Un (cruciale) indovinello sulla verità

Una volta, molti anni fa, mi capitò di ascoltare un indovinello alla radio. Erano gli anni ’70 e ancora non esisteva l’on demand, la possibilità di riascoltare, il podcast e altre diavolerie moderne che tolgono tempo alla scansione del tempo.
L’indovinello era questo.

Siete in una cella blindata che ha due porte, una rossa e una nera: una di queste vi dà la possibilità di uscire, l’altra invece no, è una porta finta. Le porte sono identiche e ovviamente voi nulla potete intuire guardandole. Accanto a ognuna di queste porte c’è un guardiano. Quindi due guardiani su cui avete un’informazione cruciale: uno dei due mente sempre, l’altro dice la verità. Ma voi non sapete quale dei due è un mentitore.
Avete la possibilità di uscire dalla cella facendo una sola domanda a uno dei due guardiani: solo così avrete la certezza matematica di sapere qual è la porta giusta, quella che vi conduce alla libertà.
Qual è la domanda?

A quei tempi accadde una cosa incredibile: al momento di svelare la risposta, la trasmissione si interruppe. Ebbene, rimasi a pensarci per anni. Non c’era internet, non c’era la possibilità di scambiare su scala globale informazioni (anche banali come quelle sulla risposta a un indovinello).
La soluzione – lo giuro – mi arrivò una notte insonne di 25 anni dopo, come un’illuminazione. Non ve la dico, magari ci pensate anche voi o chissà googlate pigramente.
Però vi rivelo quale fu il principio che mi condusse al traguardo: la verità è fatta anche di bugie.
A quest’indovinello ho ripensato oggi dopo che, in una chiacchiera oziosa, si evocava l’antico rito del gioco della verità. Che, se ci pensate, è il gioco più fuorviante che esista giacché pretende di inserire in un ambito ludico il concetto meno ludico che esista. C’è una meravigliosa serie tv di qualche anno fa, Big Little Lies, che mette le mani a forza (e con immensa arte) nelle acque torbide delle verità illusorie e delle bugie salvifiche.
Il gioco della verità anche quando non è un gioco e quando si trasforma nel “ti dico tutto in faccia perché io sono così” diventa il più grande alibi per la peggiore delle ipocrisie. Quella in cui credi di guardarti allo specchio dinanzi al quale hai piazzato la tua controfigura.

P.S.
A proposito di
Big Little Lies mi piace linkare qui la canzone che accompagna il finale (meraviglioso) della seconda e ultima stagione.

La pecora solitaria

Se c’è una cosa che lo stare soli per scelta ti aiuta a valorizzare, è la conoscenza delle cose. Non è che se vai in eremitaggio o ti chiudi in casa per un mese poi, alla fine, sei più colto. Però è probabile che sia più consapevole.
Vi faccio il mio esempio. Dopo un mese di Cammino portoghese, bellissimo e che consiglio, mi sono beccato per la prima volta il Covid. Da quattro giorni sono murato in casa e solo oggi sono in grado di scrivere due righe incatenate poiché sono stato con 38,8 fisso mattina e sera con rincoglionimento totale.
Quindi quest’estate ho sperimentato due tipi di solitudine, molto diversi tra loro eppure complementari: quello del Cammino tutto fatica e larghi orizzonti e quello del Covid tutto brividi da fermo e vista confinata. Senza il primo non avrei valorizzato il secondo, ve lo confesso.

