L’ultimo trasloco

Qualche mese fa vi trasmisi le mie angosce per via dei traslochi. Quest’anno ne ho fatti due in otto mesi, con vari traslochini intermedi. Scrivo da un computer di fortuna annebbiato dalla polvere e con tasti come quello della e accentata che non funziona. Intorno a me, macerie di cartoni e sventolii di nastro da imballaggio. Sono senza porte: dalla cucina e’ (notate l’ausiliare ortograficamente artigianale) un solo panorama che finisce nella stanza da bagno. Ingurgito panini con prosciutto ed emmenthal (colazione, pranzo e cena) da due giorni: ho un fegato che sembra un’asse da stiro. Consumo più libretti d’assegni che carta igienica. Dormo poche ore a notte: persino la sveglia mi tira giù dal letto sbadigliando. Uso le sedie come tavoli, i tavoli come armadi, e gli armadi… non ce li ho. Però sono contento, perche’ spero che questo trasloco sia l’ultimo. Purtroppo di “ultimi” traslochi e’ (!!!) fatta la nostra esistenza: come gli ultimi amori, gli ultimi tram, l’ultimo spettacolo e l’ultima notte. In realtà scegliamo di farci male con qualcosa mascherato da novità. La felicità in fondo è uno dei postumi del combinato dolore-fatica.

Amici

Ho rivisto amici che non incontravo da trent’anni. E’ un bel sollievo confrontare le proprie rughe con quelle degli ex ragazzini con i quali hai condiviso la tua gioventù. Ed è una meravigliosa sorpresa scoprire che, in fondo, tu per loro non sei cambiato.
Quanti amici di infanzia abbiamo abbandonato per inerzia, costrizione, o per necessità geografica? Vi siete mai fermati a pensare quante persone, che hanno segnato il vostro cammino negli anni fondamentali della vostra felice incoscienza, vorreste rivedere?
Il tempo – ho capito con colpevole ritardo – è un giudice sommo: diffidate di chi cerca di azzerarlo o di renderlo invisibile. Allontanate immediatamente tutti quelli che si pongono come misura assoluta, con la protervia – ben nascosta – di rendere il presente omnicomprensivo. Siamo, anche, ciò che siamo stati. E nessuno può toglierci le corse in Vespa, le risate in spiaggia, le prime ubriacature, le mezze parole che ci fanno riconnettere con un mondo distante anni luce. Diamoci tempo per i ricordi, ci aiutano per il futuro, senza rimpianti se ben collocati.
Questo – lo so – non è un post popolare. Ma sono felice di aver rivisto i miei amici, che sanno poco di ciò che faccio. Per loro vado bene come andavo. E per questo li ringrazio.

