L’arte e la necessità

Vedo un bel film (tranquilli, non faccio il pippone come due settimane fa), leggo un grande libro (magari roba di casa nostra, degli anni ‘70): vivo un buon periodo. Soprattutto perché ho capito – sto capendo – qualcosa di più dell’arte. Prima pensavo che godere di ciò che è bello, interessante, divertente fosse frutto di strane convergenze astrali: ti può capitare solo a certe condizioni, se sei fortunato, se cavalchi una certa lunghezza d’onda.
Invece non è così.
L’arte, come ha detto ieri in tv Roman Polanski, è frutto della necessità. E’ un meccanismo di difesa della nostra natura. Lasciarsi incantare da un quadro, da una canzone, da un romanzo o da un film è un modo, assolutamente biologico, per creare anticorpi contro quelle cellule impazzite che degenerano nel male della superficialità e dell’intolleranza. E’ una cura lenta alla quale tutti dovremmo sottoporci con la certezza che se la scienza non fa miracoli, l’arte almeno ce li racconta talmente bene da farceli sembrare veri.

Palermo, oggi

"12" di Michalkov, un capolavoro


C’è un film che tutti i cineasti di casa nostra, gli sceneggiatori, i dialoghisti dovrebbero studiare. E’ “12” di Nikita Michalkov. L’ho visto ieri e sono rimasto estasiato.
E’ un film “teatrale”, con dodici personaggi chiusi in una stanza: i giurati di un tribunale russo che devono decidere la sorte di un giovane ceceno accusato di aver ucciso il padre adottivo. E’ un film non semplice, molto testo, poco ambiente (a parte alcune incursioni nella violenza della battaglia, che rimane comunque a margine).
“12” è come un libro da sfogliare: pagina dopo pagina, ci si lascia condurre dalle parole che sono magicamente incastrate l’una nell’altra. E’ – a mio parere – una vera prova d’arte, un incanto magnetico che si rivela a poco a poco e che inchioda lo spettatore per quasi due ore e mezza. Un prodotto che tramanda tutta la sapienza di abilissimi artigiani della narrazione, niente trucchi solo sostanza.
L’opera inizia lentamente, fingendosi un semplice remake (la pellicola alla quale si ispira è “La parola ai giurati” che nel 1957 segnò l’esordio alla regia di Sidney Lumet). Poi arriva un monologo di 10 minuti di Sergej Makovetskij, girato con un unico piano sequenza. E lì capisci che sei ostaggio di una immensa potenza narrativa. Non puoi fare altro che inchinarti e seguire le vicende di quei dodici uomini che ti commuovono e che, nello stesso tempo, ti fanno gioire come è dovuto davanti a un’opera d’arte.
Per non farvela troppo lunga, “12” è un film fatto da gente che sa come si racconta, come si interpreta, come si condisce una storia. Un capolavoro nel deserto narrativo che ci circonda.

Abbronzati e imbecilli

Il pugile suonato che sta al centro del ring chiamato Italia non ha più nemmeno le corde alle quali reggersi. Barcolla da una idiozia all’altra credendo che più la spara grossa, più troverà vigore. In realtà Silvio Berlusconi è un personaggio che avrebbe bisogno di una semplice lezione, magari impartita dai suoi correi: se uno dice o fa una cazzata ultraterrena è meglio che stia zitto piuttosto che rilanciare (con altre cazzate).
C’è un mondo intero contro la battuta su Obama: in America il New York Times sta raccogliendo online le migliaia di firme di chi si dissocia dal pensiero (???) del premier italiano. In un momento storico, nel vero senso del termine, le frasi del pugile suonato finiranno agli atti come l’espressione del governo italiano, cioè di tutti noi. E non solo quel “bello, giovane e abbronzato”, ma soprattutto quell’”imbecille” dato a chi – milioni di persone nel pianeta – non ha condiviso l’affermazione di cui sopra.
Se c’è un referendum che si dovrebbe proporre in Italia, è quello sulla sanità mentale di questo signore per cui invecchiare non significa acquisire esperienza, ma rincoglionire e basta. Con la pretesa che tutti invecchino come lui.
Tiè!

Il colore nero

Sarete sazi di informazioni sulla vittoria di Obama negli Stati Uniti quindi sarò breve. Mi ha colpito una frase dello sconfitto, John McCain, un uomo che mi è lombrosianamente antipatico. Però questo signore, ancora con la polvere della disfatta sul volto, ha detto: “L’uomo che era il mio avversario, ora sarà il mio presidente”. Poi si è congratulato con lui e ha lodato il suo “grandioso risultato”.
Se mai ci fosse un vero modello americano da importare, dovrebbe essere questo. In politica le palle si tirano fuori dopo la tenzone, non prima.
E’ un bel respirare, dopo la vittoria di Obama. Non sarà l’uomo dei miracoli, ma è un simbolo che incarna la speranza di un pianeta che va a picco. L’uomo più potente del mondo è un nero che ha vissuto in un paese dove, fino a poco tempo fa, il nero era solo il colore dello sporco, del sudore mai ricompensato, dei canti sommessi nelle risaie.
Per me e per molti, il nero è il colore della musica migliore, dei romanzi più affascinanti, della preziosa diversità. Un futuro nero per l’America è, oggi, il futuro migliore che ci potessimo augurare.