Perché il Covid che mai avevo conosciuto – sono un iper vaccinato e iper anti-antivaccinisti, tifoso della medicina e nemico delle scemenze – mi ha fatto conoscere qualcosa di me e delle mie reazioni. Sono uno che vive da solo, quindi i momenti di malattia sono una bella prova: se non stai bene solo con te stesso quando sei in forze, figuriamoci appena hai un problema di salute. La febbre non era quella dell’influenza, parlo di sensazioni eh. Era come un motore di grossa cilindrata costretto e contenuto: si capiva che voleva rombare, ma qualcosa lo costringeva, lo soffocava. Era questo che non mi faceva dormire la notte: sentire questo rombo persistente, fisso, che non cala mai e che ti dice “se fosse per me esploderei”.
È lì che ho valorizzato la conoscenza dei vaccini. Non per quel virus dentro di me, ma per il sistema di contagio mondiale che è stato depotenziato grazie alle vaccinazioni. Insomma quel brutto motore dentro di me è domato grazie ai vaccini di tutti voi e se fosse stato per quegli imbecilli della dittatura sanitaria di ‘staminchia, quelli del microchip (che a loro un microchip servirebbe davvero, ma nel cervello), io magari a quest’ora sarei boccheggiante in un ospedale o chissà. Invece sono qui a scrivere, deboluccio, ma con la luce e l’umore giusti.

La conoscenza è anche saper mettere in fila le cose nel modo adeguato. Durante i miei cammini ad esempio ho imparato che i muscoli si allenano, quindi poi hanno meno bisogno di riposo, ma i tendini e le ossa sono quelli più a rischio, e che metterli a riposo è complicato (solo oggi, dopo quattro giorni di completa inattività i miei talloni e le mie caviglie tornano a darmi confidenza). Durante il Covid invece ho imparato che non si può usare una pubblicità di oltre un decennio fa di Dolce&Gabbana per stigmatizzare un crimine come lo stupro. È una stupidaggine anzi peggio è una scorciatoia dei social che rende chi la prende credulone: tipo uno che crede di raccontare una barzelletta nuova quando quella storiella la raccontava Gino Bramieri, 40 anni fa, meglio di lui ovviamente. La storia la scrivono gli storici, non l’utente456 di Facebook.
Non si può ignorare di ignorare.
Ecco perché un po’ di solitudine aiuta. Perché ti toglie l’alibi di condividere i passi che non sono tuoi, ti insegna a sperimentare sulla tua pelle, toglie potere ai polpastrelli e lo dà a sensi che normalmente usi poco, come l’olfatto (anche se durante il Covid…). Perché ti obbliga a smettere per una volta di essere pecora in un gregge di cui manco sai chi è il pastore.

Inquieti e infelicemente felici

C’è una cosa contro cui combatto ogni giorno che il Signore manda in terra. E cioè l’assioma che anche senza inquietudine si può fare romanzo: ergo che non è vero che belli tranquilli e sereni non si crea un tubo. Una verità anti-storica. Si vada a rileggere i grandi, a studiare le biografie di artisti, scienziati, filosofi eccetera. Dal comodo della nostra scrivania, con coniugi e conti in banca sorridenti, senza alcol, piccoli vizi, riti trasversali o additivi emozionali (come i sentimenti), in linea col politicamente sterilizzato nessuno potrà mai partorire un’idea degna di attenzione al di sopra della cintola dei social.
Ok, tutto normale sin qui.

Il problema è quando – ed è fenomeno abbastanza recente – tutta la narrazione* che parte dalla cronaca e che inesorabilmente lambisce la storia (anche minima) risente di questo mood.
E allora nel mondo dell’informazione si programma in modo tranquillizzante, si racconta col più rassegnato dei cronisti, si ravana negli account Facebook dei protagonisti e delle comparse, si recluta il passante per farne il testimone ideale di qualcosa di eterno (di Zapruder ce n’è uno solo).