Stadi chiusi per decenni

La domenica appena trascorsa impone una riflessione franca e senza peli sulla lingua. Un giovane tifoso è stato ucciso nei pressi di un autogrill per un tremendo errore da un agente di polizia stradale: per una folle concatenazione di eventi la violenza è poi esplosa a Bergamo e Milano e soprattutto a Roma, dove fanatici si sono scagliati contro stazioni di polizia e la sede del Coni. Altro mi sfugge – l’aggressione ad alcuni giornalisti, le violenze in alcuni campi minori – ma la sostanza è indigeribile, come il fanatismo senza un dio, la mente senza ragione.
Siamo un Paese in emergenza, un coagulo di micce innescate che aspettano solo un fuoco (magari fatuo) per sfogarsi nella detonazione. Qualcuno dovrà pure dirlo, alla faccia delle dichiarazioni di facciata: la morte del povero Gabriele Sandri non c’entra nulla con gli stadi. Era uno che andava a una partita, certo, ma a quale titolo le “tifoserie” (virgolette d’obbligo) hanno deciso di riscattarne la memoria? Se io vengo ammazzato da un agente per errore mentre vado al supermercato, ciò legittima il saccheggio di tutti i supermercati italiani? E soprattutto si è mai vista una mobilitazione di massa contro gli assassini organizzati, contro le bande, le cosche, le consorterie mafiose dei nostri quartieri? E’ mai stata organizzata una spedizione punitiva di ultras, o altri presunti imbecilli, a danno di criminali conclamati come certo non sono le nostre forze dell’ordine?
La risposta cumulativa è: no.
Perchè siamo in un ambito criminale e idiota (il peggiore!) come quello di certo tifo organizzato, che crede di legittimare ogni azione con la prevaricazione vigliacca del numero. Siamo in tanti quindi imponiamo la nostra legge. Siamo in tanti e ce ne fottiamo. Siamo in tanti e rompiamo il culo a tutti. Così funziona in Italia.
Davanti a uno scenario così triste e pericoloso si impongono scelte drastiche. La stessa intransigenza che lo Stato sbandiera nel perseguire il colpevole della morte del giovane tifoso va usata per disinnescare le micce di violenza becera che si aggirano nei pressi dei nostri stadi. Il calcio è un fenomeno accessorio nella vita di una nazione – lo dice uno che lo apprezza – quindi se ne può fare a meno, se le circostanze lo impongono. Ci vogliono stadi chiusi per decenni, squadre retrocesse in serie Z, tifosi in manette, per costruire uno scenario di gioco in cui ancora ci si può divertire. Perché è di un gioco che stiamo parlando, lo vogliamo capire?

Alibi e pizzini

Nel covo del boss Salvatore Lo Piccolo sono stati ritrovati documenti e pizzini che fanno riferimento a molti commercianti che pagano il pizzo e a persone incensurate che hanno un ruolo in Cosa Nostra. Possono adesso cadere molti alibi che hanno frenato la lotta al fenomeno mafioso, primo tra tutti quello della sottomissione forzata degli estorti. Il procuratore di Palermo, due giorni fa, aveva esortato i commercianti a ribellarsi approfittando della debolezza della mafia appena decapitata. Oggi c’è un motivo in più per non sottostare al ricatto: i nuovi nomi di chi paga ci sono, tra poco –speriamo – saranno pubblici. Che senso ha giocare ancora a nascondino?
Le carte “fresche” di Lo Piccolo sono un patrimonio di conoscenza importantissimo: c’è lo stato delle cose, c’è la fotografia più recente della vergogna mafiosa, c’è la prova più pesante del tradimento delle leggi dello Stato.
Adesso via alla ricerca dei riscontri, poi rapide verifiche e una bella scorta di manette. Tira una bella aria a Palermo, finalmente.
P.S. Cari magistrati della Procura, smettetela di farvi la guerra. Avete tanto di quel lavoro da svolgere che per azzuffarvi dovreste mettervi in ferie. E in questo momento c’è bisogno di voi tutti.
Ma di questo parleremo un’altra volta.

Ali ai piedi

Uno dei miei sogni è correre la maratona di New York. Portarla a termine, se non altro. Ho sempre avuto una certa confidenza con scarpette da runner e calzoncini, nel senso che ho macinato moltissimi chilometri a piedi nella mia vita. Non ho mai trovato il coraggio di affrontare la lunga distanza, mi sono cimentato qualche volta nei 21 chilometri. E, nelle chiacchiere con gli amici, sfodero più orgoglio nel dire del mio “storico” 1’,37” (mezza maratona di Roma del 2004) che dei miei libri.
Ieri ho letto le cronache dell’edizione newyorkese di quest’anno: un keniano che vola a 3 minuti per chilometro, una neomamma inglese che bissa il successo, gioia e sudore, muscoli e cervello. Mi sono sentito bene.
La corsa è un ottimo metodo per pensare, per scaricare immondizia cerebrale, per drogarsi di positività. Quando siete tristi o demoralizzati, provate a mandare tutto a quel paese e mettetevi in moto. Poi magari mi dite.