Un tale Marannano

Il giornalista siciliano emergente, secondo la giuria di un premio serio come quello intitolato a Maria Grazia Cutuli, è Vincenzo Marannano. E’ bravo, giovane e modesto: lo dico perchè lo conosco.
Lo hanno premiato per le sue inchieste su un magazine che si chiama “S”, nato da poco.
Quello che dovete sapere è che, in realtà, Vincenzo lavora per un altro giornale. Nel senso che chi gli paga lo stipendio è il Giornale di Sicilia di Palermo. Ma come – vi chiederete – un cronista che è assunto da un’azienda viene premiato per l’opera svolta in un altro posto? Certo. Anzi, se non ci fosse stato quel “secondo lavoro” non se lo sarebbero cagato neanche alla associazione bocciofili di Castelbuono. Perché nel giornale in cui effettivamente lavora, Vincenzo Marannano è impiegato in un certo modo, nel magazine con cui collabora è impiegato in altra maniera: per le contrattuali sette ore e un quarto quotidiane impasta notizie (spesso insulse) altrui, mentre nel tempo libero va a cercare in prima persona le notizie che a quel quotidiano non interessano. E magari, raschiando raschiando, vince anche un premio nazionale.
Vincenzo è il paradigma di un andazzo più che consolidato della moderna editoria: i giornali – soprattutto al Sud – si fanno coi collaboratori; i professionisti servono alla “macchina” (titolare, impaginare, piazzare fotografie, soddisfare l’ultimo desiderio del padrone sfama-famiglie). In Sicilia un piccolo magazine come “S” pubblica quello che su mafia e malaffare non si legge sui quotidiani. E non per coraggio o incoscienza: semplicemente per quella pulsione umanissima che, a seconda delle situazioni, può chiamarsi professionalità oppure buona volontà.
Non voglio fare il provinciale quindi allargo un attimo il tiro e vi chiedo: qual è il segreto di Report (Raitre), l’unica trasmissione che fa giornalismo di inchiesta in Italia? Semplice: il fatto che è l’autrice è Milena Gabanelli, una collaboratrice, cioè una professionista che non è assunta dalla Rai.
Sono un giornalista in quiescenza anticipata, quindi – quando si parla di questi argomenti – consideratemi come un vecchio brontolone dalla panza debordante e dalla digestione difficile.
Però vi prego, almeno a Marannano date conto.

Il cartellino dei giudici

Il ministro Brunetta vuole piazzare i tornelli all’ingresso dei tribunali per controllare quanto lavorano i magistrati. Brunetta non mi sta simpatico, ma accolgo con favore ogni iniziativa – da qualunque parte politica provenga – che renda difficile la vita ai fannulloni. Che siano giudici o impiegati del catasto, che abbiano quattro lauree o la semplice terza media, i lavoratori hanno l’obbligo di non rubare lo stipendio. Forse per essere stata fastidiosamente bersagliata da berluscones e affini, la categoria dei magistrati mi è parsa ultimamente un po’ troppo suscettibile. L’idea del ministro della Funzione pubblica è stata accolta con una levata di scudi dall’Anm: “Lavoriamo fin troppo”; “ci sono colleghi che si portano il lavoro a casa”. Quale migliore occasione di un controllo certificato per evitare abusi e per alleggerire i carichi di lavoro, allora?
In Italia l’allergia al controllo si propaga troppo spesso ai controllori. E in certi momenti c’è un solo metodo per dimostrare la propria onestà: mostrare tasche e documenti. Timbrare il cartellino non è pratica umiliante né contronatura. E’ forse il modo migliore per dimostrare quanto un organico è all’osso e per togliere alibi a chi di alibi infarcisce le proprie azioni.

O.T.
C’è sempre il solito problema tecnico che rende un po’ più difficile postare commenti. Vi ricordo che la procedura più semplice, se non si è loggati a Blogger, è quella di postare come “anonimo” e mettere la firma o il nick name alla fine del commento.
Ge.P.