Il concetto fondamentale, drammaticamente dirimente, che non deve passare è che le cose belle si fanno sempre canticchiando, che la creatività sia una autostrada tipo la Palermo-Catania, gratuita e senza responsabilità.
Non è così.
Anzi: non – è – così!
I romanzi, veri e metaforici (ognuno di noi ha il suo anche se non è di carta e di parole), sono atti di coscienza. Sono prese di responsabilità in cui uno si alza e dinanzi a una folla distratta ha l’ardire di battere un pugno sul tavolo e gridare: volete ascoltare una storia che non è vostra ma che potrebbe esserlo?
E se sarà fortunato – se lo sarà – qualcuno metterà da parte il telefono, chiederà un altro bicchiere di vino, si metterà comodo, magari abbraccerà la persona che gli sta a fianco. E dirà: dai, racconta.
E sarà un giorno per cui quelli come me, come noi, saranno felici di essere quello che sono. Inquieti e felici. 

*narrazione è parola irritante lo so, ma in questo caso non me ne viene una migliore.      

Sabbia

 Vila Chā – Pòvoa de Varzim

“Vai a nuoto?”. L’anziano ciclista mi guarda e ride. Capisco il senso di quella domanda con qualche secondo di ritardo e scoppio a ridere pure io.
Avevo sbagliato strada e mancato in pieno un ponte: la strada davanti a me si chiudeva inesorabilmente nel fiume (questa zona è piena di fiumi e canali che finiscono nell’oceano). Grazie alle indicazioni del simpatico cristiano sono tornato indietro e ho recuperato il bivio perso. 
Effetti collaterali della distrazione. E io in quel frangente ero distratto perché venivo da un’esperienza intensa e non mi ero ancora ripreso: la camminata a piedi nudi sulla battigia, con l’acqua fredda dell’oceano quasi alle caviglie.
L’avevo preparata bene, va detto.
Siccome camminare sulla sabbia è faticoso, e con uno zaino sulle spalle lo è ancora di più, ho fatto in modo da far coincidere questa tappa, in cui c’era un tratto di spiaggia che mi piaceva particolarmente, con le esigenze di praticità. Ergo l’ho accorciata, spostando in avanti (e conseguentemente forzando) la tappa di ieri. In pratica ieri mi sono caricato di qualche chilometro in più per avere mano, anzi piede libero oggi.
Nulla è per caso quando hai settecento chilometri da portare a casa (e per di più a una certa età). 

Camminare sulla battigia è divertente, o romantico a seconda delle propensioni e degli annessi, o very cool se lo fai per una decina di metri e in costume (magari vista Twiga). Ma se quei metri diventano chilometri, se sulle spalle hai almeno undici chili e gli spallacci dello zaino hanno già scavato la loro tana nelle clavicole le cose cambiano.
Senza tenere conto – lasciatemi aprire una breve parentesi di Superquark del Cammino – che spesso la sabbia non è proprio fina, che ci sono pittoresche conchiglie che aspettano i tuoi alluci al varco, e che la tua casa sul groppone rispetto alle tue caviglie è come lo Stato per Matteo Messina Denaro, il nemico giurato. Senza tener conto che questa sabbia sta a metà, per teoria, tra quella del deserto che adora il nulla e quella della spiaggia che accarezza i corpi.
Anche abbandonata la battigia – perché la passione per la natura e la full immersion in essa talvolta sconfinano nell’autoerotismo e un punto va messo – le passerelle in legno non è che concedano massima tranquillità. In questa zona infatti si snodano tra le dune (che mia amica Tiziana, biologa, definisce “un habitat meraviglioso e ormai residuale”… a me sembrano collinette e basta) e spesso finiscono per essere sommerse dalla sabbia. Insomma si cammina sulla sabbia smossa, non compatta, la più complicata e snervante.
Alla fine i quindici chilometri di oggi, della tappa che doveva essere la più breve dell’intero Cammino portoghese, valgono in termini di fatica almeno il doppio secondo il famoso teorema.

Ora mi godo la cena in ristorante a Pòvoa de Varzim dove tra i tavoli lavorano i figli del titolare e con fidanzati/e annesse (che ovviamente parlano tutti l’inglese). Una gioia di gioventù, entusiasmo, good vibrations che già da sola vale almeno metà del conto.