Berlusconi e Berluschino

Sono tentato di scrivere qualcosa di profondamente impopolare tra i frequentatori di questo blog. E siccome ho imparato che cedere alla tentazione è una ginnastica fondamentale per la psiche (e non solo), mi butto.
Un nome: Berlusconi.
Un fatto: Berlusconi assolto dalla Cassazione.
Un ambito: il processo Sme.
Il leader dell’opposizione esce pulito da una grave vicenda giudiziaria. E – siamo all’impopolarità – ritengo che sia una buona notizia. Non siamo stati talmente fessi da farci governare da un corruttore di giudici. Il nostro avversario politico lo battiamo nei seggi delle scuole, non nelle caserme della Finanza. Ci sono giudici, che pur essendo “mentalmente disturbati”, emettono sentenze ponderate.
Ci sono altri argomenti per parlare male dell’ex premier, ma in uno stato di diritto le sentenze devono lasciare il segno. E se – come chi scrive – si è garantisti per indole e non per riflesso politico non si può non tenere conto che esiste un livello di giudizio dinanzi al quale la chiacchiera, l’antipatia e persino il libero convincimento personale devono fare un passo indietro.
Non so se sia stato fatto un uso politico della giustizia, capisco solo che l’inchiesta primordiale non aveva il peso per portare a una condanna: e questo non mi sembra uno scandalo. In un sistema giudiziario ordinario ci sono due parti che si scontrano, quella che apporta gli argomenti più vicini alla verità ha la meglio: consideriamolo come un assioma, altrimenti saremo sempre barche in balia del vento. Mi fa sorridere l’uscita di uno dei difensori di Berlusconi, l’avvocato Pecorella: “E ora chiedetegli scusa”. In un Paese normale bisognerebbe sì chiedergli scusa, ma per un motivo che l’avvocato-consigliori non ha menzionato: un processo – contro Berlusconi o contro Berluschino – non può durare dodici anni.

Il mestiere degli scrittori

C’era uno splendido editoriale ieri sul Corriere della sera, firmato da Claudio Magris (se ve lo siete persi, lo trovate qui). Il tema è quello del ruolo degli scrittori, del valore della letteratura nel destino degli uomini. Da più parti e in varie epoche si è invocata, temuta o combattuta una politicizzazione dell’arte. Da anni, specie nei dibattiti sul cosiddetto romanzo sociale, si chiedono ai narratori strumenti e modi per risolvere i misteri del nostro tempo. Spesso gli si imputa di frequentare un’ideologia piuttosto che un’altra. Ancor più spesso di non sposarne una. Una variante più perniciosa di polemisti addirittura si spinge ad accusare una classe (intesa in senso anagrafico) di scrittori di tradire le proprie origini geografiche e culturali, di debordare rispetto all’orticello nel quale sono nati e cresciuti. E via criticando.
La statura intellettuale di Claudio Magris è tale da togliermi ogni possibilità di manovra nell’adoperarmi per dargli ragione, applaudire e sorridere quasi commosso. Perché chi vive di scrittura sa quanto sia difficile la scelta di questo non mestiere che riempie e svuota al tempo stesso. Lo scrittore non è una persona giudiziosa che pianifica, risparmia, investe. No, è un dannato nato per la sua dannazione che non sa fare altro, e se lo sa fare non gliene frega niente. Vive per le sue storie, che risultino belle o no, che siano pubblicate o cestinate. Si sveglia nel cuore della notte con un’idea in testa e corre ad appuntarsela prima che svanisca a causa della piena coscienza. E’ talmente abituato ai fallimenti che quando inanella qualche successo si chiede dove stia il trucco. Presuntuoso per quanto sia, si sente nudo davanti ai suoi personaggi, che sono la vera incarnazione del suo paradosso: un creatore condizionato dalle vite riflesse che lui stesso ha generato.
Gli scrittori, famosi e sconosciuti, conclamati e in pectore, hanno il compito di inventare un mondo sempre nuovo, pagina dopo pagina. Molti lo fanno gratis, altri lo farebbero gratis. Se non sognano nuove storie, sognano che qualcuno li legga. Invecchiano così, e non chiedetegli altro.

