Il cibo in movimento

Vi siete mai chiesti quanti litri di carburante ci vogliono per spostare sei litri di succo d’arancia dal Sudamerica a casa vostra? O quanti chilometri ha percorso, da morto e stecchito, il tacchino che avete appena infilato in forno? O quando è stato staccato dalla pianta il kiwi che state sbucciando?
Domande inutili, diranno alcuni. Domande obbligatorie, dicono altri. Ad esempio quelli del Food Miles, un movimento anglosassone che sta prendendo piede anche in Italia, il cui obiettivo è ridurre gli spostamenti del cibo per evitare inquinamento ambientale e deterioramento del prodotto alimentare. Se un’idea è semplice rischia sempre di essere sottovalutata. In questo caso, la saggia massaia di provincia si fa una risata: da sempre lei fa la spesa dall’ortolano che ha il terreno coltivato proprio fuori dal paese; mette in tavola solo alimenti di stagione; storce il naso davanti alla “roba in scatola”. Le nostre città invece sono invase da uva imbalsamata, arance sempiterne, zombie di angus, prugne rinsecchite della California, e via elencando.
Il concetto base su cui riflettere è il seguente: più il cibo si sposta, più inquina. Perché il pollo non va dal Trentino a Bagheria con le sue zampette. Se vogliamo c’è un altro concetto ancora più semplice, al limite dell’imbarazzante: il cibo che resta per settimane su un camion invecchia e diventa brutto. Mi piacerebbe che un tg qualunque dedicasse un millesimo dello spazio riservato a questioni di fondamentale importanza come – chessò – l’autunno caldo del Partito Democratico, al Food Miles e ai suoi sani principi. Non tutti andiamo a votare, però tutti andiamo a tavola.
Ps. La risposta alla prima domanda è: un litro di gasolio.

Contro i bavagli all’informazione

Solitamente questo blog non si occupa di appuntamenti di cronaca. Persino le notizie che riguardano il suo autore non interessano all’autore medesimo. Un principio di schizofrenia?
Chissà. Intanto non vi dico a quale manifestazione parteciperò domani, ma vi do un indizio: provate a inseguire sul web il maestro Giacomo Cacciatore
Non sarò in città quindi, ma c’è un appuntamento che voglio segnalarvi, sempre per domani, 6 ottobre. Alle 11,30 all’Auditorium della Rai a Palermo, si svolge un dibattito sulla libertà di informazione. “La mafia torna a rialzare la testa dopo una lunga fase di sommersione e dirige i suoi tentativi di intimidazione agli imprenditori, ai magistrati e ai giornalisti – dice Salvatore Cusimano, direttore della sede Rai siciliana -I recenti fatti, come le minacce ripetute al nostro collega dell’Ansa Lirio Abbate, sono un campanello d’allarme che deve farci riflettere, non solo sui rischi di chi continua ad esporsi illuminando le zone oscure della nostra società, ma anche sulle omissioni e le fragilità di chi invece ha scelto il silenzio o l’autocensura”.
All’incontro oltre a Lirio Abbate, partecipano il presidente dell’Ordine dei giornalisti di Sicilia Franco Nicastro, il direttore del nuovo Osservatorio sull’informazione di Libera Roberto Morrione, già Direttore di Rainews24, e il presidente della giunta sezionale di Palermo dell’Associazione nazionale magistrati Guido Lo Forte.
Quale migliore occasione per ribadire che la mafia ci ha rotto i coglioni?

Mercoledì a Palermo

Comunicazione di servizio. Dopo il dibattito sul network cittadino Wi-fi che si è sviluppato su questo blog nei giorni scorsi, il presidente dell’Ars Gianfranco Micciche ha comunicato i costi dell’operazione: 10.000 euro circa per l’infrastruttura, più un canone annuo di 3.000 euro.
Ma soprattutto ha annunciato che il servizio sarà attivo da mercoledì 3 ottobre a Palermo, in piazza Magione.
Ci vediamo lì a mezzogiorno, con computer, telecamere e macchine fotografiche.

Garlasco e la giustizia astemia

Gli ultimi sviluppi del giallo di Garlasco dovrebbero insegnarci, o ricordarci, alcune cose.
Primo. L’arresto preventivo non è un gol, ma un provvedimento doloroso, spesso giustificato anche se non sempre condivisibile. E’ un atto regolamentato, previsto dalla legge e contemplato da strategie investigative.
Secondo. Nel sistema italiano occorrono meno prove per ottenere una custodia cautelare che per ottenere una condanna. E ciò, nonostante l’apparente paradosso, è un bene. La custodia cautelare è solo una tappa di un’indagine, la sentenza è un punto di arrivo.
Terzo. Non c’è nulla di scandaloso se in un’inchiesta cosi delicata come quella su un omicidio una persona finisce sotto la spasmodica attenzione degli investigatori. E’ un’esperienza terribile per l’indagato, se è innocente, ma l’obiettivo degli inquirenti deve essere quello di arrivare alla soluzione il più presto possibile. E’ plausibile che il magistrato ritenga opportuno, in presenza di indizi gravi, effettuare un pressing psicologico sul sospettato.
Quarto. Gli indizi non sono prove.
Quinto. Se un giudice non convalida un fermo o boccia un arresto non vuol dire che l’indagato è stato assolto, così come il fatto che sia stato arrestato non deve voler dire che è colpevole. La colpevolezza preventiva è una piaga sociale e giornalistica. L’assoluzione preventiva avvelena i sani principi del garantismo.
Sesto. Nello specifico, Alberto Stasi è il colpevole/innocente ideale perché è personaggio. Muto e freddo, può essere etichettato, a seconda dell’umore degli opinionisti e della quantità di birra servita al Bar dello Sport, come spietato o come prudente. Ma la Giustizia non risente degli umori ed è astemia.