P.S.
Domani vi racconto di wc, docce e biblioteche. Incredibili le biblioteche.

17 – continua 

Tutte le altre puntate le trovate qui.

Misurare la felicità

Quando ero giovane mi dava felicità correre a perdifiato, mangiare biscotti su un albero, impennare con la moto e stare sdraiato sulla neve di notte a guardare le stelle (che per un siciliano è una specie di bug genetico). Col tempo ho cambiato modelli e gusto per certe situazioni e mi sono chiesto se la nostra idea di felicità si basa su ciò che ci è ontologicamente inaccessibile o difficile da raggiungere.
Goethe diceva che la felicità è una palla a cui corriamo dietro ovunque rotoli e che quando si ferma vogliamo spingere avanti coi piedi.  
Nel mio piccolo credo che il problema della felicità non sia il suo raggiungimento, ma la sua misurazione. Cioè so bene come e quando posso essere felice anche in modo trasversale, ma non so nulla di come stilare una classifica dei miei istanti felici. La foto di un bel momento, tipo un matrimonio o la conquista di un risultato sportivo o il primo giorno di scuola o l’ultimo di lavoro, cambia il suo peso emotivo a seconda dei tempi, dell’umore, dei destini che si sono aggrovigliati (la trasfigurazione di momenti incantevoli in incubi è un classico di chi ha vissuto in prima persona e non per procura).

Il problema si risolve togliendo alla felicità il suo presunto valore di ricompensa e considerandola come piacevole e inaspettato effetto collaterale. Una corrente di pensiero di quelli (tipo il sottoscritto) che si aspettano poco e niente dal genere umano punta all’estrema contingenza dei desideri, alla soddisfazione che non intacca il disastro altrui, insomma alla felicità che è tutto tranne che un vantaggio sull’altro. La filosofa e scrittrice albanese Lea Ypi ha stigmatizzato sul Guardian la frase “Don’t worry, be happy” (non preoccuparti, sii felice):

“Non credo che eliminando la preoccupazione resterebbe molto della felicità. Ogni azione richiede un misto di insicurezza, incoerenza del gesto, tentazione del male, incertezza della soddisfazione. Se astraiamo tutto questo dalla ricerca della felicità, è difficile dire che cosa rimane”.

La felicità è destabilizzazione e anarchia. È un paio di ali che ti si sollevano a tradimento senza chiederti il biglietto. È l’uscita di sicurezza che hai identificato quando non ce n’era bisogno. È il sogno non realizzato che, in quanto tale, continuerà ad accenderti sin quando avrai luce. È appartenenza a un branco in cui tu e solo tu sei capo, seguace e persino vittima.
È – scusate la semplificazione estrema – libertà.

Nei panni di un SS (e il nazismo non c’entra)

C’è una categoria mai ben classificata, che attraversa strati sociali, posizioni politiche, che risente di varie stratificazioni etiche e anche di molti pregiudizi. È quella dei cosiddetti single stagionati (SS, per usare, anzi osare un’abbreviazione) e comprende le persone cosiddette libere nella cosiddetta età stagionata, cioè diciamo dopo i cosiddetti cinquanta.

Ci sono vari elementi che certificano il valore civile dei SS ed è giunto il momento di tirarli fuori, perché come accade per ogni fenomeno incompreso, da Van Gogh al generale Pappalardo, è noioso che sia sempre la storia a giudicare le distrazioni della cronaca.

Innanzitutto la disponibilità. È il maggiore fattore di appeal per il conferimento della quinta stella a un SS. Sono quelli che ci sono sempre, dalla prima ora all’ultimo minuto, telefono amico e citofono complice, ore pasti e ore piccole, letto divano sedia poltrona tappeto balcone a disposizione a seconda del casino (altrui) che devono disinnescare. Per un SS è naturale accogliere perché nessuno più di lui sa cosa significa non essere accolti.