Carcere durissimo

Il 41 bis come una tortura? Un giudice di Los Angeles ha negato all’Italia l’estradizione di un membro della cosca dei Gambino, sostenendo che il regime di detenzione previsto dall’articolo 41 bis della legge sull’ordinamento penitenziario al quale il mafioso sarebbe destinato equivale a una forma di tortura e viola la convenzione dell’Onu.
L’interpretazione non è nuova, già da tempo in Italia una corrente giuridica guarda storto il cosiddetto “carcere duro”. Certo, non si può ribattere a queste critiche negando l’essenza del problema: il 41 bis è un provvedimento estremo al quale si è dovuti ricorrere per fronteggiare una situazione estrema. In quale altro paese moderno i carcerati potevano avere contatti disinvolti con l’esterno, al punto di impartire ordini sui traffici del clan o di commissionare omicidi? In quale altra nazione all’avanguardia era consentito ai detenuti di poter importare stili e vizi di vita libera dietro le sbarre?
La struttura mentale di un mafioso conclamato – cioè nato, cresciuto, invecchiato nel fango di Cosa Nostra – non è facilmente scalfibile. Il carcere come luogo di redenzione e di recupero va bene per chi non ha simili incrostazioni direi quasi congenite. Prendete uno come Provenzano: capo della più grande organizzazione criminale del mondo, sanguinario dalla faccia di mite contadino, imprendibile per 40 anni pur rimanendo a un tiro di schioppo da Palermo… Uno che ha già conosciuto il 41 bis quand’era libero, vivendo in un fetido casolare, con minimi collegamenti con l’esterno. Come si fa a sterilizzare la sua capacità di comunicazione monosillabica ora che è in cella? Come si può impedire a un criminale sanguinario come Totò Riina di esercitare il suo potere sugli altri detenuti (che sono a loro volta cinghie di trasmissione di ordini)?
Con un modo semplice e, lo ammetto, discutibile: isolandoli in modo ferreo.
I mafiosi non sono prigionieri di guerra, sono sanguinari che hanno sgozzato, strangolato, incaprettato e sciolto bambini nell’acido senza neanche un’aberrante “ragione di stato” dalla loro parte. Non si sono ritrovati a dover difendere un ideale o un pezzo di terra, hanno attaccato chi aveva ideali e pezzi di terra. Per spegnere i primi e impadronirsi dei secondi. Non sono neanche, come qualcuno li ha definiti, i ”nuovi barbari” perché, non conoscendo la storia, non sanno neanche di cosa dovrebbero rappresentare il rinnovamento.
C’è una frase che non si scrive in nessun giornale, ma che molte persone oneste, di destra o di sinistra, vittime di mafia o no, colte o ignoranti, siciliane o lombarde, hanno sulla punta della lingua.
La frase è questa: i mafiosi devono marcire in galera.
Con le regole imposte dal 41 bis.

Lettera da un cervello in fuga

Ieri, a proposito della fuga di cervelli italiani all’estero, ho citato Massimo Marino. Massimo è un palermitano, oggi responsabile del settore ricerca scientifica della Apple e capo del progetto ARTS (Apple Research & Technology Support). Ovviamente non vive in Italia da decenni. La sua risposta mi sembra un ottimo spunto di riflessione.