La libertà di Saviano

La lettera di Roberto Saviano, ieri su Repubblica, ha liberato in me una serie di pensieri che covavano da giorni. Su questo blog abbiamo discusso più volte di Gomorra e gomorrismo, accennando alla situazione oggettivamente incredibile di uno scrittore che vive blindato, strattonato dalla sua scorta per gli allarmi che si susseguono.
Quali che siano i meriti della sua opera, Saviano è un’antenna che deve restare ben dritta senza che malefici colpi di vento non dico la abbattano, ma ne determinino lo spostamento. Nel suo sfogo, lo scrittore racconta di voler cambiare nazione per tentare l’impresa di una vita normale. I maligni possono obiettare: il successo spalanca portoni e chiude qualche porta.
Ma il caso di Saviano è diverso. Semidio, guru, star, oracolo, vip che sia, un artista deve poter frequentare liberamente tutte le stanze della propria fantasia. Il che significa che deve necessariamente passeggiare, schivare (se vuole) i fotografi, guardare un tramonto, innamorarsi, scherzare, farsi moderatamente del male, confrontarsi con gli altri, avere una casa… Altrimenti è un ostaggio chiuso in una piramide di carta – la carta dei suoi stessi libri – dalla quale è quasi impossibile evadere persino col pensiero.
E’ vero, il mito dell’eroe imbronciato e scortato ci ha consegnato un personaggio bifronte: affascinante o antipatico, invidiato o detestato, coraggioso o parolaio. La critica letteraria e il pubblico si sono divisi (in parti non uguali) tra chi accenderebbe il rogo e chi il cero votivo.
Credo che Saviano sia, in questo momento, vittima di un’immensa ingiustizia. La criminalità (che non soltanto attecchisce nell’ignoranza, ma ne genera a sua volta) non deve condizionare la vita di nessuno, men che meno quella di uno scrittore, che è un anticrittogamico contro il non sapere. A Roberto Saviano deve essere garantita la stessa libertà elementare di cui godiamo noi comuni mortali. Solo così il semidio può rimanere sull’altare o essere tirato giù: con la forza del giudizio sulle sue opere.

Amici, parte seconda

Ancora sull’amicizia. E, come preannunciato, qualche caso diverso rispetto a quelli che ho raccontato ieri.
Un amico che ha lavorato con me per molti anni. Stesso ruolo del mio, stessa carica, altissimo rischio di conflittualità quindi. Visione politica differente, vite e scelte diversissime. Mai uno screzio, nonostante la strategia dell’azienda per la quale lavoravamo fu, a un certo punto, quella di metterci in contrapposizione. Ci sono stati periodi in cui ci siamo frequentati di meno, altri in cui ci siamo persi di vista. Eppure, quando serve, la prima telefonata è la sua.
Due amici di recente acquisizione. Passioni comuni, la scrittura tra tutte, che si sono sublimate in lavori comuni. Ridiamo e ci accapigliamo con disinvoltura, ognuno tenendosi stretta la propria dose di permalosità. Ciascuno di noi ha cieca fiducia nelle debolezze dell’altro.
Cinque amici lontani, in altre città, in altri paesi. Tutti realizzati, diciamo pure di successo, nei campi più disparati. In passato sono stato uno specialista in deragliamenti: ogni volta da quelle città lontane arrivava un invito. Ho viaggiato molto.
Un’amica cara ha deciso che ero giornalisticamente defunto e mi ha dato l’occasione di riprendermi quello che avevo perso, senza sconti né franchigie. Oggi campo bene anche grazie a lei.

P.S. Non mi sono dimenticato degli altri. Solo che c’è differenza tra un post e un elenco di ringraziamenti a salma tumulata. Comunque, il cellulare è acceso.

2-fine

I romanzi che curano

Sulla rivista Ok, la salute prima di tutto leggo un interessante articolo sul potere taumaturgico dei romanzi. I più colti la chiamano biblioterapia. Chiunque abbia il vizio della lettura sa che è un metodo che funziona veramente. Quante volte abbiamo annegato la depressione nella carta vergine di un libro appena acquistato? Quante volte abbiamo inseguito il sonno che ci sembrava irraggiungibile saltando al volo sulla penna di uno scrittore? Quante volte ci siamo immedesimati in personaggi fantastici che ci hanno fatto dimenticare il mal di testa? Quante volte…
Dopo aver letto l’articolo, e i suggerimenti in esso contenuti, ho stilato la mia personalissima ricetta. Ve la sottopongo, in attesa delle vostre medicine da sfogliare.
Contro l’ansia: La famiglia Winshaw e La casa del sonno di Jonathan Coe, I delitti di via Medina-Sidonia di Santo Piazzese.
Contro l’insonnia (i libri avvincenti mi fanno addormentare serenamente): Il nome della Rosa di Umberto Eco, Congo di Michael Crichton, Il club Dumas di Arturo Pérez-Reverte.
Contro le emicranie da noia: La grammatica di dio di Stefano Benni, La variante di Lüneburg di Paolo Maurensig, L’elenco telefonico di Atlantide di Tullio Avoledo.
Contro le depressioni sentimentali: Mi fido di te di Abate-Carlotto, Ti prendo e ti porto via di Nicolò Ammaniti, Il tempio delle signore di Eduardo Mendoza.
Controindicazioni: Prima di sparire di Mauro Covacich non è indicato a chi è in stato di prostrazione in seguito a tradimento coniugale, il De profundis di Oscar Wilde è sconsigliato a chi soffre di attacchi di ira, Il minotauro di Benjamin Tammuz non va bene per chi soffre di ossessioni, la gran parte dei romanzi di Andrea Camilleri in cui è protagonista il commissario Montalbano è sconsigliata a chi ha deciso di mettersi a dieta.
Medicina universale (praticamente un meraviglioso placebo). Le lezioni americane di Italo Calvino.