Poi c’è il sentimento, la parte più noiosa. Un SS è come un reduce del Vietnam dell’amore: forgiato e un po’ disilluso, ma mai indifferente al tema. Sa benissimo che l’amore più grande è quello che finisce, perché solo in quel modo se ne può tastare l’imponenza e l’importanza, ed eventualmente avere la libertà di esercitare il diritto di paragone senza un partner che rompa i coglioni. Ma sa anche che si troverà di fronte a non single non stagionati che cercheranno di rimbecillirlo con le loro storie che reputano uniche e irripetibili e dalle quali non riescono a emanciparsi (infatti vanno da lui, mica vanno a pentirsi da Giletti tipo Baiardo).

Inoltre c’è il tempo. Un SS paga a caro prezzo il bene più prezioso che chi non sa niente di queste cose pensa che sia l’indipendenza. E invece è la gestione del tempo. Imparare a impiegare le ore, i minuti è un dono meraviglioso che vale da solo tutto il compendio di sacrifici ai quali un SS si sottopone, spesso non per libera scelta. È sempre una questione di S: solitudine, spesa, sesso, stress, sincerità. Un SS sa che questo benedetto tempo, dato che oltre che single è anche stagionato, non va mai sprecato, ma senza assillo (che non inizia per S ma ne ha due comunque).

Prendetevi la briga di osservarlo, un SS, quando si muove nella sua casa, al supermercato, al lavoro, a cena con gli amici. Ha il migliore controllo del tempo: non è soffocato da impegni che non ha scelto; ha una discreta libertà di movimento; regge lo stress test del last minute meglio di chiunque altro.

In più un SS ha sviluppato – perché non proviene da un altro pianeta – una sensibilità in quelle aree della socialità che gli altri tendono a trascurare. Sa come sta l’amico/a che non si fa più sentire dopo che gli ha tritato i coglioni per anni: evidentemente si è riparato sotto lenzuola confortevoli nel primo accampamento disponibile. Sa come funziona il meccanismo della convenienza, quello stesso meccanismo che l’ha portato a pesare il colpo di fulmine e il colpo di genio. Sa perché imboccare la via più difficile non sia dirimente, ma utile per conoscersi: indipendenza e felicità sono strade ben diverse, ma hanno un paio di bivi in comune, basta fermarsi un attimo e scegliere invece di tirare dritto per inerzia.

Ascolta il podcast Non è un paese per single

Hai visto Lost?

C’è un anniversario niente male che sta passando in sordina. Riguarda i 13 anni dall’ultima puntata di Lost, puntata su cui si discute da allora, dove c’è questo dialogo tra padre e figlio che spiega l’inspiegabile (“In fondo nessuno muore da solo”).
Come alcuni affezionati lettori sanno, sono un estimatore della serie in questione e la ritengo uno snodo fondamentale della narrazione televisiva: siamo infatti ai confini del cliffhanger di cui parlavo qui e in prossimità di una nuova frontiera, quella del binge watching (vale il link di 18 parole fa).

Ha raccontato Luca Sofri che un giorno “una quindicina d’anni fa un neonominato direttore di un giornale, che voleva avere attenzioni alla contemporaneità e alle culture dei millennials (che allora nessuno chiamava così), gli chiese dei consigli per aggiornarsi: e lui gli rispose «hai visto Lost?». (non lo aveva visto)”.

Perché la dirompenza di una serie che ancora oggi fa discutere è proprio la sua eterna contemporaneità, quasi un ossimoro, in quanto serie fuori dal tempo e dai tempi: credo che dal punto di vista meramente tecnico in Italia solo Pasolini abbia saputo esplorare narrativamente terreni così incolti e difficili.
La forza propulsiva si basa, oltre che sui personaggi e sulla genialità del creatore J.J. Abrams, sui cosiddetti sideways, elementi cinematografici laterali che non raccontano una realtà alternativa: è questo un concetto fondamentale per entrare nello spirito innovativo di Lost. Perché nel corso delle stagioni ci sono i flashback e i flashforward, cioè i viaggi indietro e avanti nel tempo.
Ma ciò che accade nei sideways, nella logica della serie, non è mai successo per davvero. Essi inquadrano un mondo che non ha una precisa collocazione nello spazio e nel tempo. Quindi vanno presi come inserimenti che non influiscono, non devono influire, nella plausibilità della storia: che è tutto tranne che plausibile, e per fortuna.