Carissimo Gery, la tua chiosa mi ha fatto pensare. A tante cose. Quest’estate sono stato alla SISSA di Trieste per una conferenza: sforniamo PhD di talento… che poi, spesso per i motivi che citi, vanno quasi tutti all’estero.
Anche il professore, Luca B., con cui abbiamo co-organizzato l’evento, non è più in Italia: niente spazio. Contribuisce ora alla ricerca e all’insegnamento superiore in Francia.
Penso ad una mia ex-collega di Berkeley. Penso a quando, prima di Berkeley, lavorava alla Sapienza di Roma in uno scantinato con odore di muffa e di piscio delle latrine del piano di sopra. A Berkeley ha avuto un budget di un milione di dollari per le sue ricerche e adesso forma giovani fisici americani.
Penso a quante volte in tanti, anche tra i più prossimi hanno detto, con una punta d’invidia, (e scusate il termine): “Massimo, che culo che hai avuto ad andartene”. Ultimo mio fratello. Per lui non ho fatto che avere culo nella vita. Culo con mia moglie, culo con la mia laurea in Fisica, culo per il CERN, culo per Berkeley, culo per…
Non è certo la storia di Capecchi, ma se di culo si può parlare si tratta del culo che ci siamo fatti e che continuiamo a farci dal primo giorno all’estero: grande come una casa.
Tempo fa, mentre eravamo ancora a Berkeley, ricevetti da Forza Italia un questionario destinato “ai cervelli in fuga”, essenzialmente per capire cosa si vorrebbe per decidere di tornare in Italia. Per tutti noi non si tratta di soldi, ma di possibilità, di meritocrazia, di disponibilità, del riconoscimento a volte così diretto ed immediato negli altri paesi. Negli USA mi sono sentito dire: “You all are contributing to the greatness of this country, for this you are as American as we are”.
Che differenza rispetto alla umiliazione e alla frustrazione di tanti bravi ricercatori italiani!
Penso a un mio carissimo amico anatomo-patologo, che ogni tanto “fugge” a San Francisco per fare in tre mesi tanta ricerca quanta ne riesce a fare in tre anni in Italia.
Ripensando alle condizioni per tornare in Italia alla fine ci si rende conto che non saranno mai realizzate. Che fortuna avere culo!
Quindi, carissimo Gery, grazie a nome di tutti quelli che sono fuori. I tramonti sulla Bay Area di San Francisco sono mozzafiato, le montagne svizzere innevate, Ginevra, il lago, un posto ideale per crescere i bambini, Londra, una città eccitante e vivissima… Ma come sarebbe bello se tutto questo lo potessimo avere a Mondello!

Un carissimo abbraccio
Massimo

Il nobel ai cervelli in fuga

Ho letto la storia di Mario Capecchi, il nuovo nobel per la Medicina, prima di andare a dormire. E sono rimasto sveglio a pensare. Poi ho riacceso il computer, stregato dalla vicenda, crudele e felice al tempo stesso, di quest’uomo.
Nelle vene di Mario Capecchi scorre – come si dice – sangue italiano. Il padre scomparso in Africa, la madre prigioniera dei nazisti a Dachau. Un’infanzia di vagabondaggio nella Bassa Padana, furti per sopravvivere, sofferenza per crescere. Poi il ricovero, a opera di un ignoto benefattore, in un ospedale emiliano e il ricongiungimento a sorpresa con la madre. A otto anni la fuga verso gli Stati Uniti. Il resto è la cronaca di un miracolo di determinazione e meravigliosa curiosità. La scuola senza conoscere una parola di americano, l’università, la laurea, i progressi di una mente inarrestabile.
Ciò che mi ha commosso di questo scienziato è la totale assenza risentimenti: verso la Gestapo che ha deportato la madre, verso il regime italiano che ha spedito suo padre al martirio, verso la nazione di cui è rimasto orfano da giovanissimo, verso quel mondo che lo voleva fango e che se lo è ritrovato oro. Alla scuola delle difficoltà non ci sono esami di riparazione. Capecchi incarna il vero, antico, concetto di sopravvivenza, nel senso di vivere sopra. E’ facile, per noi figli di un’epoca tridimensionale, incensarlo adesso. Davanti a lui si può solo stendere un tappeto di ammirazione e scegliere, per quanto è politicamente possibile, di chiamarlo italiano solo ed esclusivamente nel rispetto di tutti gli emigranti vecchi e nuovi. Il nobel al professore Capecchi deve essere un omaggio a tutti quei cervelli in fuga – penso a Lesandro o ai miei amici Mara e Massimo Marino – da eterne emergenze: i disagi sociali, la disoccupazione, i baroni delle università, l’ingratitudine del nostro apparato economico, l’inerzia e la protervia. Onore a tutti voi.