La nuova politica

Ieri abbiamo parlato di tecnologia applicata all’immagine virtuale di una regione, anzi Regione. Ci è stato spiegato che la Sicilia su Second Life è un’occasione di promozione importante e che i costi di un esperimento di Wi-Fi (cioè una rete di collegamento internet senza fili) cittadino sono contenuti: diecimila euro. Mi hanno chiesto: diecimila ogni quanto? Al mese? All’anno? Per sempre? Aggiungo: A chi? E come si è arrivati al chi?
Domande semplici, pura curiosità di cittadino. Magari da qualche parte queste risposte ci sono e a me, ma anche ad altri, sono sfuggite. In campo di fondi pubblici comunque mi pare opportuno specificare e, se è il caso, ripetersi.
La comunicazione tra centri di potere e cittadini è il punto cruciale della politica dei nostri tempi. Penso che una linea chiara e paritaria sia l’unica soluzione per ricucire lo strappo nel tessuto della fiducia. A scuola ci hanno insegnato che il ministro è, secondo i padri latini, il servitore: fin qui molti onorevoli hanno spadroneggiato in nome e per conto di quel popolo che li stipendia, irritandosi quando è stata chiesta loro qualche spiegazione (persino da parte della magistratura). Ora siamo a una svolta. Se una carica istituzionale accende un computer e si collega a un qualunque sito che parla di lui (con lui o per lui), ha l’occasione di intervenire direttamente e precisare, spiegare, correggere. In nome e per conto del suo committente, cioè noi. Nell’ipotetico orario di lavoro di un esponente politico dovrebbero essere contemplati meno cocktail e più web; meno sonnellini in aula e più libri; meno estenuanti vertici di partito (spesso vere tombe della ragione) e più appunti quotidiani di cose da fare; meno show in tv e più dibattiti di piazza.
Non è Grillo che ci salverà dalla malapolitica, ma un orologio segnatempo (anche virtuale, sì) nel quale gli onorevoli timbreranno il cartellino della loro presenza effettiva. Ognuno con la propria cartella d’appunti, con un programma da rispettare, che sia su Second Life o in commissione legislativa.
Nel Settecento quelli che difendevano il troppo vecchio e quelli che annunciavano il troppo nuovo venivano bollati, allo stesso modo, di eresia. Oggi viviamo di annunci del troppo vecchio e di difesa del troppo nuovo: l’unica vera eresia è signoreggiare nella cosa pubblica quando non si è padroni.
Comunichiamo, gente, comunichiamo.

Breve assenza

Qualche giorno di assenza per motivi di lavoro. Appuntamento a lunedì prossimo. E mi raccomando, non fate troppo casino!

Il governo del popolo

Grillo che fa politica mi diverte come Prodi che fa il comico, cioè pochissimo. Ma è un mio difetto: sono sempre stato per una precisa separazione di ruoli, carriere, ambiti. Mi piacerebbe vivere in un mondo di specializzati, dove ognuno ha una competenza (tecnica, umana, spirituale) e dove per trasmigrare da un campo all’altro ci vogliono, esami, riflessioni, giudizi qualificati e prove, prove, prove.
Esempio. Se un professionista vuole tentare la carriera politica, deve presentare un programma che non sia un temino delle scuole elementari, ma una bibbia delle sue azioni presenti, future e passate. Vuole abbassare le tasse? Dimostri di averle pagate sempre e correttamente. Vuole rilanciare il mercato immobiliare? Paghi il suo affitto (o il suo mutuo, o entrambi) come gli altri umani, senza privilegi di casta. Vuole lanciarsi in una campagna di legalità a tolleranza zero? Presenti tutte le ricevute delle multe pagate da quando ha preso la patente.
A parte la fondatezza di molte critiche mosse da Beppe Grillo al sistema politico italiano, trovo la sua iniziativa delle liste civiche zoppa dalla nascita. Un governo del popolo, inteso come massa che diventa ora deputato, ora ministro, ora sottosegretario, è un autobus con cento autisti e nessun passeggero. Un governo in nome del popolo è altra cosa: è la politica più seria ed efficace che guida il Paese (i passeggeri) e che sceglie con autonomia dove fermarsi e dove accelerare.
Per guadagnare fiducia, un governo – nel segno della specializzazione delle teste che lo compongono – deve fare scelte impopolari.
E il popolo che fa scelte impopolari non è solo un bisticcio linguistico, è un’utopia che va dritta al caos.