Detto questo è facile smontare teorie – peraltro divertenti – tipo quella secondo la quale i 48 passeggeri sopravvissuti all’incidente che dà origine alla storia – quando il 22 settembre 2004 l’aereo di linea 815 della compagnia australiana Oceanic Airlines, in volo da Sydney a Los Angeles, precipita su un’isola apparentemente disabitata –  erano già tutti morti al momento dello schianto.
No, l’isola è un luogo in cui si celebrano le paure del mondo, in cui si combatte una guerra senza tempo tra il bene e il male, è soprattutto una meravigliosa infinita ode alla ciclicità delle maledizioni e un antidoto al mefitico lieto fine obbligato che non esiste (del resto la fine non è mai lieta, semmai può essere indolore).

Insomma Lost ci insegna non solo come si scrivono le sceneggiature anche quando non hai la minima idea di dove le tue fantasie ti porteranno, ma soprattutto come si guarda un’opera complessa come quella che non deve per forza consolarti, non deve per forza essere un ABC con tanto di disegnino, non deve per forza esaurire la sua spinta emotiva dopo l’ultimo dei titoli di coda.

Se non l’avete mai vista, guardatela. Molto e molto altro vorrei dirvi, ma non voglio spoilerare ulteriormente la serie più spoilerata della storia.
Se l’avete vista e volete riviverla in brevi riassunti, qui c’è qualcosa che vi può interessare.

Il virus, il braciere e l’amnesia

C’è una notizia oggi sulla quale mi sono fermato a riflettere. Mi sono fermato proprio, anche fisicamente. Quella notizia mi ha portato bruscamente alla distinzione tra speranza e ottimismo. Per la quale devo ricorrere a un fulminante ragionamento di Rebecca Solnit che, presentando la raccolta di saggi “Not too late” dedicata all’emergenza climatica, scrive:

“La speranza è diversa dall’ottimismo. L’ottimismo presuppone il meglio e la sua inevitabilità, il che porta alla passività, proprio come il pessimismo e il cinismo che presuppongono il peggio. Sperare, come amare, significa correre dei rischi ed essere vulnerabili agli effetti di una perdita. Significa riconoscere l’incertezza del futuro e impegnarsi a cercare di partecipare alla sua creazione. Significa affrontare le difficoltà e accettare l’incertezza. Sperare significa riconoscere che si può proteggere qualcosa di ciò che si ama anche se si soffre per ciò che non si può proteggere, e sapere che dobbiamo agire senza conoscere l’esito di queste azioni. Sperare significa accettare la disperazione come emozione ma non come analisi. Riconoscere che ciò che è improbabile è possibile, così come ciò che è probabile non è inevitabile. Capire che difficile non equivale a impossibile”.

La notizia che mi ha fermato ma che al contempo mi costretto a muovermi sulla scia di pensieri affollati, di recenti fatiche, di dolori inconsolabili, di piccole vittorie e di insopportabili sconfitte, è questa:

L’organizzazione mondiale della sanità ha dichiarato la fine dell’emergenza Covid.

Ecco, ora rileggetevi le parole di Solnit e cercate di capire a quanta speranza e a quanto ottimismo ci siamo aggrappati in questi anni maledetti, anni che ci hanno cambiati per sempre.
Fatelo perché è da selvaggi buttarsi a volo d’angelo nel braciere dell’amnesia.  

