarazzo di credere di tralasciare il passato, e insieme senza la paura di non essere proiettati sufficientemente nel futuro. Paul Bloom ne ha scritto su The New Yorker identificando alcuni esempi.

“Possiamo avere un ‘pregiudizio sull’immediatezza’: mangiamo i popcorn quando il film sta per cominciare, anche se forse ce li potremmo godere di più aspettando. O un ‘pregiudizio sul futuro’: ci turba un compito spiacevole che dovremo svolgere domani, anche se non c’infastidisce per niente il ricordo di aver fatto un compito altrettanto sgradevole ieri. O forse abbiamo un ‘pregiudizio strutturale’, quando preferiamo una certa sequenza temporale per le nostre esperienze: pianifichiamo la vacanza in modo che la parte migliore arrivi alla fine. Secondo la filosofa Meghan Sullivan questi pregiudizi temporali sono errori”.  

Ecco è questo il punto, anzi l’unico punto del mio bilancio di questo 2021.
Non ce lo confessiamo facilmente, ma tendiamo a essere freddi e razionali quando pianifichiamo un futuro distante e invece perdiamo il controllo quando le tentazioni si avvicinano nel tempo.
Molto più spesso il passato lo vediamo in modo corale (famiglia, scuola, lavoro), mentre per il futuro abbiamo una soggettiva in prima persona: soli, nudi, magari illusoriamente coraggiosi.
Non ho lezioncine da dare, sono stato disarcionato da tempo da qualunque ruolo preveda una cattedra, uno scranno, persino uno strapuntino. Però a occhio e croce credo che qualsiasi persona di buon senso debba imparare a vivere, in una certa misura, fuori dal momento.

È questo il mio augurio per questo 2022 imbottito di incognite: aboliamo i pregiudizi sul tempo (e ve lo dice uno che cerca di occuparsi di futuro) e non diamo sempre peso a “inizio” e “fine“. C’è un “mentre” che ci aspetta e che, solitamente, buttiamo alle ortiche.

Buon anno.