Fischi

Agosto 1989. Keith Jarret sta suonando malissimo al Teatro della Verdura (Palermo). Uno spettatore pagante lo fischia, lui abbandona il palco. Lo spettatore viene allontanato dai carabinieri.
Luglio 1992. Ai funerali di Paolo Borsellino e degli agenti della sua scorta, una folla magmatica e inferocita contesta ministri e vertici delle forze dell’ordine. Oltre ai fischi, calci, pugni e sputi.
Aprile 1993. All’uscita dell’ hotel Raphael di Roma, Craxi, travolto dalle inchieste di Tangentopoli, viene sommerso dai fischi. Ma nella memoria (e nella storia) resta la pioggia di monetine.
Settembre 2007. Nello stesso giorno, sabato 8, un gruppetto di teste vuote fischia Prodi ai funerali di Pavarotti e uno stadio di teste vuote fischia la marsigliese, prima dell’incontro Italia-Francia.
Non ci sono più i fischi di una volta.

Sorpresa: si parla di mafia

Innanzitutto, grazie. Ieri questo blog, nato appena nove mesi fa, ha avuto il suo piccolo record di contatti. Non sono importanti le cifre, questo è un blog personale, fatto in economia: anche 50 visitatori in più sono un successo. Conta invece il tema che ha alimentato l’interesse dei lettori: la mafia.
Dopo le parole chiave slip di vip, sodomia, culi e via smanettando, finalmente una colonna di internauti è approdata su queste pagine per discutere, incazzarsi, approvare o dissentire su un’emergenza non patinata e poco fotogenica come Cosa nostra. La provocazione lanciata un paio di giorni fa (“La mafia ha rotto i coglioni”) è stata raccolta da molti blogger, primi tra tutti Lesandro e Mara. In alcuni forum si discute sull’utilità o meno dello slogan. Ottimo. L’importante è parlarne, dappertutto.
Stamattina sono tornato a fare il giornalista, dopo qualche secolo trascorso in naftalina. E l’ho fatto semplicemente partecipando alla manifestazione di solidarietà per Lirio Abbate, il cronista dell’Ansa pluriminacciato dalla mafia. Passeggiando per le vie di Palermo, in compagnia di colleghi di cui non ricordavo più il volto, mi sono imbattuto in due riflessioni acuminate.
La prima riguarda il sequestro della vittima. Abbate è stato praticamente catturato da esponenti politici, big del sindacato e dell’Ordine per tutta la manifestazione, in uno strano ruolo di preda-simbolo-gonfalone da brandire, mostrare, anzi ostentare. E’ stato molto difficile avvicinarlo e, conoscendolo, immagino che lui avrebbe preferito una passeggiata più informale.
La seconda riflessione riguarda la notizia da cui ha avuto origine tutto ciò. Il Giornale di Sicilia l’ha pubblicata in un taglio basso di una pagina interna, neanche un richiamo in prima. Lirio è siciliano, lavora a Palermo, si occupa di mafia ed ha lavorato per il Giornale di Sicilia. Eppure gli è stato riservato uno spazio minimo rispetto all’entità del fatto.
Nello stesso giorno, invece, La Repubblica – che ha sede a Roma – ha pubblicato un fondo-intervista in prima pagina a firma di un vicedirettore, Giuseppe D’Avanzo. E’ da lì che è nato il movimento di idee e solidarietà che adesso abbraccia Lirio.

Brutte notizie dal Diario

Come si dice, un giornale che chiude è sempre una brutta notizia. Credo che, nel nostro tempo, viviamo sempre più scomodi perché ci sono sempre meno pagine da sfogliare. Il silenzio di una fonte di informazione fa gioire solo gli oligarchi delle leggi ad personam e gli arroganti che delle leggi se ne fregano.
A questo pensavo (e ad altro che non posso riferire) stamattina mentre leggevo l’editoriale del “Diario della settimana”.
“Quello che avete tra le mani è l’ultimo numero di Diario della settimana. Insieme alla carta arriva il nostro ringraziamento a tutti i lettori, i collaboratori, i sostenitori che ne hanno fatto, ne siamo sicuri, una buona esperienza nel panorama del giornalismo e dell’editoria italiana. Domani non ci sarà la nostra settimanale riunione di redazione. Naturalmente siamo tutti tristi. Le e-mail comunque funzionano. Certo che se domani una spontanea ribellione di siciliani attacca i poteri della mafia, ci sarà da mordersi le mani a non avere un giornale. Chiediamo ai siciliani di attendere: aspettateci, non siamo ancora pronti. E così a tutti gli altri. In fondo Diario è sempre stato un giornale ottimista”.
Auguri da siciliano: l’ottimismo non fa parte della cultura della mia terra; per questo, Diario ci serve.