La vecchiaia e la teoria della frittata

Ha fatto scalpore la foto di Bill Clinton e Tony Blair che si sono incontrati la settimana scorsa per commemorare un trattato contro le violenze tra indipendentisti e unionisti nordirlandesi. Il motivo non è nella sostanza, cioè nella storia che sta dietro quell’accordo o nella biografia dei personaggi o ancora nei retroscena di quell’incontro o di altri del genere, ma nella forma più esteriore che ci possa essere: le loro facce, le loro facce in quella foto.
In molti, nella ribollita insipida dei social e non solo, si sono chiesti se quei volti fossero stati invecchiati artificialmente da un filtro o se addirittura l’immagine fosse frutto di un’intelligenza artificiale. Come se invecchiare fosse una controindicazione o il complicato risultato di un filtro ottico.
Da qui lo stupore dinanzi alla cruda realtà: no, quei due oggi sono realmente così.
Buuu!

Eppure il segno degli anni è antico come il loro inizio. Siamo nati con la promessa che saremmo finiti, finiti lentamente. E in questo percorso era tacito che ci saremmo rotti i coglioni – a chi fa piacere svegliarsi ogni giorno con una ruga e un acciacco in più? – ma non che ci saremmo meravigliati.
Il vero cambiamento si è verificato negli ultimi dieci anni, forse anche meno (la pandemia ci ha dato un colpetto niente male). Con lo sbocciare dei social network e con la conseguente impollinazione di filtri e illusioni tangibili, l’invecchiamento è diventato la goccia di saliva che sfugge in un’amabile discussione dinanzi a una tavola imbandita: qualcosa di cui vergognarsi e per la quale chiedere scusa.
Perché è impossibile che il tempo passi infischiandosene delle timelines, è inaccettabile che il/la  follower che ti tampina su Instagram non ti riconosca se ti becca in ascensore, è disdicevole non porgersi fisicamente come l’altro si aspetta che tu ti porga. È vitale stupire a senso unico, cioè contro la fisiologia, la biologia e altre scienze superate da FaceApp.
Chiarisco. Non sono tra gli estimatori della sciatteria, pur non avendo certo la puzza sotto il naso: insomma sono sempre uno che per almeno un mese all’anno vive tra sentieri e monti con uno zaino in spalla… Per dirla in modo più esplicito non sono un cultore di feticismi abbrutenti (peli, odori, segni di abbandono rimediabili, eccetera). Una persona curata mi attira infinitamente di più di una persona trasandata (con le ovvie eccezioni di modo e luogo). Ho una mia idea di come una donna di una certa età (mi piacciono le donne, ma voi traslate il concetto nel genere che meglio vi aggrada) possa essere sempre attraente senza dover ricorrere ad acrobazie o giochi di prestigio: la buona creanza e l’autostima sono i migliori copri-rughe al mondo. Né, d’altro canto, mi faccio incantare da quelli che esaltano le macerie del proprio corpo, orgogliosi dei canyon sulle guance e raggianti per un avambraccio cadente. No, la vecchiaia fa cagare tutti quelli che ci incappano e chi non è d’accordo è un bugiardo, nel migliore dei casi.

Il risultato è contro ogni pronostico dei nostri account, contro ogni conquista scientifica, contro ogni indagine sociologica. Nonostante l’aspettativa di vita sia cresciuta fantascientificamente (in Italia la media è intorno agli 84 anni, ed è ancora più alta per le donne), l’autostima per l’involucro di quella stessa vita è andato a farsi fottere. Perché ogni volta che usiamo un filtro per i nostri selfie dovremmo tenere conto della legge della frittata.
La nostra vita è come una frittata: per farla bene bisogna romperle, le uova. Altrimenti è solo una schifezza buona solo per gli onanisti del virtuale che, com’è noto, non invecchiano perché sono già morti prima ancora di godersela.        

Smontare e rimontare

Nel divenire della mia vita, che è un modo elegante di definire l’invecchiamento, ho cambiato idea su molte cose e molti temi più o meno importanti.
Dall’amore alla musica degli anni ’80, dall’alimentazione ai social network, dalla sinistra italiana al Festival di Sanremo e via mutando. Capite bene che già questi esempi, seppure generici, potrebbero alimentare almeno un anno di post qui e altrove. Quindi non per soprassedere né per sottrarmi ad alcuna responsabilità (non sono tipo da lanciare il sasso e nascondere la mano, piuttosto ne lancio altri a raffica) vi propongo l’argomento sul quale ho cambiato radicalmente idea nel corso del succitato “divenire”.  
Il lavoro.
Non sono un distratto e detesto le cose fatte distrattamente, persino le cazzate. Quindi ho sempre preso il lavoro, ogni lavoro che ho svolto, con serietà. Il che non significa che abbia raggiunto costantemente risultati eccelsi: una cosa è l’impegno, un’altra sono i risultati e questo è un concetto cruciale. Diceva Primo Levi che “lavorare bene non è solo un dovere, è una salvazione”. Concetto ripreso da Michele Serra sulla sua newsletter “Ok Boomer!” sul Post. “Una salvazione, che parola splendida: sta a ‘salvezza’ come ‘liberazione’ sta a ‘libertà’. Indica un processo, un percorso. Non è uno stato acquisito: è una conquista. Si diventa salvi. Si diventa salvi imparando a montare a regola d’arte una gru, pezzo dopo pezzo. Se lo hai fatto, è perché sei capace di farlo”.
La sua visione è abbastanza romantica. Il lavorare “bene” è un concetto non facilmente applicabile alla moderna ottica sociale dove il “bene” dipende dai risultati e i risultati spesso non dipendono solo da quel lavoratore. Infatti molti mestieri moderni sfruttano talenti altrui, indicizzando opere di altri intelletti, conquistando demeriti, demolendo il sistema meritocratico. Pensate all’influencer milionario che non sa mettere una parola dietro l’altra, o all’artista pagato per offendere il pubblico dei suoi spettacoli, o ancora all’Angela da Mondello di turno.

La mia idea del o sul lavoro è cambiata più volte nel corso degli anni. Da giovane ero folgorato dalla possibilità di fare un mestiere per il quale avevo lottato e non mi interessava quanto mi avrebbero pagato (oggi un’idea del genere sarebbe degna di una shit storm senza appello). Col tempo ho imparato a pesare il valore di un prodotto, ma ci ho messo sempre la tara della passione: in pratica sgobbavo come un forsennato e guadagnavo in modo non adeguato.
A un certo punto ho avuto un’illuminazione: e se la libertà fosse un’integrazione dello stipendio? Ho cominciato a lavorare un po’ meno e a guadagnare di conseguenza (certo, la base di partenza non era poi così confortevole). Lì ho davvero cambiato la mia vita. Perché se vuoi essere libero devi costruirti un’esistenza che te lo consenta, iniziando a fare solide rinunce mica fioretti da quindicenne.
Ho cominciato a dare più valore a precisi impegni e precisi risultati. Il che implica una rarefazione imposta di impegni e soprattutto di risultati, quindi un training costante dell’autostima (meno risultati, più pensieri molesti) e un continuo dialogo con se stessi.
Non è facile abituarsi a giocare e a vincere di meno, credetemi.

Ecco se c’è qualcosa che il divenire della vita ci può insegnare è che l’uomo non si nobilita più necessariamente col lavoro, ma che si può essere soddisfatti anche fuori dal podio, lontani dai riflettori. Ma affascinati da nuove fatiche: quella di parlarci sempre, quella di godere dei nostri passi magari in solitaria, quella di essere liberi nonostante il conto in banca, quella di aver costruito ciò che in un istante possiamo decidere di smontare e rimontare altrove.